Appunti in tema di quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità della curatela

20 Aprile 2012

L'Autore illustra i criteri generali elaborati da dottrina e giurisprudenza sul problema della quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità esercitate dalle curatele fallimentari nei confronti degli organi sociali, non mancando di prendere posizione sul tema specifico dell'utilizzabilità del criterio del differenziale dei netti patrimoniali nei casi in cui non sia possibile individuare la singola condotta antigiuridica direttamente produttiva di un concreto pregiudizio economico al patrimonio sociale.

Non è infrequente che le azioni di responsabilità esercitate dalla curatela nei confronti degli organi responsabili della gestione di una società di capitali "cadano" per la mancata dimostrazione dell'esistenza e consistenza del danno prodotto.

Il tema è quindi indubbiamente centrale integrando, verosimilmente, l'aspetto maggiormente problematico delle azioni previste dall'

art. 146

l. fall

.

Un approccio teorico che faccia da necessaria premessa ad un tentativo di fornire risposte concrete al problema deve muovere necessariamente dai principi generali.

Il danno è risarcibile, anzitutto, solo in quanto conseguenza diretta e immediata di una condotta antigiuridica.

Esso è inoltre oggetto di un onere di quantificazione nel suo preciso ammontare e, nelle ipotesi in cui ciò non sia possibile, il danno si presta ad una liquidazione, da parte del giudice, che costituisce l'esito di una valutazione di carattere equitativo.

Nell'impostare una causa di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società che sia stata dichiarata fallita, il curatore può avere la fortuna di imbattersi in fattispecie che si prestano ad una facile lettura, sia quanto al profilo della conseguenzialità giuridica, sia quanto ai criteri di quantificazione del danno.

L'esempio più banale che la pratica giudiziaria offre è quello delle condotte di natura distrattiva, cui consegue un danno coincidente con l'importo dissipato o con il controvalore del bene distratto.

Parimenti, ove siano accertate operazioni non inerenti all'oggetto sociale, è abbastanza agevole individuare il pregiudizio economico conseguente, nella misura delle risorse impiegate o dissipate per porre in essere le operazioni stesse.

E lo stesso dicasi per le violazioni di norme tributarie o previdenziali, in cui il danno prodotto coincide con l'importo delle sanzioni irrogate e degli interessi maturati; per gli atti posti in essere in conflitto di interessi, in cui il pregiudizio patrimoniale consiste nelle risorse fuoriuscite quale loro conseguenza diretta.

Si tratta senza dubbio di fattispecie caratterizzate, oltre che dalla possibilità di individuare la violazione di una norma specifica da parte degli amministratori, da una diretta riconducibilità del danno alla condotta antigiuridica posta in essere e dalla possibilità concreta di dimostrare il danno nel suo preciso ammontare.

Da tale novero di fattispecie va in parte esclusa, secondo la tesi oggi maggiormente accreditata, l'ipotesi integrata dai pagamenti preferenziali non più revocabili, in cui il danno non può considerarsi semplicemente corrispondente all'importo del pagamento preferenziale, inteso quale misura della diminuzione della garanzia patrimoniale del debitore, ed in quanto tale suscettibile di recupero con le azioni previste dagli

artt.

146 l

. fall

. e 2393 e 2394 c.c.

In tali casi, infatti, il bene giuridico pregiudicato coincide con la par condicio creditorum, alla cui tutela provvedono le azioni revocatorie fallimentari; il danno è quindi piuttosto integrato dalla sottrazione alla massa dei creditori della differenza tra quanto ricevuto dal creditore preferito e quanto quest'ultimo avrebbe percepito ove fosse stato soddisfatto in moneta fallimentare (Trib. Milano, 18 gennaio 2011).

Detto ciò, va considerato che un numero importante di fattispecie ineriscono alle diverse ipotesi in cui lo stato di dissesto sia conseguenza di una gestione risultata, con il senno di poi, “cattiva” (mala gestio ) o, addirittura, dissennata.

In tali casi i profili inerenti, da un lato, alla prova della consequenzialità giuridica tra condotta antigiuridica e danno, e, dall'altro, alla quantificazione del pregiudizio patrimoniale prodotto, si offrono a soluzioni più complesse, che sfociano necessariamente nel ricorso ad una valutazione di carattere equitativo, intesa a compensare l'impossibilità concreta di determinare il danno nel suo preciso ammontare.

Come noto, i criteri elaborati dalla giurisprudenza, negli anni, sono stati nella sostanza quello del cd. deficit fallimentare e quello del differenziale dei patrimoni netti (o perdita incrementale).

Il primo dei due criteri induce a determinare il danno prodotto in una somma di denaro coincidente con la differenza tra l'attivo ed il passivo fallimentare.

Si tratta di un parametro comunque caratterizzato da un'elevata dose di approssimazione, sia perché non è certo che le passività coincidano con la somma delle domande di ammissione presentate dai creditori, sia perchè l'attivo risente necessariamente della svalutazione di alcuni beni direttamente riconducibile alla dichiarazione di fallimento (si pensi a beni immateriali quali l'avviamento o a taluni marchi).

Proprio a causa dei suoi limiti, verosimilmente, il criterio del deficit può avere un utilizzo concreto in due sole fattispecie.

La prima è quella della mancanza, falsità o totale inattendibilità della contabilità e dei bilanci della società dichiarata fallita, situazione che determina l'impossibilità di ricostruire la movimentazione degli affari dell'impresa e quindi il necessario ricorso ad un criterio scevro da agganci a precisi parametri.

La seconda è quella in cui il dissesto sia stato cagionato da un'attività distrattiva così reiterata e sistematica, da escludere la possibilità concreta di una quantificazione parametrata sul valore dei beni distratti e dissipati.

Va peraltro considerato che il ricorso da parte delle curatele fallimentari a tale criterio è piuttosto infrequente, per il solo fatto che colui che gestisce un'attività di impresa in totale spregio alle regole non di rado si premura per tempo, cioè assai prima che l'insolvenza si manifesti esteriormente, di non avere un patrimonio aggredibile dai creditori, donde la non convenienza dell'esperimento di un'azione di responsabilità civile.

Ed è ovvio che di ciò il curatore fallimentare debba tener conto, evitando inutili costi per spese processuali, a prescindere dall'eventuale fondatezza delle relative cause risarcitorie.

Al contrario del deficit fallimentare, il diverso criterio del cd. differenziale dei netti patrimoniali trova frequente utilizzo, specie nei casi in cui sia possibile ricostruire la movimentazione degli affari dell'impresa e concludere che, nel caso in cui la gestione caratteristica non fosse proseguita sino al momento dell'apertura del concorso dei creditori, ma fosse cessata prima, la perdita di patrimonio sociale sarebbe stata inferiore.

In tali ipotesi l'antigiuridicità della condotta degli amministratori discende dai principi dettati dall'

art. 2447 c.c.

, che impone, unitamente a quelli di cui agli

artt. 2485

e

2486 c.c.

, la convocazione dell'assemblea dei soci per l'adozione di una delibera "salvifica

" (trasformazione o ricapitalizzazione), o, in difetto, la messa in liquidazione della società, in tutti i casi in cui la perdita di esercizio abbia l'effetto di ridurre il capitale sociale (ma, rectius: il patrimonio netto) al di sotto dei limiti fissati dalla legge.

L'apertura della fase della liquidazione comporta il mutamento dell'oggettodell'attività, che non sarà più la gestione caratteristica, ma sarà esclusivamente quella non incompatibile con la conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale.

La premessa serve per chiarire che il curatore fallimentare, che voglia esperire un'azione di responsabilità per violazione dei visti obblighi di gestione non lesiva dell'integrità del patrimonio, deve quindi dedurre che in epoca successiva alla perdita o riduzione del patrimonio netto siano stati posti in essere atti gestori estranei ad una logica meramente conservativa.

L'applicazione del criterio esige pertanto, anzitutto, che si individui il momento a partire dal quale l'attività d'impresa è proseguita indebitamente.

Tale momento può coincidere con la diminuzione del capitale sociale al di sotto dei limiti di legge (

art. 2447 c.c.

), da cui, come visto, discende per l'amministratore l'obbligo di iscrizione della causa di scioglimento al registro delle imprese e la convocazione dell'assemblea per la messa in liquidazione della società; o, in alternativa, con il determinarsi dello stato di insolvenza, che impone all'organo gestorio di presentare il ricorso diretto ad ottenere la dichiarazione del proprio fallimento.

I due momenti possono non coincidere, ben potendo l'uno precedere l'altro.

Un imprenditore può infatti essere insolvente ed avere ancora un patrimonio netto esuberante rispetto ai limiti minimi di legge o, al contrario, avere ancora la possibilità di accedere al credito, e quindi di pagare i propri fornitori, nonostante le perdite di esercizio abbiano eroso integralmente il patrimonio netto.

La seconda operazione, più agevole della prima, consiste nell'individuare il momento della dichiarazione di fallimento o, se c'è stata, della messa in liquidazione antecedente alla dichiarazione di fallimento, e ciò al fine di calcolare la differenza tra il valore del patrimonio netto alla data iniziale, quella in cui l'attività di gestione caratteristica doveva cessare, ed il valore del patrimonio netto al momento finale in cui, per il fallimento (o per l'anteriore messa in stato di liquidazione), la gestione caratteristica è effettivamente cessata.

La differenza equivale al danno prodotto dall'indebita prosecuzione dell'attività.

L'accertamento di un delta negativo tra le due situazioni patrimoniali di riferimento assolve quindi ad una duplice funzione: dimostrare l'effetto lesivo per l'integrità patrimoniale della prosecuzione nell'attività d'impresa e quantificare il danno conseguente.

Non va taciuto che la giurisprudenza di legittimità ha formalizzato in diverse pronunce una serie di rilevi che si risolvono in un'obiettiva difficoltà di utilizzazione del visto criterio di quantificazione del danno: "non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell'attività d'impresa, potendo essa in parte prodursi anche in pendenza di liquidazione o durante il fallimento in ragione del venir meno dell'efficienza produttiva e dell'operatività dell'impresa… (

Cass. 23 giugno 2008, n. 17033

); “il pregiudizio derivante da specifici atti illegittimi imputabili agli amministratori non deve essere confuso con il risultato negativo della gestione patrimoniale della società (…) lo sbilancio patrimoniale può avere cause molteplici non necessariamente tutte riconducibili a comportamento illegittimo dei gestori e dei controllori della società (…) la sua concreta misura dipende spesso non tanto dal compimento di uno o più atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce: ossia da attività sottratte per loro natura al vaglio di legittimità del giudice” (

Cass. n. 3032/2005

;

Cass. n. 2538/2005

).

Alcune di tali pronunce si risolvono nell'esplicita negazione dell'utilizzabilità del criterio del differenziale dei netti patrimoniali, muovendo dalla premessa secondo cui la complessiva gestione amministrativa, nella sua discrezionalità, è sottratta al vaglio giurisdizionale, al contrario dei singoli atti antigiuridici direttamente causativi di un danno specifico.

In verità, la tesi secondo cui sarebbe sempre necessario individuare la singola operazione o le singole operazioni gestionali produttive di danno non pare inattaccabile, urtando concettualmente con la realtà dell'impresa, intesa come attività coincidente con un sistema complesso e dinamico di scelte che, in quanto tale, mal si presta ad un'operazione di parcellizzazione.

Proprio in quanto parte di un tutto, il singolo atto di gestione mal si presta (salvo i casi di manifesta illiceità) ad una valutazione che prescinda dalla complessiva attività posta in essere nel tempo dall'organo amministrativo.

Se quindi non v'è dubbio, in termini di principio, che la curatela abbia l'onere di indicare quali operazioni, poste in essere in una prospettiva di continuità aziendale giuridicamente non consentita, abbiano leso l'integrità del patrimonio sociale, al netto dell'eventuale ricavo (ad es: acquisto o locazione finanziaria di un macchinario risultato inutile per mancanza di contratti con la clientela), è altrettanto indubbio che tale onere di allegazione sia di impossibile assolvimento, laddove il curatore accerti la risalenza nel tempo del momento in cui collocare la perdita del capitale rispetto al momento dell'apertura del concorso dei creditori, specie se l'attività d'impresa sia stata varia e complessa.

In tali casi si è in presenza di un'oggettiva difficoltà di individuare le singole operazioni non coerenti con il fine conservativo, donde l'ammissibilità del ricorso ad un criterio (presuntivo) fondato sull'imputazione causale alla condotta antigiuridica della perdita patrimoniale.

La conseguenza è che si potrà ritenere assolto l'onere di allegazione quando la curatela fallimentare avrà dedotto che la perdita del capitale risalga ad un momento antecedente alla dichiarazione dello stato di insolvenza o alla formale messa in stato di liquidazione della società, e allegato che gli amministratori abbiano proseguito nella gestione, determinando un'ulteriore diminuzione del patrimonio sociale.

La maggior perdita registrata rispetto al momento in cui la società avrebbe dovuto cessare di operare con la gestione caratteristica può essere considerata quale indice della condotta antigiuridica posta in essere in violazione del disposto di cui all'

art. 2447 c.c.

Ciò premesso, il principale correttivo si sostanzia nel rendere omogenee le situazioni patrimoniali da comparare.

La situazione patrimoniale iniziale, oggetto di raffronto, va depurata delle poste dell'attivo la cui valorizzazione si giustifichi esclusivamente in una prospettiva di continuità aziendale (avviamento, immobilizzazioni immateriali, ammortamenti).

Inoltre le rettifiche operate sul primo bilancio, quali tipicamente quelle effettuate per correggere omesse svalutazioni di voci attive finalizzate ad occultare una perdita, vanno ripetute anche sul secondo bilancio posto in comparazione (ad es. un credito inesigibile, eliminato come tale dalla situazione patrimoniale iniziale, va eliminato anche dalla situazione patrimoniale successiva).

Ancora, poiché anche attività di mera liquidazione implicano costi e oneri ineliminabili, che in quanto tali non possono però imputarsi a titolo di danno,

nel determinare la differenza tra i patrimoni netti non potrà tenersi conto di tutti quei costi che sarebbero stati affrontati anche nel caso di pronta messa in liquidazione (dipendenti che sarebbero comunque rimasti in forza; canoni di locazione dei locali, canoni di leasing, costi per prestazioni professionali necessarie anche nella fase di liquidazione e così via).

Naturalmente, qualora nel corso della gestione sociale si fossero succeduti più amministratori, occorrerà stabilire l'incremento di deficit creatosi nel periodo in cui ciascuno è stato in carica.

Nei casi più complessi il curatore, per verificare la fondatezza delle sue allegazioni, avrà facoltà di chiedere l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio.

La consulenza tecnica, per non essere esplorativa, dovrà essere funzionale alla dimostrazione della fondatezza della prospettazione della curatela, che avrà l'onere di individuare il momento della perdita del capitale sociale, indicando le rettifiche delle poste inserite in bilancio che ritiene necessarie, previa eliminazione dei valori la cui esistenza si giustifica soltanto in una prospettiva di continuità aziendale; di individuare le operazioni non conservative o comunque gli indici della prosecuzione dell'attività d'impresa caratteristica (ad esempio il notevole lasso di tempo trascorso e/o l'incremento o la stabilità dei costi nel conto economico dell'esercizio successivo a quello in cui si sostiene che il capitale sia andato perso); di individuare il danno alla luce della comparazione tra situazioni nette patrimoniali, senza poter tenere conto dei costi che la società avrebbe comunque dovuto sostenere, se anche fosse stata prontamente posta in liquidazione; infine di specificare, nel caso di successione di amministratori nel tempo, per quale parte la perdita, e quindi il danno, sia imputabile a ciascuno degli amministratori stessi.

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