Report sulla fallibilità delle società “in house”

Alessandro Di Majo
28 Maggio 2014

L'Autore affronta il tema delle società "in house", facendo il punto sugli orientamenti giurisprudenziali e sulla prassi circa la fallibilità o meno degli enti a partecipazione pubblica.

Nel corso di un convegno tenutosi a Napoli il 20 marzo 2014 è stato affrontato l'argomento riguardante la fallibilità o meno delle società c.d. in house, ossia quelle società di capitali che hanno congiuntamente i seguenti requisiti: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione ad un controllo dell'ente pubblico partecipante analogo a quello che questo esercita sui propri organi.

Mentre sembra ormai pacifica la fallibilità delle società a capitale misto pubblico – privato (

Cass. n. 22209/13

, in ilFallimentarista.it con nota di P. Pizza, La Cassazione chiarisce che le società a partecipazione pubblica sono assoggettabili a fallimento. Fine di un problema?

), in assenza di una espressa disposizione di legge che preveda l' “immunità” per questo tipo di società, dubbi sono sorti in merito alla fallibilità delle società a totale partecipazione pubblica e nella presenza dei requisiti menzionati (in house). Difatti, dette società non sarebbero fallibili, in quanto non sarebbero altro che delle “articolazioni organizzative” dell'ente pubblico (socio) controllante, società prive quindi di una autonoma soggettività.

Se, dunque, la società in house è una longa manus dell'ente controllante, ciò comporta che i relativi patrimoni, pur separati, non sono pienamente distinti quanto alla loro titolarità (

Cass., S.U., n. 26283/13

;

Trib. Napoli 20 gennaio 2014

e

Trib. Verona 19 dicembre 2013

).

Gli organi e dirigenti della società sono dunque assimilabili agli amministratori e dirigenti (di enti) pubblici, anche ai fini della responsabilità per danno c.d. erariale, con la giurisdizione della Corte dei conti invece del giudice ordinario.

E' da evidenziare che detto (ultimo) orientamento giurisprudenziale comporterebbe l'eventualità che anche il socio e/o i soci pubblici non abbiano a potersi difendere, quanto alla loro responsabilità patrimoniale, dietro lo schermo della personalità della società, specie di quella a responsabilità limitata, schermo che verrebbe meno.

Ove invece ricorra, senza alterazioni, la “forma” della società quale prevista dal codice civile, lo Stato o l'ente pubblico socio ne deve rispettare il regime proprio, assumendo quindi tutti i rischi dell'attività per mezzo di essa esercitata (ad es. in caso di insolvenza). Ove invece si ritenesse che, anche in tal caso, come nelle società in house, l'interesse pubblico dello Stato o ente socio venga a sovrapporsi totalmente all'interesse societario, vi sarebbe una palese violazione dei principi di uguaglianza, di concorrenza e di salvaguardia dei terzi, le cui sorti dipenderebbero dall'apprezzamento del pubblico interesse.

In ogni modo, considerati i confini spesso assai labili nelle forme delle società, cui lo Stato o l'ente pubblico partecipa, sarebbe

opportuno un più puntuale intervento in sede legislativa.

In particolar modo, si pone l'esigenza di un chiarimento normativo in riferimento alla questione del dissesto delle società a totale partecipazione pubblica, specie ove esse si trovino ad esercitare un pubblico servizio (si pensi al servizio di raccolta dei rifiuti).

Ove si ritenessero non applicabili le norme di cui alla

legge fallimentare

, specie in ordine all'interruzione del servizio e al licenziamento dei dipendenti, una strada percorribile potrebbe essere quella dell'applicazione dei procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento, procedimenti piuttosto articolati e macchinosi, che si possono definire come un “ibrido” tra il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti (v.

L.

n. 3/2012

).

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