L'indeterminismo creativo delle Sezioni Unite in tema di fattibilità nel concordato preventivo: «così è se vi pare»

Filippo Lamanna
26 Febbraio 2013

L'Autore esamina criticamente i vari punti in cui si articola la motivazione della sentenza n. 1521/2013 delle SS.UU. in tema di controllo del Tribunale sulla fattibilità del piano di concordato preventivo ponendone in rilievo sia luci che ombre, ma evidenziando come prevalgano soprattutto le contraddizioni e le incoerenze motivazionali. Da qui i forti dubbi sulla futura tenuta del principio di diritto enunciato.
L'importanza delle questioni devolute all'esame delle SS.UU. e l'enunciazione del principio di diritto al di fuori della decisione sul caso

Le Sezioni Unite della S. Corte di Cassazione, chiamate a risolvere il contrasto interpretativo sorto all'interno della Prima Sezione Civile sui limiti del potere di sindacato del Tribunale in ordine alla fattibilità del piano di concordato preventivo, si sono pronunciate con la sentenza 23 gennaio 2013, n. 1521 (il contrasto era stato denunciato con l'ordinanza interlocutoria n. 27063 del 15 dicembre 2011. Sulla questione vedi Lamanna, Richiesta la rimessione alle SS.UU. sull'ineffabile ma ineludibile contrasto sulla sindacabilità nel merito del concordato preventivo, nota a Cass. 15 dicembre 2011, n. 27063, in questo portale; Id., Il contrasto in Cassazione sulla fattibilità del concordato preventivo: una novità (positiva) che rende necessario l'intervento delle SS.UU., nota a Cass. 15 settembre 2011, n. 18864, ivi; Id., Il controllo giudiziale sulla fattibilità e la convenienza nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, ivi).

Come si desume dal tenore della pronuncia, le SS.UU. della S. Corte hanno attribuito notevole rilievo a tale problematica, tant'è vero che hanno dato corso ad una delle non frequenti applicazioni dell'

art. 363, comma

3

, c.p.c.


Tale norma - com'è noto - attribuisce alla S. Corte di cassazione l'eccezionale potere officioso di enunciare il principio di diritto (nell'interesse della legge) con riferimento alle questioni indicate nel ricorso per cassazione anche quando esso non venga affatto esaminato nel merito, a causa di una declaratoria d'inammissibilità pronunciata de plano.

Se l'art. 363, comma 3, non ci fosse, anche alla S. Corte sarebbe inibito esprimere (ex officio) principi di diritto non strettamente attinenti al caso deciso, di esprimersi, cioè, in sostanza, con quello che potrebbe considerarsi un super “obiter dictum”.

Nel caso di specie, appunto, la S. Corte ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso da cui avevano tratto causa ed origine le questioni connesse al profilo della fattibilità, ma ha non dimeno ritenuto opportuno pronunciare ugualmente il principio di diritto sulle questioni prospettate, evidentemente nella convinzione di poterle risolvere in modo chiaro e convincente, dirimendo una volta per tutte il segnalato contrasto.

Meritano certo apprezzamento la buona intenzione e lo sforzo profuso.

Il risultato, però, si espone ad una valutazione non altrettanto indulgente.

Vediamo perché.

Il controllo del Tribunale sulla fattibilità: controllo di merito o di legittimità sostanziale?

Le tesi che, sulla problematica concernente il potere di controllo del Tribunale sulla fattibilità si sono contese il campo in giurisprudenza antecedentemente all'intervento delle SS.UU., sono principalmente tre:

  1. quella - affermata più decisamente nelle due sentenze della S. Corte n. 3274/11 (est. Zanichelli) e n. 13817/11 (est. Zanichelli) - secondo cui andrebbe negato in radice al Tribunale ogni potere di controllo di carattere “sostanziale” sulla fattibilità, potendo esso svolgere solo un esame di tipo meramente documentale (controllo di “legalità formale”);
  2. quella - affermata da una parte della giurisprudenza di merito e dalla sentenza della S. Corte n. 18987/11 (est. Cultrera), oltre che, sia pure con qualche margine di indeterminatezza, dalle sentenze n. 21860/10 (est. Fioretti) e n. 3586/11 (est. Didone) -, secondo cui sarebbe l'esperto attestatore il soggetto chiamato ad esprimersi in modo diretto sulla fattibilità, mentre il Tribunale potrebbe svolgere un controllo solo indiretto, ossia valutando se la relazione attestativa abbia motivato sul punto in modo coerente, logico e completo (controllo usualmente definito come di “legittimità sostanziale”);
  3. quella - propugnata da altra parte della giurisprudenza di merito, ed almeno in una certa misura avallata dalla sentenza della S. Corte n. 18864/11 (est. Bernabai) - che ha riconosciuto al Tribunale un potere di sindacato “diretto” della fattibilità (controllo usualmente definito come controllo di “merito”).

La differenza più marcata è evidentemente tra la prima tesi, da un lato, e le altre due, dall'altro, atteso che solo la prima tesi ha negato del tutto un effettivo potere di controllo sulla fattibilità, sull'asserto che il Tribunale possa solo svolgere un esame di tipo notarile sull'esistenza dei documenti indicati nell'art. 161 l.fall. (“esiste l'elenco dei creditori? esiste il piano? esiste la relazione dell'esperto attestatore? ecc.”); mentre le altre due, invece, hanno positivamente riconosciuto tale potere di indagine sulla fattibilità, sia pure con qualche sfumatura differenziatrice.

Infatti la tesi che ha affermato un potere di controllo indiretto, si basa sull'idea che il potere di valutazione del Tribunale sia di “secondo grado”, dovendo il Tribunale valutare se la relazione dell'esperto, nella parte in cui attesta l'esistenza della fattibilità, sia funzionale allo scopo informativo che le sarebbe proprio, in quanto conforme a legge e motivata in modo esaustivo, logicamente coerente e congruente. La verifica attiene pertanto a quei vizi di validità tali da rendere l'atto-relazione non corrispondente al modello normotipico.Sarebbe dunque la relazione, intesa come vero e proprio atto certificativo promanante dall'unico soggetto legittimato ad esprimersi direttamente sulla fattibilità ad essere il terminale immediato, il referente, l'oggetto diretto del controllo del Tribunale, non la fattibilità in sé stessa.

La terza tesi, invece, sostiene che il Tribunale possa svolgere un controllo in modo diretto (di “primo grado”) non sull'atto-relazione, ma proprio sul requisito della fattibilità, anche se, a tal fine, ugualmente avvalendosi della relazione dell'esperto, intesa però in tal caso non già quale immediato oggetto del giudizio, ma quale mero supporto o ausilio tecnico (come mezzo, cioè, di valutazione degli altri documenti e degli altri elementi contabili e di prova acquisiti nel procedimento), di cui il Tribunale può prendere per buone le conclusioni, ancora una volta, solo se esaurientemente e correttamente motivate, perchè altrimenti potrebbe spendere i propri originari ed ordinari poteri di giudizio indagando direttamente sulla sussistenza del requisito con un'autonoma valutazione delle altre prove acquisite o acquisibili.

È chiaro come le ultime due tesi portino a risultati applicativi tutto sommato alquanto simili, anche se non perfettamente sovrapponibili, poiché, da un lato, non muta nella sostanza il giudizio che il Tribunale può e deve svolgere sull'intrinseca idoneità dell'elaborato attestativo a dimostrare se la fattibilità sia sussistente in forza di motivi coerenti e logici; mentre, dall'altro, una piccola differenza può esservi - a rigore - solo sulle conseguenze derivanti da una relazione incoerente ed insufficiente, atteso che, seguendo il criterio del controllo indiretto, il Tribunale dovrebbe dichiarare inammissibile tout court la domanda per difetto del presupposto di ammissibilità costituito da una “valida attestazione”, non potendo entrare “nel merito” della fattibilità a prescindere da essa; laddove, seguendo il criterio del controllo diretto, il Tribunale dovrebbe comunque valutare prima se la fattibilità ricorra o meno in concreto, e dichiarare inammissibile la domanda solo se, e quando, ritenga inesistente la fattibilità intesa essa stessa come presupposto di ammissibilità, perché non provata aliunde in forza di elementi informativi diversi dalla relazione.

Chi scrive aveva già evidenziato come «la differenza sotto questo aspetto tra l'una e l'altra soluzione, tirate le somme, appare in effetti talmente evanescente da scomparire quasi del tutto nella sostanza, potendo apprezzarsi de residuo

solo sul piano formale» (Lamanna, Il controllo giudiziale sulla fattibilità e la convenienza nel giudizio di omologazione del concordato preventivo, cit.

)

. Pertanto, anche preferendo la tesi del controllo diretto (di “merito”), sarebbe stata benaccetta, al postutto, anche una soluzione che affermasse la tesi della legittimità sostanziale, l'unica tesi francamente inaccettabile essendo quella del controllo confinato ad una mera legalità formale.

Ebbene, quale tesi hanno accolto le SS.UU.?

Con una certa tranquillità sembra potersi dire che la S. Corte ha abbracciato … o la tesi del controllo diretto di merito, o quella del controllo indiretto di legittimità sostanziale. Purtroppo, per quanto possa apparire singolare al cospetto di una pronuncia delle SS.UU., è assai arduo stabilire se la preferenza sia stata verso l'una o l'altra soluzione.

Certamente la prima parte della motivazione dedicata ad esaminare la questione della fattibilità induce a pensare che le SS.UU. abbiano avallato la tesi del controllo diretto di merito. Nella parte finale della motivazione, però, l'impressione è esattamente opposta.

L'indagine del Tribunale non è di “secondo grado” sulla relazione attestativa, ma ha ad oggetto direttamente la fattibilità

Nella prima parte della motivazione dedicata ad esaminare la questione della fattibilità la S. Corte, nel tentativo di sistematizzare i criteri mediante i quali il Tribunale deve svolgere la sua attività di controllo, assume - ed anche con una certa perentorietà - che il Tribunale può e deve svolgere la sua attività di controllo direttamente sulla fattibilità. A tale conclusione le SS.UU. pervengono dando anzitutto rilievo al fatto che, nel novero dei presupposti di ammissibilità del concordato sono compresi, tra gli altri, «quelli concernenti la veridicità dei dati indicati e la fattibilità del piano».

In effetti si tratta di un dato truistico, che, come tale, non avrebbe bisogno di alcuna dimostrazione, non potendo dubitarsi, da un lato, stante l'inequivoco dettato normativo, che è il piano a dover essere fattibile

, e, dall'altro, che

il difetto di tale requisito renda inammissibile la proposta

ai sensi dell'

art.

162 l

.

fall

. .

Ciò ovviamente non significa che non sia a sua volta qualificabile come requisito di ammissibilità anche la relazione che tale fattibilità deve attestare, ma si tratta, appunto, di requisito aggiuntivo rispetto a quello della fattibilità. Quest'ultima attiene al piano, mentre la relazione è un necessario elemento documentale che deve corredarlo.

Ad ogni modo la S. Corte su tale aspetto è chiarissima: il difetto di fattibilità determina l'inammissibilità della proposta («considerato che l'

art. 162 l. fall.

impone al tribunale di dichiarare l'inammissibilità della proposta di concordato ove constatata l'assenza dei "presupposti di cui agli artt. 160, commi primo e secondo, e 161" in essi compresi quindi anche quelli concernenti la veridicità dei dati indicati e la fattibilità del piano

»).

L'ulteriore connessa questione era quella concernente la natura della relazione attestativa, ovvero se essa sia un atto certificativo/fidefaciente, ossia un atto promanante in ipotesi dall'unico soggetto, l'esperto, abilitato ad esprimere il giudizio sul requisito di fattibilità; o se invece sia un mero elaborato tecnico, ossia un mero ausilio per il Giudice, al quale soltanto invece pertiene in via originaria il potere di valutare la sussistenza del requisito “fattibilità”, anche se avvalendosi di tale ausilio.

Soprattutto dalla risposta a tale specifico quesito dipende la validità della tesi del controllo diretto o indiretto, e, in ultima analisi, del controllo di legittimità sostanziale o invece del controllo di merito. Ciò perché, come si è detto prima, per definizione il controllo di legittimità sembra riferibile ad un giudizio di secondo grado che si dovrebbe svolgere, in tal caso, sulla completezza e correttezza motivazionale della relazione, mentre il controllo diretto di merito, eliminando il medium della relazione (se non quale ausilio tecnico), ha ad oggetto direttamente il requisito della fattibilità.

Le SS.UU. sembrano mostrarsi consapevoli di tale rilievo diacritico quando osservano che è «indispensabile stabilire, per la finalità indicata, se il prescritto requisito di fattibilità debba essere inteso in senso oggettivo ovvero debba essere ricavato dalla relativa attestazione resa da un professionista legittimato a farlo secondo la normativa vigente

».

Ebbene, non è dubbio che le SS.UU. abbiano abbracciato proprio la tesi secondo cui l'esperto attestatore è figura assimilabile ad un “ausiliare del giudice”, soggetto deputato a fornire un contributo tecnico destinato anche ed in primo luogo al tribunale.

Al suo elaborato - precisano le SS.UU. - «deve infatti essere attribuita la funzione di fornire dati, informazioni e valutazioni sulla base di riscontri effettuati dall'interno, elementi tutti che sarebbero altrimenti acquisibili esclusivamente soltanto tramite un consulente tecnico nominato dal giudice. Ne consegue dunque che, pur non essendo un consulente del giudice - come si desume dal fatto che è il debitore a nominarlo -,

il professionista attestatore» svolge comunque «funzioni assimilabili a quelle di un ausiliario del giudice, come pure si desume dal significativo ruolo rivestito in tema di finanziamento e di continuità aziendale (

art.

182-

quinquies

l.fall.

di cui al

D.L.

2012/83

), circostanza questa che esclude che destinatari naturali della funzione attestatrice siano soltanto i creditori».

A questo punto le SS.UU. traggono dalle premesse l'ormai inevitabile conclusione del sillogismo: se infatti l'esperto attestatore altro non è che un tecnico che svolge funzioni di ausilio anche e in primo luogo per il Tribunale, ne deriva che «il controllo del giudice non è di secondo grado, destinato cioè a realizzarsi soltanto nella completezza e congruità logica dell'attestato del professionista», ma è un controllo, per restare sul piano delle espressioni utilizzate dalla S. Corte, “di primo grado”, si svolge cioè direttamente sul requisito della fattibilità, per quanto filtrato attraverso l'esame dell'elaborato tecnico dell'esperto,

dal cui giudizio il giudicante ben può comunque e conseguentemente «discostarsi (…) così come potrebbe fare a fronte di non condivise valutazioni di un suo ausiliario».

Soggiunge poi la S. Corte che, quindi, il Tribunale, proprio per effetto di tale inquadramento, “

deve certamente esercitare sulla relazione del professionista attestatore un controllo concernente la congruità e la logicità della motivazione, anche sotto il profilo del collegamento effettivo fra i dati riscontrati ed il conseguente giudizio”.

Anche tale ultimo inciso è molto importante. Con esso si pone in evidenza il rapporto che intercorre tra la relazione dell'esperto e gli altri dati informativi e probatori esterni di cui si è avvalso l'esperto per redigere il suo elaborato o di cui comunque può disporre il Tribunale alla luce dei documenti che abbia acquisito (anche eventualmente attraverso il supplemento istruttorio previsto dall'

art. 162, comma

1

, l. f

all.

). Dice in altri termini la S. Corte che il Tribunale ben può e deve controllare se l'esperto abbia correttamente interpretato i vari dati (contabili, informativi ecc.) che ha avuto modo di esaminare, traendone le logiche e coerenti conseguenze al fine di esprimere la sua valutazione circa la sussistenza del requisito della fattibilità. Ciò conferma come il Tribunale sia chiamato in tal modo a svolgere con pienezza di poteri la sua ordinaria funzione di giudice di merito, ossia di giudice del fatto, esercitando un controllo sul requisito della fattibilità che è un controllo diretto, di primo grado, ancorché il Tribunale si avvantaggi dell'ausilio tecnico costituito dalla relazione dell'esperto; un controllo esteso, conseguentemente, alla valutazione di tutti gli elementi probatori - anche se pressocchè esclusivamente documentali - comunque acquisiti in atti, che sono utilizzabili anche e in primo luogo come test di resistenza circa la congruità della relazione dell'esperto.

Trattandosi di un controllo sul fatto, ci si riferisce di solito a tale controllo come controllo, appunto, di merito, perché tipico della originaria funzione del giudice di merito.

In quest'ordine di idee il concetto che fa da contrappunto oppositivo al controllo di merito è quello di controllo di legittimità, che, anche quando non sia limitato al solo profilo formale, ma sia esteso anche al profilo sostanziale, si risolve pur sempre solo nella valutazione circa la conformità di un atto alla legge (nel caso di specie, l'atto sarebbe la relazione dell'esperto).

Proprio su tale distinzione, del resto, si basa, quanto meno in via tendenziale e a grandi linee, la distinzione processualistica tra giudizio di merito e giudizio di legittimità, che segna la diversa competenza del giudice di merito quale giudice del fatto (oltre che del diritto) e la S. Corte quale giudice (soltanto) di legittimità (salve le eccezionali deroghe al riguardo previste dal codice di rito).

Distinzione che, nella problematica in esame, trova poi anche un sintomatico ed icastico riscontro nel rapporto “per gradi” - non a caso in tal modo definito dalla S. Corte - intercorrente tra fattibilità, relazione dell'esperto e giudizio del Tribunale. Allo stesso modo, cioè, in cui la S. Corte è giudice di sola legittimità perché non valuta il merito (cioè il “fatto”), in quanto riservato all'esclusiva competenza del giudice di merito, ma solo il diritto, ossia la conformità alla legge della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, o la sua completezza, coerenza e congruità motivazionale; così, a proposito del controllo sulla fattibilità del piano concordatario, mutatis mutandis, sostituita cioè la relazione dell'esperto attestatore alla sentenza di merito, sarebbe controllo di merito quello che possa svolgersi direttamente sulla fattibilità in sé e per sé considerata, mentre sarebbe controllo di legittimità (ancorchè sostanziale) quello limitato alla sola conformità alla legge della relazione, o alla sua completezza, coerenza e congruità motivazionale (Di Marzio, Il principio di diritto sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato stabilito dalla Cassazione a Sezione Unite, in questo portale

).

Alla stregua di tali pur sommari indicatori concettuali, dunque, l'approdo interpretativo cui perviene la S. Corte quando definisce diretto, di primo grado, il controllo del Tribunale sulla fattibilità, e mero ausilio tecnico la relazione dell'esperto, sembrerebbe quello consentaneo ad un controllo di merito.

Segue: l'apparente successiva negazione del potere di sindacato nel merito. Il controllo di legalità e di legittimità sostanziale

Nella parte finale della motivazione si rinvengono però, inaspettatamente, frasi ed espressioni che sembrano ribaltare del tutto tale conclusione.

Assume infatti la S. Corte, in uno dei luoghi argomentativi finali, che la facoltà di richiedere integrazioni al debitore, attribuita al Tribunale dal

D.Lgs. n. 169/2007

, “non contrasta con il dovere di controllo della legalità attribuito al giudice e non implica in alcun modo che da ciò debba necessariamente discendere il riconoscimento di un potere di controllo di merito

”. Reputa poi di escludere che la facoltà del Tribunale di integrazione dei mezzi istruttori «

possa essere interpretata come espressione di un potere di sindacato da parte del giudice, in relazione al contenuto della proposta formulata dall'imprenditore ai creditori

”. Altre affermazioni apparentemente dissonanti si rinvengono poi anche laddove la Corte sostiene che «

resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio, che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti

”.

Tali affermazioni sembrano escludere che il Tribunale possa esercitare un controllo di merito, ma rivelano anche come la S. Corte dia a tale espressione un'accezione del tutto diversa da quella che abbiamo poc'anzi considerato.

Sembra infatti che la S. Corte parli ora di merito non già riferendosi al potere del Tribunale di giudicare del fatto - come giudice di merito - in base alle prove acquisite (e dunque in tal senso anche della sussistenza oggettiva del requisito della fattibilità), ma riferendosi, in senso - si potrebbe dire - amministrativistico, ad un controllo del Tribunale sulla opportunità o convenienza o vantaggiosità della proposta in relazione alle condizioni discrezionalmente inseritevi dal proponente.

Alla luce di tale seconda accezione del concetto di “merito”, certamente la Corte avrebbe ragione di negare che il Tribunale possa svolgere un sindacato di questo tipo.

Ma - vien fatto di chiedersi - chi ha mai proposto una tale soluzione?

Davvero nessuno, pare; almeno finora.

Il Tribunale certo entrerebbe illegittimamente nel merito (inteso in senso amministrativistico alla stregua dell'accezione testè riferita) se, ad esempio, si intromettesse nella scelta del debitore di proporre un pagamento del 10% o del 30% piuttosto che del 40% e pretendesse o di imporre una scelta diversa o di rigettare la domanda assumendo ex officio la inaccettabilità di una siffatta proposta. Una tale interferenza sarebbe infatti assolutamente irragionevole e illegittima.

Ma non è questo ciò di cui si discute e si è discusso finora: si è trattato e si tratta invece di stabilire se, libero il debitore di proporre - seguendo l'esempio - un pagamento nella percentuale che reputi più opportuna, sulla cui accettabilità e convenienza hanno legittimazione ad esprimersi solo i creditori dando un voto favorevole o contrario (salvo poi riattivare essi stessi il potere di controllo del Tribunale mediante un'opposizione all'omologa, se e quando vogliano contestare specificamente la convenienza, rendendo così possibile il cd. giudizio di cram down da parte del Tribunale), il Tribunale possa o meno valutare se quella percentuale sia oggettivamente realizzabile in concreto. Controllo il cui esito, se negativo, comprovando la non fattibilità, dovrebbe per definizione determinare l'inammissibilità.

Ma che ha da spartire tutto questo con il merito inteso (in senso amministrativistico) come opportunità o convenienza o scelta discrezionale?

Da questo punto di vista deve ritenersi che la S. Corte utilizzi comunque impropriamente nel contesto de quo la nozione di merito (G. Vacirca, La giurisdizione di merito: cenni storici e profili problematici, in giustizia-amministrativa.it) laddove la riferisce (come convenienza-opportunità-scelta discrezionale) ad un requisito (la fattibilità) che attiene invece alla sola sfera dell'ammissibilità, potendo il Tribunale esercitare un potere di valutazione discrezionale sostitutiva di merito tutt'al più solo sulla convenienza, e nei soli limiti previsti dalla legge (cram down).

Ma com'è possibile che la S. Corte, per di più insediata nel suo massimo consesso, sia incorsa in questa inopinata sovrapposizione concettuale?

A voler approfondire l'investigazione, un uso ambiguo ed improprio del concetto di merito si rinviene già nell'ordinanza con cui era stato sollecitato l'intervento delle SS.UU..

I giudici rimettenti avevano infatti rilevato che il precedente «orientamento prevalente della Cassazione appare contrario alla sindacabilità del meritodella proposta di concordato (sia preventivo sia fallimentare) — e quindi della fattibilitàdel piano

», soggiungendo però, al tempo stesso, che la sentenza n. 18864/11 (est. Bernabai) ha «

seguito una linea motivazionale non del tutto coincidente con il suddetto orientamento (… ) giacché (…) ha sottolineato il ruolo di controllo anche sostanziale che sin dalla fase dell'ammissione residuerebbe in capo al tribunale, quanto ai requisiti di fattibilità del piano

».

In queste brevi osservazioni si annidano vari elementi di ambiguità ed incertezza.

Da un lato, infatti, è certamente ultroneo sostenere che l'“orientamento prevalente della Cassazione appare contrario alla sindacabilità del meritodella proposta

. Nessuno, infatti, come già detto, ha mai seriamente ipotizzato che il Tribunale possa sindacare il merito della proposta di concordato, se con tale espressione, come sembra, voglia intendersi la possibilità di interferire, con poteri discrezionali e sostitutivi, sull'autonoma determinazione del proponente in ordine alle modalità con cui voglia formulare la sua proposta, variamente modulando - come gli consente di fare l'

art.

160 l

.

fall

. - le modalità di ristrutturazione dei debiti e di soddisfacimento dei crediti. Pertanto non può meravigliare affatto che l'“orientamento prevalente della Cassazione appa(ia)re contrario alla sindacabilità del meritodella proposta di concordato”

: ci mancherebbe altro!

E d'altra parte, com'è noto (o dovrebbe esserlo), i profili di merito/opportunità/convenienza/discrezionalità non possono che riguardare, propriamente, solo la proposta, non certo il piano. È per questo che la legge riferisce alla proposta una valutazione di convenienza (e al piano la valutazione di fattibilità) ed è per questo che la sola questione che si è posta è in che limiti il Tribunale possa sindacare la fattibilità del piano (del piano, dunque, non della proposta).

Di conseguenza, appare del tutto irrelata l'implicazione che nelle frasi surriportate viene immediatamente tratta dalla premessa, ossia che siccome l'“orientamento prevalente della Cassazione appare contrario alla sindacabilità del meritodella proposta di concordato”,

allora (appare contrario) per ciò stesso anche

alla sindacabilità del meritodella fattibilitàdel piano”.

Non si vede infatti che implicazione necessaria possa esservi tra i due concetti, che sono del tutto diversi ed allotri.

Come si è appena osservato, infatti, la convenienza, e quindi il “vero merito”, attiene alla proposta, mentre la fattibilità (quale requisito di ammissibilità) attiene al piano. Cambiando il referente oggettivo (in un caso la proposta, nell'altro il piano), non può che mutare anche il paradigma della relativa connotazione e delle conseguenze giuridiche: in un caso la convenienza (della proposta) e quindi il merito e l'insindacabilità da parte del Tribunale (salvi i casi di non omologabilità eventuale, in presenza di fondate opposizioni); nell'altro la fattibilità (del piano) e quindi il controllo di ammissibilità.

Ma, paradossalmente, un motivo di ambiguità ancor più grave si cela nella successiva frase dell'ordinanza di rimessione. Come si è visto, quest'ultima rileva che una sentenza della S. Corte, deviando dalla linea maggioritaria, «ha sottolineato il ruolo di controllo anche sostanziale che sin dalla fase dell'ammissione residuerebbe in capo al tribunale, quanto ai requisiti di fattibilità del piano

». Qui l'equivoco si annida nella traslazione del concetto di merito. A questo tipo di controllo sembra riferirsi infatti la S. Corte, per contrapposizione logica, quando parla di “controllo anche sostanziale”.

Ma se è così, la S. Corte ora sta riferendosi al “merito” in un senso tutto diverso rispetto a prima.

Mentre infatti prima la S. Corte si riferiva al merito “della proposta”, ora si riferisce alla tipologia del controllo (che diventa di merito in quanto “sostanziale”).

In termini più semplici: un conto è parlare di merito della proposta, ossia del fatto che il proponente abbia deciso liberamente di offrire il pagamento del 30% ai chirografari, anzichè del 40% o del 50%, e assumere - giustamente - che su tale decisione il Tribunale non possa interferire; altro è dire che il Tribunale può o non può effettuare un controllo (come giudice) di merito sulla fattibilità del piano, ossia un controllo circa la probabilità che sia pagato effettivamente quel 30% (ecc.) offerto, in relazione all'attivo e alle garanzie poste a disposizione.

In un caso si parla di merito riferendosi al contenuto della proposta, nell'altro al tipo di controllo fattuale che può svolgersi sul piano.

Ben si comprende come l'uso ancipite dei due concetti non possa che creare confusione.

Ed è infatti proprio ciò che accade nella sentenza delle SS.UU. dove la medesima sovrapposizione di concetti si ripete inesorabilmente.

Si assume così che il Tribunale abbia il “dovere di esercitare il controllo di legittimità sul giudizio di fattibilità della proposta di concordato, non restando questo escluso dalla attestazione del professionista”,

impropriamente riferendo la fattibilità alla proposta anziché al piano

e

senza avvedersi che in questo modo il controllo - essendo svincolato dall'attestazione del professionista - non può che essere per ciò stesso un controllo sull'esistenza del fatto (ossia di merito in senso processualistico), non di legittimità.

Analoga impropria traslazione appare laddove la S. Corte assume che “a ritenere sindacabile dal giudice la percentuale di soddisfacimento del credito indicata si verrebbe a determinare una sottrazione ai creditori della valutazione circa la fattibilità della proposta di concordato

”, ancora una volta attribuendo la fattibilità alla proposta anziché al piano e traslando la fattibilità nella sfera del merito.

Riecheggia poi lo stesso errore quando la S. Corte afferma che nella precedente disciplina

al giudice era affidato anche un controllo del meritodella proposta,

«

controllo quest'ultimo sostanzialmente finalizzato ad una verifica circa: (…) b) la ragionevole prospettiva del pagamento del 40% dei debiti (…)».

Come si vede, ancora una volta si parla di merito a proposito di un requisito, la ragionevole prospettiva di pagamento del 40%, che oggi equivale a quello di fattibilità.

Ancora. Si afferma che: «resta riservata ai creditori la valutazione in ordine al merito del detto giudizio

[n.d.r.: ossia la fattibilità],

che ha ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti

», continuandosi a riferire la fattibilità alla sfera del merito.

In definitiva, si può concludere che la S. Corte abbia traslato del tutto impropriamente la fattibilità nell'alveo del merito-convenienza, e che altrettanto impropriamente abbia ritenuto che il controllo del Tribunale sia di legittimità (sostanziale) pur dopo aver affermato che il suo controllo sulla fattibilità non è di secondo grado, ma diretto. Le due cose, infatti, non possono stare insieme.

Se la S. Corte avesse voluto abbracciare francamente la tesi del controllo di legittimità avrebbe dovuto coerentemente assumere che il controllo è di secondo grado ed indiretto, non il contrario. Viceversa, avendo detto che il controllo è diretto e di primo grado, non avrebbe potuto concludere che è un controllo di legittimità sostanziale, ma avrebbe dovuto ammettere che si tratta di un controllo di merito.

Per il momento fermiamoci qui e chiediamoci: ma al di là della segnalata ambiguità concettuale e linguistica, e della conclusione alquanto perplessa che ne consegue, ma almeno, nella sostanza, è comunque possibile desumere dalla motivazione della sentenza delle SS.UU. che potere di controllo il Tribunale può svolgere in concreto?

Ebbene, anche a tale domanda non può che darsi una risposta almeno parzialmente indeterminata: in realtà si riesce a desumere solo su che cosa il Tribunale - secondo la Corte - non dovrebbe interloquire, mentre resta assai evanescente il perimetro entro il quale potrebbe farlo.

A tale risultato inappagante e “indeterministico” conduce un inopinato percorso creativo seguito per la prima volta dalla S. Corte in ordine alla definizione del concetto di fattibilità.

“Fattibilità giuridica” e “fattibilità economica”: la frantumazione di un concetto unitario

La S. Corte

, discettando di fattibilità, reputa di non potersi sottrarre al compito di definirne il concetto.

A suo dire, la fattibilità altro non sarebbe che la “prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati

”.

La definizione potrebbe considerarsi accettabile se si sostituisse al termine “possibilità” quello di “probabilità”, che in effetti in altro luogo la Corte più propriamente utilizza (laddove assume che il giudizio sulla fattibilità ha «ad oggetto la probabilità di successo economico del piano ed i rischi inerenti

») e se si facesse più pertinente riferimento al piano, anziché alla proposta.

Mentre, infatti, è giusto instaurare una relazione tra la “prognosi” di realizzabilità (quale giudizio di previsione) e il suo oggetto, da individuarsi nella conformazione concreta che assume il piano (“nei termini prospettati

), poiché la fattibilità riguarda lo specifico contenuto di ogni singolo piano; appare invece criticabile il riferimento ad un evento meramente potenziale (“possibilità”) anziché ad uno che sia pronosticabile come “probabile”.

A voler essere chiari: quasi tutto è possibile, ma non è certo questo che l'

art.

161 l

.

fall.

esige che venga attestato dall'esperto, perché a questa stregua la sua funzione sarebbe pressocchè inutile.

Ciò che la norma vuole, secondo quanto opina del resto la quasi totalità degli interpreti, è che venga svolto, sulla base di dati contabili veritieri, un giudizio di probabilità sulla realizzabilità del piano, sì da rendere chiaro al Tribunale e ai creditori fino a che punto le condizioni della specifica proposta e dello specifico piano che la correda siano suscettibili di effettivo adempimento, e non già in senso soggettivo, ma oggettivo, ossia secondo una valutazione di sostenibilità che deve tener conto delle garanzie o dei beni offerti.

Fatta in tal modo debitamente la tara a queste improprietà della definizione del concetto di fattibilità prospettata dalla S. Corte, ancor più sorprendente è però la sub-distinzione che essa enuclea subito dopo, contrapponendo una fattibilità giuridica (su cui potrebbe esprimersi il Tribunale) ad una fattibilità economica (su cui potrebbe esprimersi solo l'attestatore).

Tale distinzione, infatti, è anzitutto allotria rispetto alla delineazione unitaria, semplice, elementare del requisito così come emergente dall'art. 161.

Questa norma contempla la fattibilità tout court, e non una fattibilità intesa in senso duplice, come vorrebbero le Sezioni Unite, ossia ora come fattibilità giuridica, ora come fattibilità economica.

Se la suddetta distinzione può considerarsi finanche ovvia se finalizzata semplicemente a rilevare che alla concreta realizzazione del piano (e dunque alla sua fattibilità) potrebbe essere di impedimento l'inserimento di condizioni contra legem, essa è però ultronea alla luce del dettato normativo, oltre che erronea laddove risulta basata sull'idea che alle due componenti semantiche del concetto di fattibilità corrisponda una diversa competenza a valutarle.

Ciò, infatti, si pone in contraddizione logica con il rilievo che sulla fattibilità nella sua interezza concettuale deve comunque esprimersi l'attestatore prima, ed il Tribunale poi, e che la fattibilità è, come tale (unitariamente considerata), un requisito o presupposto di ammissibilità.

Se così è, per quale motivo sulla fattibilità giuridica dovrebbe allora esprimersi con pienezza di poteri (solo) il Tribunale e (si suppone) non l'attestatore, e, invece, sulla fattibilità economica, al contrario, solo quest'ultimo?

O anche: a che pro chiedere all'attestatore di esprimersi sulla fattibilità tout court se poi solo sulla fattibilità economica il suo giudizio resta intangibile dal Tribunale?

A ben vedere poi, tale duplicità di senso contraddice anche quella definizione di fattibilità offerta dalla stessa S. Corte quando assume che essa sia la “prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati

”.

Questa definizione, infatti, dando rilievo ai “termini prospettati

”, sembra correttamente rapportare la fattibilità proprio ed essenzialmente al contenuto “economico” del singolo piano, ossia alle modalità e ai tempi con cui il proponente reputa in concreto di ristrutturare i debiti e di soddisfare i crediti, non invece alla più generale osservanza di piano e proposta rispetto alle più diverse norme di legge.

Che tale osservanza, che tale conformità debba necessariamente sussistere, è del tutto evidente, ma si tratta di requisito (ovviamente di ammissibilità) da valutare a priori, che andrebbe tenuto quindi distinto dalla fattibilità, la quale, sia nell'accezione che apparentemente ne dà con la suddetta definizione la stessa Corte, sia in quella finora pressocchè concordemente datane da interpreti ed operatori, si sostanzia (solo) nella sostenibilità economica del piano, ovvero, in ultima analisi, nella idoneità delle risorse, delle garanzie e dei mezzi variamente indicati dal proponente a soddisfare i crediti secondo le modalità, le condizioni e i termini quantitativi e temporali indicati nella proposta (e non a caso la stessa S. Corte, in un altro passo, parla di “prognosi di realizzabilità dell'attivo nei termini indicati dall'imprenditore

” come elemento connotante la fattibilità economica, che contraddittoriamente esulerebbe però - come ora si dirà - dalla causa concreta del concordato).

Invece le SS.UU., estrapolate imprevedibilmente e creativamente le contrapposte nozioni di fattibilità giuridica e di fattibilità economica, assumono che il Tribunale possa esercitare il potere di controllo (nel merito) solo sulla fattibilità “giuridica”, mentre non potrebbe interloquire sulla fattibilità “economica”, la cui valutazione sarebbe rimessa esclusivamente ai creditori in occasione del voto per l'approvazione del concordato.

Ma la contraddittorietà di tutto il quadro ricostruttivo è palese.

Da un lato, infatti, si assume che la fattibilità è un requisito (sic) della proposta; che la valutazione sulla sua sussistenza data dall'esperto attestatore non è destinata solo ai creditori, ma ancor prima al Tribunale, il quale da essa può anche discostarsi; che la fattibilità è la “prognosi circa la possibilità di realizzazione della proposta nei termini prospettati

”; che pertanto tale prognosi - nella quale consiste la fattibilità - è soggetta al controllo diretto e di primo grado del Tribunale.

Dall'altro, però, si assume esattamente … il contrario, vale a dire che il Tribunale non può svolgere tale controllo, perché quest'ultimo, laddove si traduce in una prognosi sul raggiungimento della percentuale di soddisfacimento dei creditori indicata nella proposta in ragione della «realizzabilità dell'attivo nei termini indicati dall'imprenditore»

, è riservato ai creditori («

esulando detta prognosi dalla causa del concordato»

).

La conclusione lascia tanto più stupiti, se si considera che è sostanzialmente immotivata e che, una volta sottratto al Tribunale il potere di controllare se sia realizzabile la proposta nei termini prospettati in punto di percentuale di pagamento, resta poco o nulla.

Si consideri al riguardo che, siccome al Tribunale competerebbe soltanto il compito di sindacare la fattibilità giuridica, che, in ultima analisi, si potrebbe concretizzare nella possibilità di dichiarare inammissibile la proposta solo “quando modalità attuative risultino incompatibili con norme inderogabili

” (così le Sezioni Unite, che si sbilanciano a fare come esempio “

la programmata cessione di beni di proprietà altrui

”), l'aver attribuito al Tribunale il potere-dovere di controllare in modo diretto il requisito della fattibilità finirebbe per apparire a questa stregua del tutto canzonatorio, almeno in linea di principio.

Dico in linea di principio perché, come ho già avuto modo di evidenziare, una volta riconosciuto che il Tribunale ha comunque il potere di negare l'ammissione quando la relazione dell'esperto venga giudicata inidonea a dimostrare in modo corretto e convincente la sussistenza della fattibilità, sarebbe sufficiente appigliarsi a tale vizio per negare ingresso alla procedura.

Le stesse Sezioni Unite riconoscono in concreto tale ampio potere, ed anzi si spingono ad esemplificare varie ipotesi di giudizio negativo sulla relazione attestativa, ma facendovi rientrare anche «la rilevazione del dato, se emergente “prima facie”, da cui poter desumere l'inidoneità della proposta a soddisfare in qualche misura i diversi crediti rappresentati, nel rispetto dei termini di adempimento previsti»

.

A ben vedere tale esempio evoca proprio un franco controllo “di merito”. Si tratta infatti di un dato che, sebbene attinente allo specifico caso in cui non sia pagabile ai chirografari nemmeno una percentuale irrisoria (nei tempi previsti

), e per quanto rilevabile - in asserto - solo se emergente prima facie, comunque impatta proprio sulla prognosi circa il raggiungimento della percentuale di soddisfacimento dei creditori indicata nella proposta, in ragione della «

realizzabilità dell'attivo nei termini indicati dall'imprenditore»

, ossia sulla fattibilità economica.

Non si comprende dunque perché il Tribunale possa recuperare in tal caso un potere di valutazione della fattibilità economica che gli sarebbe di norma precluso. O questo potere ce l'ha, o non ce l'ha, e non si vede come possa incidere su tale evidenza la rilevabilità “prima facie” del difetto di fattibilità economica, quasi che si possa sottrarre ai creditori quello che la S. Corte considera un potere di valutazione di loro esclusiva pertinenza solo quando il Tribunale non deve … faticare troppo a leggere le carte per scoprire che il piano è irrealizzabile.

È peraltro dirimente l'obiezione logica cui già prima si è fatto cenno. Si può anche assumere in astratto - per quanto possa apparire estraneo al precetto normativo - che la fattibilità abbia due diverse connotazioni di senso (fattibilità giuridica e fattibilità economica), ma, una volta postulato, da parte della S. Corte, come si è detto, che essa sia comunque un requisito o presupposto di ammissibilità:

  1. da un lato, la valutazione sulla ricorrenza di tale requisito o presupposto non può che appartenere per definizione al Tribunale, giacchè il difetto di ammissibilità è sempre rilevabile ex officio, come del resto è confermato espressamente dallo stesso

    art.

    162 l

    .

    fall

    ., che affida tale giudizio al Tribunale senza alcuna eccezione, oltre che dall'

    art.

    173 l

    .

    fall

    . (e ora anche dall'art. 186-bis, ult. comma) in tema di revoca dell'ammissione;

  2. dall'altro, qualunque sia la connotazione di senso della fattibilità (in senso giuridico o economico), il suo difetto non può che determinare comunque l'inammissibilità della proposta, giacchè la stessa S. Corte riconosce che il difetto di fattibilità produce l'inammissibilità, ma la legge non limita tale conseguenza al solo caso in cui difetti la fattibilità giuridica: una proposta di concordato preventivo è inammissibile quando difetti la fattibilità, punto e basta.

L'unica alternativa per giustificare l'eventuale mancanza di potere di controllo del Tribunale sulla fattibilità economica ai fini di una declaratoria di inammissibilità sarebbe dire che questa non è fattibilità (e quindi non è un requisito di ammissibilità, ma un'altra cosa). Solo che la S. Corte non afferma questo, ma esattamente il contrario.

Ne consegue che aver limitato in via interpretativa il controllo del Tribunale alla fattibilità giuridica confligge logicamente con la premessa secondo cui il difetto del requisito della fattibilità (tout court) determina sempre l'inammissibilità della proposta, giacchè tale conseguenza non può non riguardare anche la mancanza di fattibilità economica, in quanto comunque risolventesi in un difetto di fattibilità, e tenuto conto che l'inammissibilità, a sua volta, non può che essere rilevata dal Tribunale qualunque sia la ragione che la determina.

Resta infine da chiarire com'è possibile che la S. Corte abbia negato al Tribunale il potere di controllo sulla fattibilità economica dopo aver qualificato la relazione dell'esperto come ausilio tecnico per il Tribunale.

Dovendo all'evidenza escludersi che tale ausilio tecnico possa essere stato previsto dal Legislatore solo per dare al Tribunale contezza di eventuali difetti di fattibilità giuridica, che il Tribunale è certo in grado di rilevare da solo, ed è anzi l'unico soggetto legittimato a farlo; l'unica utilità di una relazione intesa come ausilio tecnico per il Tribunale non può che riferirsi proprio alla fattibilità economica, essendo questo il campo in cui gli accertamenti previamente compiuti dall'esperto sulla contabilità consentono poi di testare la tenuta del piano. Assumere dunque che l'elaborato dell'esperto sia un ausilio tecnico per il Tribunale escludendo al tempo stesso che il Tribunale possa trarne alcuna utilità proprio con riferimento all'unica parte in cui tale ausilio dovrebbe dispiegare la sua funzione, vale a dire quanto ai rilievi che attengono a quella che la S. Corte definisce come fattibilità economica, è una oggettiva contraddizione in termini.

La creativa configurazione della doppia fattibilità, dunque, non solo non ha alcun fondamento normativo, ma conduce a risultati palesemente contraddittori.

L'insondabile causa concreta del procedimento

Ma non basta. A rendere ancor più stravagante e contraddittoria l'attività di controllo del Tribunale sopravviene un altro imprevisto obbligo d'indagine.

Le SS.UU. infatti considerano necessario che il Tribunale effettui anche la “preventiva individuazione della causa concreta del procedimento di concordato sottoposto al suo esame, il che equivale a dire l'accertamento delle modalità attraverso le quali, per effetto ed in attuazione della proposta del debitore, le parti dovrebbero in via ipotetica realizzare la composizione dei rispettivi interessi (…) Ne consegue, venendo al concreto, che il margine di sindacato del giudice sulla fattibilità del piano va stabilito, in via generale, in ragione del contenuto della proposta e quindi della identificazione della causa concreta del procedimento”.

Pur apprezzandosi questa invocazione al “concreto”, sulla cui base poi la S. Corte giunge ad affermare che il Tribunale conserva il suo potere di sindacato in termini identici in ogni fase del concordato, ossia quella dell'ammissione, quella dell'eventuale revoca ex art. 173 e quella dell'omologa (“la specifica determinazione dei poteri del giudice va effettuata in considerazione del ruolo a lui attribuito in funzione dell'effettivo perseguimento della causa del procedimento, ruolo che rimane identico nei diversi momenti ora considerati

”), non si vede, però, né l'effettiva concretezza delle indicazioni fornite dalla S. Corte, né, per la verità, alla stregua della suddetta nuova definizione, in che cosa si differenzi questa “causa concreta” dal contenuto del piano, e in ultima analisi dalla definizione stessa di fattibilità. Si rischia soltanto di complicare ancor di più i già difficili compiti del Tribunale sia con la spuria evocazione di una nozione di causa concreta che dovrebbe considerarsi riferibile solo al contratto e non ad un procedimento concorsuale, come invece le SS.UU. prospettano (

Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, 1966, 372; Rolli, Causa in astratto e causa in concreto, 85; Bianca, Diritto civile, Il contratto, 1987, 434; Roppo, Il contratto, 2001, 364; Capodanno,

L'interpretazione del contratto, PD, 2006,

218; Sicchiero, Il contratto con causa mista, Padova, 1995, 177; Ferrigno, L'uso giurisprudenziale del concetto di causa del contratto, in Contratto e impresa, 1985, 177

); sia con la prospettata necessità che sia svolta un'indagine dai connotati molto indefiniti.

Se il piano deve contenere, come esige espressamente lo stesso art. 161, le modalità ed i tempi di adempimento della proposta, elementi che conformano dunque il contenuto del piano, di qualunque piano, assumere che la causa concreta del concordato sia poi a sua volta null'altro che le “modalità attraverso le quali, per effetto ed in attuazione della proposta del debitore, le parti dovrebbero in via ipotetica realizzare la composizione dei rispettivi interessi”,

equivale a dire - almeno così parrebbe - la stessa cosa, indebitamente sovrapponendo, però, causa e contenuto, causa e modalità adempitive

(

Di Marzio, op. cit.

)

.

Ma è la conclusione finale che colpisce. Dopo aver premesso appunto che il margine di sindacato del giudice va stabilito, “in via generale, in ragione del contenuto della proposta e quindi della identificazione della causa concreta del procedimento”, si afferma subito dopo che, però, “poichè come detto il legislatore non ha imposto aprioristiche predeterminazioni in proposito, ne discende che non è possibile stabilire con una previsione generale ed astratta i margini di intervento del giudice in ordine alla fattibilità del concordato, dovendosi a tal fine tener conto delle concrete modalità proposte dal debitore per la composizione della propria esposizione debitoria

”.

Ma insomma: si può o non si può stabilire in generale il margine di sindacato del giudice? E si può o non si può tener conto di quelle concrete modalità che sostanziano il contenuto e quindi la causa? Da queste frasi, come si vede, non è agevole arguirlo.

Né l'impresa diventa più facile quando la S. Corte enuncia ciò che il Tribunale può fare, in apparente contrasto con ciò che, per quanto detto prima, sembrava non potesse fare: il Tribunale, si dice, può anche prescindere dalla relazione dell'esperto attestatore e sindacare direttamente la fattibilità, e a tal fine può e deve “tener conto delle concrete modalità proposte dal debitore”

(peraltro così variabili che non possono predeterminarsi), e può finanche sindacare la congruità dei “tempi di adempimento

indicati dal debitore nella proposta e l'incidenza di detto aspetto sulla valutazione di quest'ultima nei suoi termini complessivi e quindi, per la parte di specifico interesse, sul giudizio di fattibilità del concordato

”. Subito dopo, però, segue uno snodo assertivo e negativo: comunque il Tribunale non può sindacare quella concreta modalità consistente nella prevista soddisfazione in una determinata percentuale di pagamento, “

esulando detta prognosi dalla causa del concordato come precedentemente delineata

”.

Or non è dubbio che non è la “prognosi” (che è una semplice valutazione previsionale) a poter informare la causa concreta del concordato, ma semmai - a voler accepire con coerenza tale requisito - il proposto pagamento in una determinata percentuale (peraltro da ricondursi più al contenuto del piano, che ad una causa concreta, la quale semmai, intesa vulgo, andrebbe effettualmente rapportata all'obiettivo-intento del debitore, sotteso alla proposta, di ottenere la sua liberazione dall'intero debito originario pagando meno di quanto si era obbligato a fare, o con modalità e mezzi alternativi, o con dilazione), ma in ogni caso non si comprende perché, mentre non si potrebbero «stabilire con una previsione generale ed astratta i margini di intervento del giudice in ordine alla fattibilità del concordato»,

si può invece escludere

a priori «con una previsione generale ed astratta»

che la programmata soddisfazione in una determinata percentuale rientri nella «

causa concreta del concordato nei termini in cui essa è stata delineata»…

dalla stessa S. Corte, ossia, in ultima analisi, perché dovrebbe esulare dalle «modalità

attraverso le quali, per effetto ed in attuazione della proposta del debitore, le parti dovrebbero in via ipotetica realizzare la composizione dei rispettivi interessi»,

né perché debba escludersi che «

la percentuale di soddisfacimento dei creditori da parte del debitore possa in qualche modo incidere sull'ammissione del concordato»

.

Su tali punti la Corte, in realtà, non spende alcuna conferente motivazione, lasciandoli affetti da tutte le segnalate contraddizioni.

L'indicazione della percentuale di pagamento è necessaria ed impegnativa?In difficili muti

Quanto alla questione circa la necessità che il proponente indichi una precisa percentuale di pagamento ai creditori chirografari - ritenuta strettamente connessa a quella della delineazione del concetto di fattibilità economica, e come tale, a quanto pare, estranea alla nozione di causa concreta e, di conserva, alla valutazione del Tribunale -, le ragioni addotte dalle SS.UU. per risolverla negativamente sono le seguenti:

  1. «(…) la percentuale di pagamento eventualmente prospettata non è vincolante, non essendo prescritta da alcuna disposizione la relativa allegazione»:

    deve quindi escludersi che «

    la percentuale di soddisfacimento dei creditori da parte del debitore possa in qualche modo incidere sull'ammissione del concordato»;

  2. «a ritenere sindacabile dal giudice la percentuale di soddisfacimento del credito indicata si verrebbe a determinare una sottrazione ai creditori della valutazione circa la fattibilità della proposta di concordato, e ciò in contrasto con l'intenzione del legislatore, oltre che con il contenuto delle modifiche dallo stesso apportate»

    .

Ebbene, quanto alla prima ragione, è evidente la sovrapposizione fra tre distinte problematiche: da un lato quella del se vi sia un obbligo di indicare la percentuale, che andrebbe affrontata per prima; dall'altro, quella del se, indicata la percentuale (obbligatoriamente o facoltativamente), essa sia impegnativa per il proponente; infine, quella del se il Tribunale possa, ed in che limiti, sindacare l'irrealizzabilità del pagamento nella percentuale indicata o promessa quale profilo di non fattibilità del piano.

Non si comprende se la S. Corte abbia inteso dire che non incide sull'ammissione del concordato il fatto che il proponente indichi una percentuale che il Tribunale giudichi irrealizzabile, o che non incide la stessa indicazione (ovvero la mancata indicazione) della percentuale (comunque liberamente determinabile nel quantum dal debitore).

La seconda soluzione sembrerebbe in verità avallata dal riferimento immediatamente successivo alla non vincolatività della “percentuale di pagamento eventualmente prospettata

”, laddove la S. Corte sembrerebbe assumere appunto che, da un lato, non sia prescritto l'obbligo di indicare una percentuale di pagamento, e, dall'altro, che nemmeno sia vincolante la percentuale quando il proponente l'abbia (facoltativamente ed eventualmente) indicata.

Tuttavia, un primo motivo di critica deriva già dalla constatazione che la S. Corte parrebbe estendere questa seconda soluzione anche al di fuori del concordato con cessione dei beni. Il che è assurdo.

Nei casi, infatti, in cui, ad esempio, il concordato assumesse - come certamente è possibile e tutt'altro che infrequente - la forma, in passato tipizzata dalla stessa legge, del concordato cosiddetto “a pagamento” o “in percentuale” (o “per garanzia”), la formulazione di una promessa di pagamento in una data percentuale non potrebbe che considerarsi indefettibilmente necessaria (

Nardecchia, La fattibilità al vaglio delle sezioni unite, in Iilcaso.it

), visto che, senza di essa, non si saprebbe (e a giudizio di chi scrive, peraltro, non lo si saprebbe nemmeno in caso di cessio bonorum) in che consista la ristrutturazione del debito e per quale parte alla esdebitazione del debitore corrisponda una parziale non esdebitazione dei coobbligati (v.

art.

184 l

.

fall.

), senza considerare poi che la stessa configurazione di tale tipologia (“a pagamento” o “in percentuale”) o, se vogliamo seguire i canoni della S. Corte, la sua stessa causa concreta, non può che esigere in re ipsa l'indicazione di una percentuale determinata (e l'impegno a pagarla).

Un secondo profilo di critica riguarda poi l'asserzione - invero agevolmente confutabile -, secondo cui non esisterebbe una norma che imponga l'obbligo di indicare una percentuale.

Da un lato, come si é rilevato testè, anche se una tale norma mancasse l'indicazione di una precisa percentuale dovrebbe comunque considerarsi come elemento necessario e costitutivo quanto meno di quei concordati, detti appunto “a percentuale” o a “pagamento”, che hanno (ed in quanto hanno) ad oggetto proprio l'offerta/promessa di soddisfare i debiti in una data percentuale.

Ma per di più ora la norma esiste, e, a modesto avviso di chi scrive, nell'implicare l'indicazione anche della percentuale di pagamento, andrebbe applicata in tal senso ad ogni tipologia di concordato, compreso quello per cessio bonorum: è l'art. 161, comma 2, lett. e), laddove tale disposizione richiede la presentazione di un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, norma che va letta unitamente all'art. 160, comma 1, lett. a), laddove quest'ultima disposizione statuisce che il piano può prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma.

La S.

Corte

sembra ricordarsi dell'art. 161, comma 2, lett. e), solo a proposito dei tempi di adempimento, quando sostiene che il Tribunale possa giudicare della fattibilità dal punto di vista della tempistica se l'adempimento sia troppo dilatato nel tempo. Con ciò la S. Corte sembra andare finanche oltre l'apparente tenore della norma, che si limita ad esigere l'indicazione dei tempi di adempimento senza attribuire al Tribunale anche il potere di sindacare la scelta di tali tempi, anche perché, se il Tribunale potesse sindacare tale scelta, come afferma inopinatamente la S. Corte, allora sì che finirebbe per effettuare un sindacato sostitutivo nel merito in parte de qua, demolitivo, come tale, della discrezionalità del proponente. Altro sarebbe invece affermare che il Tribunale ha la facoltà di valutare se il piano possa essere oggettivamente eseguito entro il termine temporale indicato dal proponente, giudizio, questo, che certamente potrebbe ricondursi a quello sulla fattibilità.

Ad ogni modo, stranamente la S. Corte trascura di dare evidenza all'altro requisito del piano indicato dalla predetta norma, ossia l'indicazione analitica delle modalità di adempimento.

Senza elencare qui exprofesso tutte le possibili modalità di adempimento che possono e devono essere oggetto dell'obbligatoria indicazione nel piano, ci si chiede: per quale motivo non dovrebbe considerarsi quale modalità di adempimento il pagamento di un debito (in denaro, quindi intendendosi il pagamento quale ordinaria modalità estintiva dell'obbligazione) in una data percentuale?

Pagare un debito in denaro, e pagarlo al 20% o al 40%, non costituisce modalità di adempimento?

Se la risposta è positiva, come pare inevitabile ammettere alla stregua dei principi generali sulle obbligazioni ed in difetto di contrarie evidenze, l'obbligo di effettuare siffatta indicazione non può che riguardare tutti i tipi di concordato in cui la soddisfazione dei creditori avvenga mediante un pagamento in denaro, visto che la norma pone un obbligo di carattere generale.

Né può obiettarsi che, però, l'obbligo può scattare solo quando il pagamento in una data percentuale costituisca, appunto, modalità di adempimento, mentre non potrebbe scattare quando non lo sia, il che, in asserto, non accadrebbe nella tipologia del concordato per cessio bonorum.

Questa, infatti, è una mera tautologia, perché il concordato preventivo tende sempre e soltanto o alla remissione del debito o alla dilazione del pagamento del debito, o ad entrambi. Quando non sia prevista la dilazione, sarà quindi inesorabilmente perseguito l'obiettivo della esdebitazione. Quest'ultima, nella logica del concordato, mira ad essere integrale pur quando sia pagata solo una frazione percentuale del debito originario.

La domanda nodale dunque è: hanno o non hanno i creditori il diritto di sapere in che proporzione (percentuale) il debitore propone di soddisfare i loro crediti?

Per quale motivo tale diritto andrebbe loro riconosciuto nei concordati “a pagamento” e non invece nel concordato per cessio bonorum?

Si è talora risposto, a tale domanda, assumendo che il debitore, cedendo tutti i suoi beni, non può offrire altro, e quindi i creditori, accettando la proposta, non potrebbero che consentirgli di esdebitarsi per intero assumendo su di sé l'alea della liquidazione, a prescindere dalla percentuale eventualmente indicata dal debitore. Tale argomento, però, non ha alcun fondamento né logico, né normativo.

Da un lato non si vede, quando il debitore offra tutti i suoi beni, che cosa offra in più di quanto già non sia comunque destinato a garanzia dei creditori

ex art. 2740 c.c.

. L'interesse ad accettare la sua proposta va semmai rintracciato nella utilità di porre in atto un'unitaria procedura liquidativa che consenta la partecipazione in concorso di tutti i creditori, anziché, secondo la logica delle esecuzioni ordinarie, di singoli creditori. Ma ciò evidentemente non sposta i termini dell'interesse sostanziale al pagamento nei limiti dell'integralità del patrimonio responsabile.

Pertanto non è l'offerta di tutto il patrimonio a giustificare ex se un'esdebitazione che abbia carattere integrale qualunque sia l'esito liquidativo.

Lo dimostra tra l'altro la disciplina della cessio bonorum civilistica. Anche con tale contratto, infatti, il debitore può offrire ai creditori tutto il suo patrimonio (

art. 1977 c.c.

), ma ciò non basta exse a determinarne l'integrale esdebitazione.

L'art. 1984, in particolare, statuisce che anche in questo caso l'esdebitazione si verifica nei limiti di quanto i creditori hanno ricevuto. A meno che, aggiunge la norma, non vi sia un apposito patto contrario concluso tra debitore e creditori, patto da concludere, evidentemente, contestualmente alla stipula del contratto di cessione dei beni.

Ebbene, se tale limite vale per la cessio bonorum civilistica, perché non dovrebbe valere per il concordato? Forse che nella disciplina del concordato è contenuta una norma che attribuisce ex lege effetti integralmente esdebitatori in caso di cessione dei beni in deroga all'

art. 1984 c.c.

? Non risulta che esista una disposizione siffatta.

Non lo è, comunque, l'unica norma, l'

art.

184 l

.

fall.

, che regola gli effetti del concordato, laddove si limita a sancire l'obbligatorietà del concordato per i creditori anteriori.

Anche se, evidentemente, tale obbligatorietà riguarda le condizioni della proposta come conformate alla luce della ampia possibilità di modulazione prevista dall'art. 160, esse necessitano comunque dell'omologa del Tribunale, ossia di un controllo di non disformità rispetto alla legge.

E allora, basta il fatto che il debitore abbia ampia facoltà di conformare la proposta e il piano, come prevede l'art. 160, comma 1, lett. a), perché egli sia libero di proporre ai creditori, vincolando tutti all'esito di una votazione a maggioranza, la propria integrale esdebitazione anche quando pagherà ai creditori molto meno sia di quanto originariamente dovuto (e quindi oltre i limiti della frazione percentuale che sarà possibile pagare con il realizzo dei beni ceduti) e anche di quanto abbia previsto con la sua proposta di concordato?

Chi scrive opina, sommessamente, di no, e ciò in quanto, per derogare alla disposizione contenuta nell'art. 1984 sopra richiamata, occorre un patto, ossia - in sostanza - un contratto, e dunque il consenso unanime di tutti gli interessati. La norma ci fa capire, in definitiva, che il debitore cedente non può imporre ai suoi creditori cessionari una remissione integrale dei suoi debiti se essi - anche uno solo di loro - non sono d'accordo.

Ebbene, nel concordato preventivo, come sappiamo, da un lato vige la regola maggioritaria, dall'altro tra le norme che lo disciplinano non ne esiste alcuna che espressamente consenta di derogare all'

art. 1984 c.c.

nella parte in cui consente un'esdebitazione totale solo se le parti siano tutte d'accordo stipulando al riguardo apposito patto.

Ne consegue che non solo non basta nel concordato per cessione dei beni che il proponente nulla dica sull'effetto integralmente esdebitatorio che si propone di realizzare perché esso poi concretamente abbia luogo, e dunque anche con riferimento alla parte di debito rimasta insoddisfatta all'esito della liquidazione, qualunque sia stato tale esito; ma non basta neppure che egli inserisca un'apposita clausola con cui proponga e programmi il realizzarsi di tale effetto, giacché il voto espresso a maggioranza non realizzerà per definizione la conclusione unanime di un patto (contratto).

Né può dirsi che la regola maggioritaria, sì come disciplinata in ambito concordatario, sia essa stessa norma idonea a derogare all'

art. 1984 c.c.

proprio in quanto considera sufficiente un voto a maggioranza per il perfezionarsi di un procedimento esdebitatorio.

L'adesione maggioritaria è infatti comunque soggetta, come già detto, al controllo omologatorio del Tribunale per esplicare efficacia, e tale controllo ha proprio lo scopo di verificare che non siano state violate le norme d'ordine pubblico poste a presidio dei creditori dissenzienti o dei terzi.

Sarebbe allora semplicemente contraddittorio ritenere che con un voto a semplice maggioranza sia realizzabile un effetto esdebitatorio integrale in un caso in cui una specifica norma di legge - l'

art. 1984 c.c.

- ammonisce in via generale che esso è realizzabile a favore del debitore cedente solo in base al consenso unanime dei creditori cessionari.

Del resto basta il buon senso per comprendere come analoga preclusione ricorra in ogni altra ipotesi in cui non può che essere necessario un consenso unanime (e quindi di ciascuno e di tutti i creditori) per realizzare un effetto remissorio (integrale).

Può ad esempio il debitore proporre di escludere del tutto il pagamento di un credito, costringendo il relativo titolare a subire l'esito di un voto a maggioranza che sia favorevole (anche) a tale esclusione? Evidentemente no, e lo riconosce la stessa S. Corte nella sentenza in commento, quando puntualizza che il Tribunale può dichiarare l'inammissibilità di un concordato il cui piano si reputi prima facie non fattibile per la insufficienza dei beni ceduti a garantire il pagamento anche solo in minima parte di tutti i creditori chirografari.

Non interessa ora stabilire da quale norma la S. Corte - che tace del tutto al riguardo - abbia tratto tale regola (solitamente desunta, dai più, dallo stesso tenore letterale dell'

art.

160 l

.

fall

.), nè ulteriormente sottolineare come in tal modo la S. Corte contraddittoriamente comunque riconosca al Tribunale un potere di sindacato sulla fattibilità “economica” (atteso che il controllo si esplica comunque sulla realizzabilità di un certo pagamento in percentuale). Interessa piuttosto evidenziare che per la stessa S. Corte il debitore non può proporre un concordato preventivo per cessione dei beni con la pretesa di esdebitarsi per intero anche con riferimento al caso in cui la liquidazione fosse insufficiente a pagare anche solo in minima parte tutti i creditori chirografari. E questo già basta a dimostrare come sia inconferente la tesi che vuole collegata l'esdebitazione integrale alla mera offerta di tutto il patrimonio. Occorre infatti che con tale patrimonio comunque si realizzi un pagamento ancorché minimo di tutti i creditori, e un voto favorevole a maggioranza non potrebbe consentire il superamento di tale regola.

Ma se ben si riflette, questo limite, che la stessa S. Corte riconosce all'operare dell'esdebitazione integrale e all'operare della regola maggioritaria, vale anche quando il debitore proponga di pagare (e sotto il profilo della fattibilità sia in grado effettivamente di pagare) tutti i creditori chirografari in percentuale rilevante (ad esempio l'80%) tranne un creditore (o due, ecc., il numero è irrilevante), magari inserito in un'apposita classe. Non basterebbe per far considerare ammissibile tale proposta dire che l'attivo, se teoricamente spalmato fra tutti i creditori, renderebbe possibile una soddisfazione non irrisoria di tutti, perché la ratio del divieto cui si riferisce la S. Corte non è che occorra mettere a disposizione un attivo idoneo a soddisfare “teoricamente” tutti i creditori, ma che il piano preveda la distribuzione dell'attivo in modo tale da garantire una benchè minima soddisfazione a ciascun creditore e che sia poi anche fattibile in tal senso.

Un piano che, ad esempio, prevedesse la suddivisione dei creditori chirografari in due classi, una da soddisfare al 40% e l'altra allo 0% sarebbe inammissibile, ma sarebbe parimenti inammissibile anche se prevedesse la soddisfazione di una classe al 40% e dell'altra al 5% e risultasse in concreto fattibile - per la manifesta limitatezza delle risorse cedute - solo con riferimento al pagamento della prima classe e per nulla della seconda, perché si tratterebbe di un piano non fattibile, anche per evidenza prima facie, caso in cui il Tribunale potrebbe dichiarare inammissibile la proposta anche alla luce del principio di diritto enunciato dalla S. Corte (ancor di più emerge dunque con riferimento ad una tale ipotesi come la S. Corte in realtà consenta al Tribunale un controllo sulla fattibilità “economica”).

Per quanto ovvio, conviene peraltro puntualizzare che, però, il concordato in questi casi resterebbe comunque ammissibile se i singoli creditori di cui si preveda, o si tema, il mancato soddisfacimento anche solo in minima parte, spontaneamente rinunciassero al proprio credito concludendo con il debitore un patto in tal senso (della più varia tipologia, anche concordando l'integrale postergazione).

Ciò che dunque rileva è l'indisponibilità della regola del consenso nei casi in cui un voto a maggioranza non basti per espropriare un diritto soggettivo dei creditori che una norma di legge consideri espressamente derogabile solo tramite accordo consensuale, e da qui la conferma dell'impossibilità di derogare con un voto a maggioranza alla regola di cui al citato

art. 1984 c.c.

, laddove tale norma subordina ad un patto tra debitore cedente e creditori cessionari la possibilità di esdebitazione integrale a prescindere dall'entità del pagamento effettuato all'esito della liquidazione.

In altra sede ho avuto modo di evidenziare che, allora, per poter realizzare l'esdebitazione integrale nel concordato preventivo per cessio bonorum, occorrerebbe eliminare dalla proposta la pretesa di traslare ogni alea sui creditori, vale a dire sottomettendo la proposta al rischio di una risoluzione per inadempimento; ciò che presuppone, in definitiva, come per ogni altra tipologia di concordato con finalità remissoria, un'indicazione impegnativa di pagamento in una data percentuale.

Se si pone mente alla motivazione della sentenza in commento su tali aspetti, ci si avvede che la S. Corte non ha speso una sola parola per esaminarli, limitandosi ad enunciare le due già dette non conclusive ragioni.

Dell'inconferenza della prima s'è già detto fin qui.

La seconda si risolve poi nella tautologica asserzione secondo cui “a ritenere sindacabile dal giudice la percentuale di soddisfacimento del credito indicata si verrebbe a determinare una sottrazione ai creditori della valutazione circa la fattibilità della proposta di concordato, e ciò in contrasto con l'intenzione del legislatore, oltre che con il contenuto delle modifiche dallo stesso apportate

”, laddove resta misterioso sia il perché attribuire al Tribunale il potere di controllo sulla fattibilità (della proposta: sic) in punto di probabilità di pagamento dei crediti nella prevista percentuale si porrebbe in contrasto con l'intenzione del legislatore; sia quali modifiche normative siano state considerate oggetto a loro volta di tale ipotizzato contrasto.

Né maggiori lumi apporta l'ulteriore disarmante considerazione secondo cui la fattibilità economica sarebbe «legata ad un giudizio prognostico, che fisiologicamente presenta margini di opinabilità ed implica possibilità di errore, che a sua volta si traduce in un fattore di rischio per gli interessati. È pertanto ragionevole, in coerenza con l'impianto generale dell'istituto, che di tale rischio si facciano esclusivo carico i creditori, una volta che vi sia stata corretta informazione sul punto»

.

Vi è da dire che tale motivo non ha nulla di giuridico ed è ben lungi dal costituire espressione di un'interpretazione logico-normativa. Su tale piano, del resto, resta inspiegato anche perché il Tribunale potesse, prima della riforma, sindacare la ragionevole realizzabilità del pagamento del 40% - che costituiva senza dubbio ipotesi equivalente alla fattibilità -, mentre oggi non possa fare lo stesso a proposito della percentuale che venga liberamente e variabilmente indicata dal proponente nel singolo piano: per quale ragione l'opinabilità e la possibilità di errore insiti in siffatto tipo di valutazione prognostica è giusto che ricada oggi sui creditori mentre prima poteva occuparsene il Tribunale (senza nemmeno l'ausilio di un esperto)?

Si tratta dunque anche in tal caso di argomento del tutto inconferente ed indimostrabile (certo non potendo giocare alcun ruolo al riguardo le solite non conclusive e generiche asserzioni di taglio “ideologico” sulla spiccata “negozialità” del nuovo concordato).

Non dimeno è uno dei pochi argomenti espressi in modo “ingenuamente” chiaro.

Da esso traspare infatti la vera ragione che ha determinato la decisione della S. Corte: la convinzione pura e semplice che sia “giusto” (irrilevante essendo, a quanto pare, che lo dica o meno la legge) attribuire ai creditori il potere di valutare la fattibilità (economica), perché in tale valutazione vi è sempre un quid di aleatorio.

Da ciò emerge non solo una concezione alquanto discutibile del potere di interpretazione creativa che la S. Corte si auto-attribuisce anche ai fini di una (incontrollabile) funzione quale mediatrice di interessi, ma anche un'idea - alquanto avvilente - della scarsa competenza tecnica non solo dei Tribunali, ma anche dei professionisti che vengono chiamati a svolgere la funzione di esperti attestatori e di commissari giudiziali, dubitandosi evidentemente che costoro siano in grado di valutare in modo tecnico ed oggettivo se le risorse destinate a realizzare un piano di concordato siano idonee a tal fine.

Ma - ci si chiede - se nemmeno i professionisti attestatori sono in grado di svolgere un giudizio sufficientemente scevro da aleatorietà, per quale motivo ne viene richiesta l'opera?

È sufficiente a giustificarla dire che essa ha lo scopo di fornire ai creditori un adeguato supporto informativo per consentire loro di esprimere poi in modo consapevole il proprio voto?

Ma se l'espressione di un giudizio sulla fattibilità è aleatoria anche se formulata da un tecnico, come può risolversi in un valido supporto informativo per i creditori?

Insomma, se si demolisce, gratta gratta, la funzione stessa del giudizio di fattibilità, si finisce per dover ammettere che i creditori non possono che valutare (da soli) tale requisito sempre alla cieca, o, al massimo, sulla base dei soli dati contabili di cui vengano per avventura a conoscenza, senza potersi fidare di nessuno, né dell'esperto, né del commissario giudiziale, né del Tribunale quando costoro si esprimono sulla fattibilità.

Risultato che, attraverso gli stravaganti argomenti creativi che abbiamo fin qui esaminato, approda dunque al relativismo più indeterminato.

Eterogenesi dei fini ed incongruenze sistemiche: ma se il Tribunale può dichiarare il fallimento a prescindere dalle proposte di concordato pendenti, a che serve discettare tanto di fattibilità?

Un'ultima considerazione è inevitabile fare alla luce del

l'altro orientamento che la S. Corte sembra prospettare, anche nella sentenza in commento, sulla tematica dei rapporti tra domande di concordato preventivo ed istanze o richieste di fallimento contestualmente pendenti.

Secondo la S. Corte, il rapporto tra le due procedure, di concordato e di fallimento, non è più informato al criterio della prevenzione, pacifico nel vigore della

legge fallimentare

ante-riforma; pertanto la possibilità accordata al debitore di proporre al giudice una procedura concorsuale alternativa al suo fallimento non rappresenta un fatto impeditivo alla pronuncia di fallimento, nè tanto meno un fatto costitutivo del relativo procedimento, ma mera esplicazione del diritto di difesa del debitore, che comunque non gli consente di "disporre unilateralmente e potestativamente dei tempi del procedimento fallimentare

".

Conseguentemente il Tribunale ha il potere di rifiutare anche in limine

l'accesso al concordato, laddove, nell'esplicazione di un potere di coordinamento dell'iniziativa “

del debitore con gli interessi sottostanti la procedura fallimentare

”, dia una propria valutazione “

in relazione alle peculiarità del caso concreto, (del) rapporto di priorità tra le procedure, previo l'indefettibile apprezzamento circa l'intento sottostante la soluzione pattizia, che deve essere esclusa laddove, esprimendo un proposito meramente dilatorio, manifesti un abuso di diritto del debitore, anche alla luce dell'affrancamento di quest'ultimo dal requisito della meritevolezza

”. Conclusasi allora la fase prefallimentare, la sentenza di fallimento non deve necessariamente rendere conto del giudizio espresso sulla proposta di concordato, bastando che il tessuto motivazionale della sentenza che dichiara il fallimento renda conto della sussistenza dei presupposti oggettivo e soggettivo che la legittimano ai sensi degli

artt. 1

e

5 della legge fallimentare

.

I suddetti principi, già enunciati soprattutto da

Cass. n. 18190/2012

(Rolfi, I rapporti tra concordato preventivo e dichiarazione di fallimento: equivoci processuali di una questione sostanziale, in questo portale), ora vengono dunque fatti propri anche dalle SS.UU.

Non è questa la sede per analizzare tale orientamento. Vale però la pena di osservare come esso renda paradossalmente recessiva proprio la decisione delle SS.UU. sul limitato potere di controllo del Tribunale in materia di fattibilità, che pure doveva considerarsi quale la principale questione oggetto del prospettato principio di diritto.

Ipotizzare, infatti, che il sindacato del Tribunale a questo riguardo soffra limiti più o meno estesi perde quasi ogni rilievo quando poi gli si attribuisce contemporaneamente il ben più incisivo potere di dichiarare il fallimento prescindendo del tutto dal fatto che sia stata già proposta una domanda di concordato preventivo, e così di fatto disinteressandosi completamente della stessa.

In tal modo quello che in passato era considerato quale diritto soggettivo del proponente a realizzare una soluzione della crisi d'impresa alternativa al fallimento, recede ora al rango di una mera aspettativa, sostanzialmente insuscettibile di tutela, almeno stando ai postulati enunciati dalla S. Corte.

È allora anche troppo facile pronosticare come un qualunque Tribunale, le volte in cui si convinca della non fattibilità di un concordato e penda un'istanza di fallimento, anziché affrontare l'indagine su quel requisito rischiando poi di incorrere nei fulmini di una S. Corte particolarmente occhiuta sulla possibilità di sindacarne l'insussistenza, troverà molto più semplice dichiarare de plano il fallimento senza altro dire o, tutt'al più, quando proprio voglia motivare, limitandosi ad indicare i profili di “abusività” della domanda di concordato.

Se, infatti, la S. Corte autorizza il Tribunale a dichiarare il fallimento quando giudichi “abusiva” la domanda di concordato, non solo gli consente di effettuare un intervento di controllo ben maggiore di quello che potrebbe svolgere indagando poi sulla fattibilità, ma comunque lo autorizza anche, e per ciò stesso, a valutare incidentalmente, ex officio, la stessa fattibilità proprio al fine di giudicare dell'“abusività”: del resto, che cosa impedisce di considerare abusiva una domanda di concordato quando la percentuale promessa sia giudicata del tutto irrealizzabile? In tal caso l'intento sottostante alla proposta è solo quello di attribuire in realtà ai creditori assai meno di quanto prospettato o promesso.

Ben potrebbe di conseguenza tale intento non infondatamente reputarsi immeritevole di tutela e quindi abusivo.

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