L'INPS infierisce e diventa l'unico creditore favorito dal fallimento. Il punto sul costo dei licenziamenti

05 Novembre 2013

Alla luce dell'entrata in vigore della Riforma Fornero, l'Autore analizza i rapporti tra il fallimento dell'impresa datrice di lavoro e il licenziamento dei lavoratori, occupandosi, in particolare, delle problematiche e dei disagi applicativi emersi in relazione al contributo d'ingresso dovuto all'ASpI ex art. 2, comma 31, l. n. 92/2012, e del costo dei licenziamenti collettivi all'interno delle procedure concorsuali.
Premessa

L'entrata in vigore della Riforma Fornero, parzialmente rivista dal

D.L.

n.

76/2013

, ha innegabilmente suscitato profonde riflessioni destinate a snidare la volontà sottesa del legislatore. I dubbi interpretativi generati dal testo di legge hanno infatti reso complessa l'applicazione immediata degli istituti novati con il rischio di incorrere in passi falsi.

Neanche la lettura del testo coordinato alla disciplina previgente ha agevolato la certezza del diritto, tanto da investire gli interpreti della definizione compiuta delle più adeguate tesi interpretative. Tale incertezza ha portato alla paradossale situazione per cui anche la prassi, guidata dalla ratio ispiratrice, si è dovuta avocare il compito di completare la Riforma.

Questo sistema si è dimostrato assai fragile, come dimostra ad esempio la querelle tuttora in corso tra Ministero del Lavoro ed Inps

circa la soggezione al contributo addizionale pari all' 1,4% finanziatore dell'ASpI.

L'Inps,

che ben sarebbe interessato a puntellare detta soggezione anche ai rapporti a termine assunti dalle liste di mobilità, nella propria circolare 44/2013 ne afferma proprio l'esenzione; tesi presto smentita dal Ministero con l'interpello 15/2013.

l

'Istituto però ad oggi continua a non adeguarsi, minando fortemente l'operatività quotidiana delle aziende.

Sembra proprio che l'introduzione del nuovo ammortizzatore sociale ASpI, volto ad assorbire l'indennità di disoccupazione e dal 1 gennaio 2017 anche l'indennità di mobilità, sia destinato a provocare notevoli disagi applicativi; in modo particolare il tema che andremo qui a sviscerare inerisce proprio ai dubbi che sorgono dalla relazione tra il licenziamento nel fallimento e gli obblighi connessi al nuovo ammortizzatore.

Licenziamenti e fallimento: a che punto siamo?

Non vi è certo la necessità di rivedere tutto quanto già è stato scritto in merito al tema dei licenziamenti nel fallimento. Non ci si può però esimere da alcune puntualizzazioni.

Innanzitutto merita chiarire un falso problema prospettato da una parte della dottrina

, sovente preoccupata di ribadire che il fallimento non rappresenta una giusta causa di licenziamento. Tale evidenza deriva dal puro testo letterale dell'

art. 2119 c.c.

al cui secondo comma si legge:

Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il

fallimento

dell'imprenditore

(…)

”.

Ma davvero qualche curatore ha mai pensato alla giusta causa come motivazione per un licenziamento derivante dal fallimento?.

è

del tutto evidente che il fallimento in sé non possa essere considerato - nemmeno dall'operatore meno esperto - una giusta causa, ma ciò non esclude certo che il fallimento possa operare come giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Tale tipologia di recesso assume oggi, dopo la Riforma Fornero, la più aderente denominazione di licenziamento “economico”.

E quale situazione economica più compromessa rispetto ad un fallimento potrebbe verificarsi?

Resta inteso quindi che la procedura di fallimento può sostenere chiaramente la motivazione del GMO. L'unico scrupolo che il curatore dovrà adottare sarà quello di chiarire in modo circostanziato le motivazioni economiche che ruotano attorno al fallimento e l'impossibilità di mantenere in forza il lavoratore, oltre ad avviare le procedura ex art. 7

l. n.

604/66

in caso di requisito occupazionale soddisfatto.

La

l. n.

92/2012

ha infatti imposto per tutti i licenziamenti l'obbligo di motivazione, senza definirlo nei suoi contorni essenziali, rendendo certamente incompleta la semplice dicitura “licenziamento per giustificato motivo oggettivo per fallimento”.

L'altra precisazione rilevante in tema di licenziamento trae spunto dalla decisione della Suprema Corte 14 maggio 2012, n. 7473, con cui ha sancito definitivamente l'applicazione, a parere di chi scrive indiscussa anche in precedenza, dell'

art. 72 l. fall. ai rapporti di lavoro

.

Ne deriva pertanto che, dalla dichiarazione di fallimento fino all'irrogazione del provvedimento di licenziamento, i lavoratori risultano sospesi dal lavoro: mancando di conseguenza la prestazione che innesca il sinallagma, non matura diritto alla retribuzione.

Da parte sindacale questa interpretazione è stata spesso contestata, come si nota dalle comunicazioni di messa a disposizione dei lavoratori che sovente giungono al curatore a partire dal momento del fallimento.

Non si può negare però che il curatore spesso non conosca nemmeno il numero dei lavoratori occupati o non possieda un indirizzo preciso ove spedire loro la missiva.

Inoltre spesso nelle procedure emerge l'esigenza di attendere un tempo congruo per stabilire l'eventuale continuazione dell'attività o per valutare i requisiti per il ricorso agli ammortizzatori sociali. In tutte queste situazioni è necessario tutelare il curatore dal perdurare dell'obbligo di pagamento delle retribuzioni.

In questo tema interviene la sentenza citata, secondo cui:

(…)

per effetto della dichiarazione di fallimento, in presenza di cessazione di attività aziendale, il rapporto di lavoro, pur essendo formalmente in essere, rimane sospeso fino al licenziamento. In difetto del requisito di sinallagmaticità non è quindi configurabile una retribuzione

(…)

Una prassi che chi scrive si sente di consigliare al fine di chiarire in modo incontrovertibile la posizione del curatore verso i dipendenti è quella di recapitare ai lavoratori conosciuti al momento del fallimento una comunicazione del seguente tenore: “(…) alla luce della sentenza dichiarativa di fallimento del (...) il Suo rapporto di lavoro si intende sospeso

ex art.

72 L

.F.

, senza maturazione della retribuzione. Nel momento in cui questa curatela avrà contezza dell'intera forza occupazionale dell'azienda e dello status di questa, nonché della possibilità o meno di continuazione dell'attività con possibile salvaguardia dei livelli occupazionali, procederà tempestivamente a comunicarLe ogni decisione sul Suo rapporto di lavoro …” .

Ticket ASpI: un contributo anomalo

Fin dalla prima lettura della Riforma Fornero, il contributo d'ingresso all'ASpI ha lasciato sicuramente perplessi, tanto che la stessa fonte che ne prevede il versamento,

art. 2, comma 31,

l. n.

92/2012

, è stata più volte riscritta fino ad individuarne la debenza in via definitiva “… nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, darebbero diritto all'ASpI …”.

Balza subito all'attenzione dell'operatore come il contributo risulti quindi dovuto anche in caso di licenziamento per giusta causa.

E qui si verifica la prima anomalia. Si pensi, in via puramente esemplificativa, al datore di lavoro che si vede costretto ad avviare una procedura finalizzata al licenziamento disciplinare in conseguenza di un furto subito ad opera di un dipendente. Dopo aver sospeso e, successivamente alla conclusione della procedura, licenziato per giusta causa senza preavviso il dipendente colpevole, lo stesso datore di lavoro si vedrà costretto a versare un contributo per agevolare la fruizione dell'ASpI a favore del cessato. Di conseguenza il datore vessato si vedrà privato del bene sottratto indebitamente (danno), nonché onerato di una versamento consistente nei confronti dell'Inps (beffa).

A completamento dell'anomala disciplina si deve considerare come l'Inps

, in assenza di chiari indirizzi assenti in un testo di legge incerto, ha interpretato il calcolo del contributo nel modo più gravatorio possibile. Il testo di legge, infatti, al comma 31 dell'art. 2 specifica come il contributo dovrà corrispondere ad una somma pari al 41% del massimale mensile ASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni, senza alcuno specifico richiamo alla possibilità di riproporzionare le quote alle frazioni d'anno. L'Istituto, di contro, ha precisato come debbano essere considerate non solo le frazioni d'anno, bensì le frazioni di mese superiori a 15 giorni, che saranno conseguentemente considerate come mese intero. Questo criterio di maturazione della quota di contributo (4) obbliga altresì le aziende al versamento anche in caso di licenziamento per mancato superamento del periodo di prova.

Ma il nostro interesse è stato attratto dalla mancata previsione (per dimenticanza???) dell'esonero dal versamento nel caso di licenziamento intervenuto post-sentenza di fallimento. Sembrava infatti quanto mai improbabile che il Legislatore intendesse gravare di un costo così importante le procedure concorsuali, eppure dal testo non si desume alcuna esimente specifica, così determinandosi di fatto una frattura netta tra i licenziamenti collettivi e quelli individuali, frattura che pesa quindi esclusivamente sulle aziende poste al di sotto della soglia dei 15 dipendenti.

Licenziamenti collettivi e tasse d'ingresso

m

erita un approfondimento la questione del costo dei licenziamenti collettivi all'interno delle procedure concorsuali, soprattutto in relazione al momento di intimazione del licenziamento.

Le procedure di licenziamento collettivo, limitatamente al caso in cui i licenziamenti diano diritto alla percezione dell'indennità di mobilità, prevedono un adempimento connesso all'avvio, consistente nel versamento in trenta rate mensili di una somma pari a sei volte il trattamento mensile iniziale di mobilità spettante al lavoratore. Tale somma è ridotta alla metà quando la dichiarazione di eccedenza del personale di cui all'articolo 4, comma 9, abbia formato oggetto di accordo sindacale. L'art 3, comma 3, della medesima legge esonera dal versamento del contributo d'ingresso alla mobilità il licenziamento intimato dal curatore, liquidatore o commissario giudiziale quando non sia possibile la continuazione dell'attività.

Considerata la generica previsione di esonero, negli anni è risultata dubbia l'individuazione precisa del momento in cui la tassa d'ingresso doveva considerarsi certamente non dovuta.

In linea generale l'Inps,

destinataria del contributo d'ingresso, ha sempre ritenuto comunque dovuto il contributo per le mobilità avviate precedentemente all'omologazione del concordato preventivo.

Con sentenza

3579/2003 la Corte di Cassazione

ha statuito però in modo inequivocabile l'esonero per le aziende in concordato preventivo per cessio bonorum anche quando la procedura sia avviata nel periodo precedente alla sentenza di omologazione. Inutile precisare come tale sentenza risulti molto favorevole, specie se combinata – con effetto cronologiacamente estensivo - con le nuove procedure di concordato “in bianco” introdotto dal Decreto Sviluppo.

Ticket ASpI nel fallimento

Sembra evidente come la nuova disciplina rischi di realizzare un trattamento disparitario tra le aziende di maggiori dimensioni, che possono attivare la procedura di mobilità e quindi ritenersi esonerate dal versamento della tassa d'ingresso, e le aziende con forza occupazionale inferiore ai 15 dipendenti. Queste ultime, infatti, subiscono concreto pregiudizio per come è stata conformata la norma introduttiva del contributo ASpI, non sembrando prevedere alcun esonero per le aziende che occupano – appunto - meno di 15 dipendenti.

Il computo dei dipendenti sembrerebbe poi doversi fare con riferimento ai sei mesi precedenti la richiesta di cigs ante mobilità, se richiesta, o nei sei mesi ante avvio della procedura ove non preceduta dalla cigs, in quanto l'esclusione opera proprio con riferimento ai datori tenuti al versamento del contributo d'ingresso nelle procedure di mobilità ex art. 5, comma 4, L. 223/1991. Considerato che le aziende insolventi subiscono la sentenza di fallimento spesso in un periodo di diminuzione dell'organico, risulta determinante il computo occupazionale verificabile con riferimento al semestre precedente alla sentenza.

Tale possibile lettura creerebbe le seguenti situazioni limite:

  1. Aziende con meno di 15 dipendenti alla data dei licenziamenti: risulterebbero gravate del contributo ASpI;

  2. Aziende con più di 15 dipendenti che intendono però proseguire l'attività dopo la sentenza di fallimento: nel caso prevedano il licenziamento di solo una parte dei lavoratori, ma non in numero tale da attivare la procedura di mobilità, risulterebbero comunque gravate del contributo d'ingresso;

  3. Aziende che successivamente alla sentenza dichiarativa cedono un ramo, licenziando però i dipendenti non interessati dal passaggio: nel caso in cui questi siano meno di 5 in 120 gg. le aziende si vedrebbero costrette a versare il contributo ASpI nonostante la media occupazionale risulti superiore a 15 dipendenti nel semestre precedente;

  4. Gruppi di aziende che falliscono: le aziende più grandi non risultano onerate di alcun balzello, mentre quelle più piccole sono pienamente assoggettate dal contributo ASpI.

A fronte delle anomalie elencate pareva davvero difficile pensare, in prima lettura della Riforma, a qualcosa di diverso da una svista del legislatore.

Nel silenzio della norma, però, la necessità di tutelare la procedura obbligava a considerare dovuto il contributo in tutte le situazioni “anomale” elencate. Ma a questo punto la questione poteva complicarsi allorquando risultava necessario stabilire come eseguire questo adempimento. Pare infatti logico pensare che una attribuzione al contributo della prededucibilità potesse incidere in modo fortemente pregiudizievole.

A parere di chi scrive, per stabilire se il fallimento debba versare il contributo in prededuzione, occorre necessariamente scindere il tema in due diverse casistiche:

  1. il primo caso corrisponde al curatore che, una volta dichiarato il fallimento, si vede costretto a licenziare tutti i dipendenti in quanto non si ravvisano ipotesi conservative che possano assistere la continuità dell'attività;

  2. il secondo caso corrisponde invece alla possibile continuazione dell'attività, che solitamente nelle procedure concorsuali necessita comunque di un “dimagrimento” della forza occupazionale, operando quantomeno alcuni licenziamenti.

Nel primo caso non pare potersi considerare il contributo ASpI come un costo prededucibile, tanto in previsione di una procedura di mobilità imposta dall'

art. 24

l. n.

223/91

, quanto in previsione di licenziamenti economici plurimi intimati da azienda che occupa meno di quindici dipendenti. Infatti in queste situazioni l'attività non pare proprio ripartire, pertanto non si vede secondo quale logica il curatore dovrebbe ritenersi onerato di un versamento generato dall'occupazione dei dipendenti, quando questi non opereranno nemmeno un giorno in azienda.

A sostegno di questa linea consideri può farsi ancora richiamo alla citata

Cass. sez. lav. n. 7473/2012

, laddove precisa come, per effetto della sentenza di fallimento, il rapporto di lavoro rimanga sospeso fino al licenziamento, senza produrre effetto alcuno. Continua poi la Suprema Corte assumendo che, non essendoci alcun obbligo retributivo, non può sorgere alcun obbligo contributivo: pertanto, nel caso di specie, trattandosi di somma da versare a mero titolo contributivo, non potrebbe considerarsi dovuto il titolo in prededuzione.

La stessa soluzione si ripropone poi esaminando quell'istituto generato dal licenziamento, rappresentato dall'indennità sostitutiva del preavviso. Anche in questo caso, infatti, la

Cassazione, con sentenza 18565/2008

, precisa che il credito da lavoro può ritenersi suscettibile di soddisfazione in prededuzione solo quando vi sia stata gestione del rapporto da parte del curatore. In caso contrario, il credito potrà essere soddisfatto solo come concorsuale. Stessa sorte pertanto toccherà al contributo ASpI.

Se per il primo caso l'Inps

dovrà insinuarsi al passivo come creditore concorsuale, non altrettanto invece dovrà fare nel secondo caso. Quando, infatti, l'attività presenta possibili scenari di continuità risulta sicuramente una libera scelta quella del numero di persone con le quali continuarla. Pertanto, seguendo una logica coerente, non potranno applicarsi le sentenze citate, posto che la continuazione del rapporto riattiva il nesso sinallagmatico dal quale scaturiscono tutti gli obblighi del caso.

L'Inps ed una lettura coraggiosa della norma

L'interpretazione dell'Istituto si è fatta un po' attendere, considerato che dall'entrata in vigore del contributo ASpI ad oggi molti fallimenti sono stati dichiarati e molti licenziamenti ne sono conseguiti. La lettura divulgata per il tramite del

messaggio 10358 del 27 giugno 2013

non poteva che essere di parte, quindi favorevole alle casse INPS.

Il messaggio in questione parte dall'assunto che, per evitare la duplicazione di versamenti, la Riforma Fornero ha considerato esonerate dal versamento del Ticket ASpI le aziende già gravate del versamento del contributo d'ingresso alla mobilità

ex art. 5, comma 4, della Legge 223/1991

.

Si consideri, però, continua l'Istituto previdenziale, che l'

art. 3, comma 3, della L. 223/1991

prevede espressamente l'esonero dal versamento per i lavoratori collocati in mobilità dal curatore o dal commissario liquidatore, mentre analoga previsione esonerativa non è stata espressamente prevista dal Legislatore con riferimento al contributo ASpI. Ne deriva, secondo l'Inps, che risulta inapplicabile qualsiasi forma di analogia legis, dovendosi considerare il silenzio del legislatore come voluto. Quindi il curatore non sembrerebbe avere scampo.

Non solo, ma l'esonero dal contributo d'ingresso alla mobilità - continua il messaggio - deve limitarsi al periodo di obbligo di versamento dello stesso.

Ne deriva che dal 1° gennaio 2017 tutte le aziende comunque dimensionate, anche in caso di licenziamento intervenuto successivamente alla sentenza di fallimento, dovranno sostenere il costo del Ticket per tutti i licenziamenti, costo peraltro crescente in relazione alla durata del rapporto di lavoro.

Resta inoltre inteso che tutte le aziende vincolate dalle procedure di licenziamento collettivo, ma esonerate dal contributo d'ingresso ex art. 5, comma 4, perché non rientranti nell'area Cigs, una volta fallite genereranno l'obbligo al contributo d'ingresso a carico del fallimento.

In conclusione, si ritiene fondamentale ribadire come il debito contributivo debba considerarsi da ammettere al passivo considerandolo con privilegio generale sui beni mobili come da

art. 2778,

n.

8, c.c.

non trattandosi di contributi confluenti alla gestione di

forme di assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti.

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