Insolvenza e negoziazione in Italia: uno sguardo al passato per comprendere il presente e, forse, prevedere un po' del futuro

Giovanni Matteucci
21 Febbraio 2013

“Decoctor, ergo fraudator”: questa definizione, attribuita a Baldo degli Ubaldi, giureconsulto del ‘300, è assurta a riferimento per la dottrina e a giustificazione - semplicistica - delle pesanti pene comminate per i falliti nel corso dei secoli, e anche dalla legge italiana del 1942. Il “rigore”, tuttavia, ha prodotto scarsi risultati concreti in termini di soddisfazione dei creditori e di rapidità delle procedure. Di ciò erano ben consapevoli gli antichi: negli statuti comunali dell'Italia centro-settentrionale, dal ‘200 al ‘400, e nella normativa della Repubblica Serenissima di Venezia (che di commerci se ne intendeva!) c'era ampio spazio per le trattative tra debitore e creditori. Altrettanto dovrebbe fare la legislazione concorsuale italiana contemporanea: negoziazione (tempestiva), usufruendo delle moderne tecniche della mediation.
Premessa

“Meno l'autorità giudiziaria si impiccia degli affari privati, e meglio questi possono essere composti con soddisfazione comune e con minori spese”, considerato che “i privati sono ingegnosissimi nel trovare mille vie di uscita, mille ripieghi ed accomodamenti per definire le controversie: vie e ripieghi a cui sempre male si presta la rigidità di una procedura giudiziaria e la severa sentenza del magistrato. D'altronde, quando non ci sia di mezzo alcun interesse pubblico, o non si tratti di assenti o di incapaci a difendersi, la legge non ha nessuna ragione di intervenire con le sue forme imperiose ed inflessibili”.

Già immagino il tecnico del diritto inarcare il sopracciglio nel leggere queste righe che paiono provenire da un fanatico del Chapter 11 statunitense, fors'anche sostenitore della stravagante mediaconciliazione ritenuta di derivazione anglosassone. Ma la surriportata citazione è a firma di Ercole Vidari e compare nel Vol. IX, 8303, del Corso di diritto commerciale edito a Milano nel 1908. Cioè in Italia più di un secolo fa.

Dall'11 settembre 2012 (nell'ottica di una “privatizzazione” delle procedure concorsuali iniziata nel 2005) la L. n. 134/2012

(Matteucci, La gestione della crisi di impresa - aggiornato al

D.L. n.83/2012(c.d. Decreto Sviluppo) convertito in L. 134/2012, 20.9.2012) ha apportato le ennesime modifiche alla legge fallimentare del 1942, soprattutto in quegli istituti che vengono definiti di gestione della crisi di impresa: piano attestato, accordi di ristrutturazione dei debiti, concordato preventivo.

Essa, tra l'altro:

  • per garantire la massima flessibilità di scelta all'operatore economico ha reso possibile, nella fase iniziale delle procedure, passare dall'accordo di ristrutturazione dei debiti al concordato preventivo, e viceversa, anche se è avviata l'istruttoria fallimentare, mantenendo la tutela da azioni esecutive o cautelari di singoli debitori;
  • per favorire la sopravvivenza dell'impresa, tra l'altro, ha ampliato la prededucibilità dei crediti da finanziamenti, ottenuti negli accordi di ristrutturazione o nel concordato preventivo; ha introdotto il concordato preventivo in continuità, quello il cui piano prevede la prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore o di un terzo, tramite la cessione dell'azienda o il conferimento anche ad una di nuova costituzione; ha dato corpo anche al pre-concordato preventivo, la possibilità cioè per il debitore di avviare in modo molto semplificato la procedura allegando al ricorso solo i bilanci degli ultimi tre esercizi.

Mancano però disposizioni per favorire l'emersione anticipata della crisi, cioè la normativa relativa a tempestività degli interventi (o, se si preferisce, sugli indici di allerta) e quella sulla negoziazione debitore-creditori (adombrata nella L. n. 3/2012 sul sovraindebitamento dei soggetti non fallibili). Una corretta negoziazione è imprescindibile per ottenere un risultato positivo nella gestione della crisi; nonostante ciò, essa è stata del tutto assente nella cultura giuridica e nell'ordinamento italiano del secondo dopoguerra.

Non così nei secoli precedenti.

Dalla Roma repubblicana allo Stato totalitario del XX secolo

Sia nell'antica Grecia che nella Roma repubblicana (Legge delle XII tavole, V secolo A.C.) il non pagamento dei debiti comportava serie conseguenze personali e penali per il debitore. L'economia era basata sugli schiavi, sui servi, per lo più nemici di guerra sconfitti cui era stata “serbata/salvata” la vita. L'insolvente quindi era ridotto in stato di servitù nei confronti del creditore, che poteva anche ucciderlo o venderlo come schiavo. Era prevista tuttavia la possibilità di un accordo. Se, poi, i creditori erano più d'uno, il “concorso” si concretizzava nella possibilità finanche di … tagliare il corpo del debitore in più parti corrispondenti al credito di ciascuno (ma se … si sbagliavano nelle proporzioni, almeno essi non ne avrebbero comunque avuto pregiudizio! - “Tertiis nundinis partis secanto. Si plus minusve secuerunt, se fraude esto”) (

Leggi delle XII Tavole, terza tavola, 451 A.C.).

La Lex Poetilia Papiria (326 a.C.) stabilì “pecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium esse”; cioè garanzia del debito dovevano essere i beni del debitore, non la sua persona. “Da questo momento - scrive il Bonfante - prende data il concetto moderno di obbligazione, secondo il quale la garanzia dell'adempimento è costituita dal patrimonio, non già dalla persona” (De Francisci, Sintesi storica del diritto romano, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1965, 131). Inoltre, già nel IV secolo a.C. “emergeva il carattere universale e concorsuale del fallimento: si trattava di un'esecuzione generale che colpiva tutti i beni del debitore e riguardava tutti i creditori, ma prevedeva anche l'intervento di una terza persona, il ‘bonorum emptor', il quale succedendo al debitore in ‘universum ius' effettuava il pagamento dei creditori in percentuale (rispettando così la ‘par condicio' tra essi) sino alla concorrenza del valore dei beni del creditore spossessato” (Ghia, L'esdebitazione, 2008, 22).

Una prima traccia del concordato preventivo la si trova nel “pactum ut minus solvatur” (basato su un'analisi costi/benefici), dal II secolo d.C., tra l'erede e i creditori dell'eredità oberata. Questi, “per evitare il danno che deriverebbe loro se l'erede rifiutasse l'eredità o si valesse del ‘beneficium abstinendi' o del ‘beneficium separationis', si impegnano ad esigere i loro crediti entro una certa misura; … nel diritto classico questo patto vincolava soltanto i creditori che avevano preso parte alla conclusione; nel diritto giustinianeo esso è impegnativo per tutti i creditori, anche per gli assenti, quando sia stato deliberato dalla maggioranza e sanzionato dal magistrato” (De Francisci, cit., 584).

Secondo le Pandette (VI secolo d.C.) i creditori potevano amministrare i beni del debitore e percepirne i frutti; se non si mettevano d'accordo, chiedevano la nomina di una persona cui delegare l'amministrazione. Faceva capolino la figura del curatore.

È solo nei Comuni del basso medioevo, con il rilievo assunto dell'attività dei mercanti, che il fallimento cominciò a divenire una procedura separata dalle altre giurisdizioni (Lattes, Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle città italiane, Milano, 1884); ma, inizialmente, non riservata ai soli “mercatores”. Gestita dall'autorità pubblica, il suo contenuto spaziava dalla “cessio bonorum”, alla multa, al confino, alla prigionia per debiti, al “bando”, fino alla tortura nel caso di recidiva (Capitula Mercatorum di Lucca del 1300) o alla morte (Statuto dei mercanti di Bologna). Il tutto accompagnato da pene accessorie quali la pittura dell'effige del debitore in luogo pubblico (antesignana dell'“iscrizione in apposito albo”, eliminata dalla legislazione italiana solo nel 2006 - ma sostituita dall'iscrizione nel Registro delle imprese) e la rottura del “banco” presso il quale il debitore insolvente aveva esercitato la sua attività in pubblico (da qui bancarotta, bankruptcy, ecc.).

Ma accanto a tale armamentario di pene pesantissime, un po' di pietas, nonché di sano pragmatismo, facevano capolino.

A Padova, all'inizio del Duecento, per intercessione del “beato frate Antonio”, le pene corporali a carico dei falliti furono sostituite dalla “cessio bonorum” (e dalla prassi disonorevole della “pietra del vituperio”, Portale, Dalla pietra del vituperio alle nuove condizioni del fallimento e delle altre procedure concorsuali, in dircomm.it, genn.-giu. 2009). Poi, nelle varie città, cominciarono ad essere concessi sempre più i salvacondotti (fida, affidatio): il fallito latitante o messo al bando poteva rientrare nel Comune senza essere sbattuto in prigione, per un periodo limitato, al fine di mettersi d'accordo con i suoi creditori. I territori comunali non erano molto estesi, per cui il mercante fallito fuoriuscito da Ferrara poteva ben “riaprire bottega” a Mantova, con una perdita di base imponibile per la prima!

Decoctor, ergo fraudator”: questa la definizione a lungo prevalsa negli statuti medievali (soprattutto se il decoctor era fugitivus), attribuita al giureconsulto Baldo degli Ubaldi, che visse ed insegnò nel ‘300; e ci vollero altri due secoli perché benvenuto Stracca, nel ‘500, distinguesse tra varie specie di falliti (e relative responsabilità) (Stracca, Decisiones et tractatus varii de mercatura, Lione, 1553, III n. 2). Tuttavia già dal ‘200, sulla base di ciò che avveniva per consuetudine, gli statuti comunali avevano cominciato a recepire la figura degli accordi, dei concordati, tra debitore e creditore. “E perciò, mentre troviamo notizie del concordato fin negli statuti del secolo XIII, - è solo - due secoli circa più tardi che la scienza sembra accorgersi di questo istituto già maturato nelle consuetudini e nelle leggi municipali…; ma non prima del secolo XVI lo riconosce come un mezzo normale per evitare o far cessare il fallimento” (Rocco Alfredo, Il concordato nel fallimento e prima del fallimento, Torino, 1902, 36). Chissà se i giureconsulti di allora fossero più inclini alla tecnica avversariale, a volte fine a se stessa, che alla risoluzione delle controversie?!

Diverse le maggioranze richieste per raggiungere questi accordi: 7/8 della somma a Genova, 3/4 dalla somma a Padova, 2/3 della somma e dei creditori a Firenze. Tuttavia “il principio dell'uguaglianza valeva per tutti e dal voto erano esclusi i creditori ipotecari e privilegiati (Genova). Venne ammessa anche una forma di concordato amichevole e anche il concordato giudiziale preventivo, nonché il concordato fallimentare, … omologato con l'intervento dell'autorità costituita, non sempre giudiziaria” (Ghia, cit., 37).

Dopo l'entrata in vigore in Italia della l. n. 3/2012

, sul “sovraindebitamento”, tecnici del diritto - in articoli o convegni - si sono chiesti come l'accordo tra privati, il sinallagma, possa vincolare anche i creditori estranei. Ebbene Statuta populi et communis Florentiae, del 1415: “Et possint etiam dicti syndaci … concordiam facere … de voluntate tamen dicantur duarum partium creditorum aliis etiam absentibus et inrequisitis, aut praesentibus et contradicentibus vel tacentibus, quae compositio, concordia et pacta valeant et tenenat et debeant observari et executioni mandari …” (con buona pace del “sinallagma”).

Tra il 1200 ed il 1700, nell'Italia centro-settentrionale

, il debitore insolvente ed i creditori spesso regolavano i propri rapporti di dare ed avere con accordi, di natura privatistica, che venivano riconosciuti dagli statuti e, se approvati da una maggioranza qualificata, ricorrendo determinate circostanze, erano efficaci nei confronti degli altri creditori, pur dissenzienti: “…il problema del concordato fallimentare fu impostato e risolto dai legislatori proprio e soltanto per quello che era, problema del riconoscimento e della recezione di una figura negoziale, d'una ‘causa contractus'” (lo stesso identico problema si pone agli esegeti contemporanei del diritto fallimentare italiano, all'inizio del XXI secolo, alle prese con la necessità di inquadrare in categorie omogenee i vari strumenti di gestione della crisi aziendale introdotti di recente nell'ordinamento); “... non si trattò di un'impostazione e di una soluzione che non tenesse conto dei precisi termini nei quali il problema si poneva e doveva essere risolto: del terreno sostanziale e processuale nella quale quella figura contrattuale era chiamata ad operare i suoi effetti tipici, del complesso sistema (e del contrasto) degli interessi in gioco, e dell'interesse pubblico che pur vi aveva parte. E la soluzione fu commisurata ai termini del problema: basti pensare alle maggioranze richieste …, alla loro verifica ufficiosa, alle cautele prese contro ogni possibilità di frode, all'obbligo fatto ai dissenzienti (accertata la maggioranza dei consenzienti e l'assenza di frode) di sottostare ai deliberati degli altri creditori: ... nessun organo pubblico entrava nel processo di formazione della volontà delle parti, pur vigilandolo attentamente dal di fuori, e controllandone la legittimità una volta che esso fosse stato concluso. … nella generalità dei casi i legislatori presero atto della prassi e, senza né favorirla né avversarla, precisarono i limiti formali e sostanziali di recepibilità di quella prassi nei loro ordinamenti lasciando agli interessati la facoltà di seguirla o non nei singoli casi, previa un'autonoma valutazione dei loro interessi” (Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell'età intermedia, Padova, 1964, 291). Identici i principi alla base delle modifiche normative italiane sulla gestione delle crisi di azienda introdotte dal 2005 in poi!

Nella Repubblica di Venezia il ricorso ad accordi di natura privatistica (ed il loro riconoscimento da parte della normativa) fu ancora maggiore, tant'è che quando la Serenissima espanse il proprio dominio sulla terraferma, nel Nord Italia, ci furono problemi di comprensione ed attuazione delle sue leggi.

Nella Parte del Maggior Consiglio del 28 marzo 1395 (Cassandro, Le rappresaglie ed il fallimento a Venezia nei secoli XIII - XVI, Torino, 1938, 150) è specificato che la fida (o salvacondotto, o possibilità di arrivare ad un accordo con i creditori) DOVEVA essere concessa se il comportamento del fallito era esente da dolo, se consegnava le scritture e le sue robe; il tutto senza chiedere il parere dei creditori e senza che costoro potessero opporvisi. Inoltre, se le parti non raggiungevano l'accordo, i Sopraconsoli dovevano fa sì che “TOTO SUO POSSE de ponendo ipsum (debitore) in concordio cum suis creditoribus”. I magistrati, cioè, ai quali erano affidate queste procedure, dovevano fare tutto il possibile perché si giungesse ad un accordo (chissà se usavano le tecniche della mediazione?). La ratio di tale orientamento era “quia pium est dare subventionem istis talibus”. È tuttavia altamente probabile che, oltre allo scopo di soccorrere i debitori, i legislatori veneziani cercassero in tutti i modi di mantenere un'attività commerciale sul proprio territorio.

Di tutto ciò se ne fece un abuso, perché fu molto raro il caso di un debitore fraudolento escluso da un concordato “per l'abilità dei debitori insolventi, per la longanimità degli officiali competenti, per la difficoltà di raggiungere la prova della frode e per la spinta della prassi”. Inoltre, “malgrado le pene minacciate e tanto gridare del legislatore, si era giunti a chiedere ed ottenere un salvacondotto, appena acquistata una merce a tempo, .. per prorogare tale pagamento o di vederlo ridotto, mercé un accordo sotto la compiacente protezione dei sopraconsoli” (Cassandro, cit., 114).

L'uso della trattativa per risolvere le controversie commerciali, quindi, a Venezia, era la prassi. E ciò lo si deduce non solo nella normativa in vigore nel ‘300 - ‘400 ma anche dal contenuto della commedia “La bancarotta” (1741) di Carlo Goldoni, commediografo e avvocato (Cabras, Il diritto fallimentare nel teatro di Carlo Goldoni, in Il diritto commerciale d'oggi, VI 1, 2007; in dircomm.it).

L'importanza dei mercanti italiani tra il 1300 ed il 1400 fece sì che molti dei princìpi da loro adottati per risolvere le controversie debitore-creditori venissero riproposti in vari stati d'Europa. Poco in Francia, dove la presenza di un potere fortemente accentrato nel sovrano assoluto diede spazio alle lettres de répit (lettere di respiro), con le quali il re (e poi i giudici suoi delegati) concedevano delle dilazioni nei pagamenti ai mercanti insolventi, bloccando le esecuzioni a loro carico. Dapprima tenendo conto del parere della maggioranza dei creditori, poi sempre meno.

Nel 1807 in Francia fu emanato il Code de commerce, nel quale la direzione del fallimento era saldamente nelle mani del giudice, che doveva accertarne i presupposti e gestire le varie fasi (direttamente o con figure da lui nominate). Due gli esiti della procedura: la liquidazione forzosa dell'attivo o il concordato, al quale però si poteva arrivare solo dopo che l'imprenditore fosse stato dichiarato fallito (ed incarcerato) e redatto lo stato passivo. Fu per volere dello stesso Napoleone, al fine di limitare gli abusi verificatisi nella legislazione precedente, che vennero previste pesanti sanzioni penali nei confronti del debitore insolvente (Di Marzio e Macario, “Autonomia negoziale e crisi di impresa”, Giuffré, 2010, 152). Ma nella pratica rimase un ampio spazio negoziale, tanto più ricercato quanto più pesanti erano i rigori della legge ed i tributi esatti nelle varie fasi delle procedure. Portato dalle armate francesi in varie regioni europee, Il Code de commerce entrò in vigore anche in Italia dal 1808. In parte abrogato dopo la Restaurazione, esso tuttavia fu la base della normativa nel neonato stato unitario italiano (nonché in Olanda, Belgio, Spagna e Portogallo).

Il 1° gennaio 1866 entrarono in vigore sia il primo Codice civile dello stato unitario sia il primo Codice di commercio. In quello, i primi sette articoli regolavano la conciliazione, a riprova di come questo istituto - oggi classificato nell'ordinamento italiano come mediazione civile volta alla conciliazione - faccia parte a pieno titolo della nostra tradizione giuridica.

Il Codice di commercio, dopo pochi anni, nel 1882, fu sostituito da uno nuovo, composto di quattro libri: Del commercio in generale, Del commercio marittimo e della navigazione, Del fallimento, Dell'esercizio delle azioni commerciali e della loro durata.

Il fatto che ci fossero due codici, civile e del commercio, rispondeva alla presenza di due classi economiche in parte distinte: i proprietari terrieri, in genere nobili, i cui interessi erano basati sulla ricchezza immobiliare e sul diritto di proprietà; la borghesia commerciale, che necessitava di regole basate sugli scambi (Pepe, Codice Civile (1865) e Codice di Commercio (1882), II ed., 2001).

Applicare la normativa commerciale a tutti o solo ai commercianti? Il Parlamento optò per la seconda soluzione, anche se non mancarono voci dissonanti tra i politici e soprattutto nella dottrina (per tutti, Cesare Vivante). Quest'ultimo autore, inoltre, lamentava che il fallimento era considerato dal legislatore del 1882 “come un fenomeno morboso che si deve prevenire con gravi sanzioni” e non come “una necessità fisiologica del commercio di cui il fallito non è che una vittima” (Vivante, Trattato di diritto commerciale, Milano, 1906, vol. I, 453); anche se questa interpretazione della realtà è un po' troppo “buonista”, tuttavia la sua essenza si riproporrà, identica e fondata, con la

Legge Fallimentare del 1942.

Per quanto poi riguarda gli accordi tra debitore e creditori il Codice di commercio del 1882 prevedeva la moratoria”:

  • art. 819, “Se la sentenza dichiarativa del fallimento fu pronunciata ad istanza dei creditori o di ufficio, il fallito, ove possa giustificare con valide prove che la cessazione dei pagamenti fu conseguenza di avvenimenti straordinari e impreveduti o altrimenti scusabili, e dimostrare … che l'attivo del suo patrimonio supera il passivo, può chiedere al tribunale, nei tre giorni successivi alla pubblicazione della sentenza, che si sospenda l'esecuzione di questa …”.
  • art. 825, Se durante la moratoria abbia luogo un accordo amichevole con tutti i creditori, le relazioni ulteriori fra questi ed il debitore si regolano secondo la convenzione./ L'accordo può anche validamente stipularsi colla sola maggioranza dei creditori che rappresenti almeno i tre quarti del passivo, purché i creditori assenzienti assumano insieme con il debitore le conseguenze di ogni lite coi dissenzienti, e, ove occorra, l'intiero pagamento dei loro crediti…”. Tra i requisiti per chiedere la dilazione dei pagamenti: un attivo superiore al passivo, essere “commerciante” (sia persona fisica che giuridica) e meritevole (

    Fassa, “Moratoria”, in Enciclopedia giuridica italiana, 1901, 434 e 460

    ). Oltre alla moratoria dopo la dichiarazione di fallimento, ne era prevista anche una prima.
  • “Del concordato” - Art. 830: “In ogni stadio delle procedure di fallimento può aver luogo un concordato tra il fallito ed i suoi creditori, se tutti vi acconsentano …”. Art. 831: ”Se non abbia luogo il concordato per consenso di tutti i creditori, il fallito, il curatore o la delegazione dei creditori, o tanti creditori che rappresentino almeno una quarta parte del passivo, possono sempre chiedere al giudice delegato una convocazione dei creditori per la proposta di concordato”.

Fu introdotto anche un indice di allerta, all'art. 689: “Nei primi sette giorni di ogni mese i notari e gli usceri devono trasmettere al presidente del tribunale di commercio nella cui giurisdizione risiedono o del tribunale civile che ne fa le veci … un elenco dei protesti fatto nel mese precedente. / L'elenco deve indicare la data di ciascun protesto, il nome, il cognome e il domicilio delle persone alle quali fu fatto e del richiedente, la scadenza dell'obbligazione protestata, la somma dovuta e i motivi del rifiuto del pagamento./ Gli elenchi devono essere di mese in mese riuniti in fascicoli e conservati nella cancelleria, affinché ognuno possa prenderne notizia./…”.

Nello stesso periodo, in Inghilterra, fu approvato The Bankruptcy Act del 1883, in base al quale, prima di iniziare la procedura fallimentare davanti alla corte, era prevista una adunanza preliminare, nella quale il magistrato valutava la situazione ed emanava eventuali provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio del debitore; sempre in tale fase preliminare, inoltre, era obbligatorio convocare una riunione dei creditori, nella quale era possibile raggiungere una “composition or scheme of arrangement”. “I dispendi fallimentari preoccupano, anche più di noi, gli inglesi. Ed è forse perciò che la loro

legge fallimentare

è ritenuta fra le migliori, pur non disconoscendosi che i più avvantaggiati sono gli intermediari della procedura!”: Bolaffio, “Il concordato preventivo”, Torino, 1933, 2.

L'istituto della moratoria, in Italia, non diede buona prova di sé, soprattutto per la difficoltà di dimostrare la vera esistenza di un attivo superiore al passivo; la Legge n. 197 del 1903

, quindi, introdusse nell'ordinamento giuridico italiano (Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell'età intermedia, Padova, 1964, 301) il concordato preventivo:

  • art.1, “Fino a che il fallimento non sia dichiarato, ogni commerciante può chiedere, con ricorso al tribunale nella cui giurisdizione ha il principale stabilimento commerciale, la convocazione dei propri creditori per proporre un concordato preventivo. …”;
  • art.2, “Il ricorrente deve presentare insieme con la domanda: i suoi libri di commercio obbligatori … tenuti regolarmente da un triennio; uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività; l'elenco nominativo di tutti i suoi creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti e domicili … . / Il ricorrente esporrà le ragioni che determinano la sua domanda e indicherà i patti e le condizioni che intende proporre ai suoi creditori, o i motivi pei quali non può indicarli immediatamente” (un pre-concordato preventivo ante litteram!)

  • art.3, -“Il tribunale, sentito il pubblico ministero, dichiara con decreto deliberato in camera di consiglio e non soggetto a reclamo, inammissibile il ricorso:

1° - se il ricorrente non ha presentato i libri e documenti indicati nel precedente articolo;

2° - se il ricorrente è stato condannato per uno dei reati …..;

3° - se non offre serie garanzie, reali o personali, di poter pagare almeno il 40% del capitale dei crediti non privilegiati o non garantiti da ipoteca o da pegno …”.

Con la stesa legge 197/1903 veniva introdotta anche la “Procedura dei piccoli fallimenti”, nell'ambito della quale il pretore poteva anche conciliare i dissidi tra debitore e creditori. Lo spirito di questa normativa non risulterà troppo dissimile, un secolo dopo, da quello della L. 3/2012 sul sovraindebitamento dei soggetti non fallibili.

Riassumendo, prima della Grande Guerra la normativa fallimentare italiana prevedeva anche accordi negoziali di composizione della crisi dell'operatore economico, sotto il controllo del giudice; questi, nelle controversie di modesta entità, operava anche da mediatore (“amichevole compositore”).

L'avvento al potere dell'ideologia fascista portò all'affermazione dello Stato totalitario, al quale tutto doveva essere ricondotto, dalla Croce Rossa ai Vigili del Fuoco. La composizione delle controversie tra privati, la cui normativa nel Codice civile del 1866 occupava i primi sette articoli (la porta di ingresso dell'intero codice), in quello di procedura civile del 1942 sarà relegata all'art. 320, per di più un passaggio nell'ambito di una procedura affidata ad un magistrato. La voce “Conciliatore” nel Digesto italiano del 1886, ad opera di Scamozzi, occupava 120 pagine (un vero e proprio trattato); nel Nuovo Digesto italiano del 1938 è ristretta a sole 4 pagine. La gestione delle controversie, quindi, doveva essere gestita dai giudici dello Stato, non solo in campo civilistico, ma anche in quello commerciale; la negoziazione debitore-creditori era considerata un fenomeno del tutto residuale, ininfluente. E l'imprenditore insolvente andava eliminato dal contesto produttivo, tutelando al massimo i creditori. Alla borghesia dei commerci di fine ‘800 si era sostituita l'impresa, ed i crediti da essa vantati andavano riscossi. Da non dimenticare, poi, che dall'inizio degli anni '30 anche l'Italia era entrata nel vortice della grave crisi economica mondiale (deflagrata in America nel 1929) ed affrontata con un poderoso intervento dello Stato e l'eliminazione di fatto delle imprese decotte.

Anche la disciplina del concordato preventivo fu modificata, dapprima con il decreto legge 136/1924 (convertito nella Legge 473/1925), poi con la Legge 995/1930

, “la quale, dopo avere, con tratti sintetici magistrali, informato il fallimento all'indirizzo politico legislativo del nuovo regime statale, intese, per armonico riflesso, introdurre, nei suoi articoli da 21 a 24, sostanziali modificazioni anche nella legge originaria sul concordato preventivo” (Bolaffio, Il concordato preventivo secondo le sue tre leggi disciplinatrici, Torino, 1933, premessa). Contenuto e stile della propaganda tipo “Istituto Luce” informavano anche i testi giuridici!

Si arrivò così al Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, conosciuto come Legge Fallimentare.

1942 : Legge Fallimentare

“Sire, la legge che mi onoro di presentare alla Vostra augusta approvazione è destinata a sostituire il libro terzo del codice di commercio del 1882, dopo che la riforma del codice civile e il nuovo codice della navigazione hanno assorbito la materia degli altri libri del codice di commercio.

La presente legge non tratta però solo del fallimento, come il terzo libro del codice di commercio, ma tratta anche del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa. Con ciò la nuova legge … intende … dare un'impronta sostanzialmente unitaria alla disciplina della crisi economica dell'impresa in relazione ai superiori interessi dell'economia generale. Ciò conferisce a questa legge una particolare importanza anche politica, per modo che, se anche la presente legge non viene a inserirsi formalmente nei codici, non si può dubitare che ne costituisce parte integrante, e concorre coi codici medesimi a formare il nuovo corpus juris della nazione”.

Nella presentazione che il Ministro Guardasigilli Grandi faceva al Re del testo della nuova normativa fallimentare si parla esplicitamente di disciplina unitaria della crisi economica dell'impresa (si prendeva atto, quindi, che il fenomeno era diventato multiforme e complesso), in relazione agli interessi dell'economia in generale (un bel salto avanti rispetto alla visione ottocentesca, tutta incentrata sul singolo). Ma si trattava di un ossequio formale alla teoria dell'“Unternehmen”, elaborato dalla dottrina austro-tedesca dagli inizi del Novecento, che aveva posto l'organizzazione imprenditoriale, nella sua complessa unitarietà, al centro del concorso, oppure di una pragmatica presa d'atto della realtà? E, soprattutto, quali strumenti specifici venivano predisposti per gestire la crisi dell'impresa, tenendo conto del più ampio contesto socio-economico in cui operava?

La relazione che accompagnava il progetto di legge specificava i criteri della riforma: “L'idea di comprendere in una disciplina unitaria tutti gli aspetti della crisi economica dell'impresa non è frutto di un'elaborazione dottrinaria ma è il naturale sbocco di un vasto processo iniziatosi da molti anni, a seguito della constatata insufficienza del fallimento a regolare le diverse situazioni a cui la crisi dell'impresa può dar luogo. Il fallimento, nella sua stessa origine storica, non è che una esecuzione forzata, più complessa di quella individuale, ma sempre esecuzione, che tende alla liquidazione dell'impresa. Questo carattere si rivela esorbitante rispetto a quelle crisi economiche che non sono indici di mancanza di vitalità dell'impresa e che possono essere superate senza arrivare alla liquidazione dell'impresa. La legge del 1903 sul concordato preventivo, correttivo e quasi antidoto del fallimento, ha inteso precisamente far fronte a tali speciali situazioni e l'istituto del concordato preventivo, ormai collaudato da un quarantennio di esperienza, non poteva non essere coordinato con la nuova legge

sul fallimento. D'altra parte le vicende economiche di questi ultimi quaranta anni hanno mostrato come talvolta la crisi di un'impresa possa essere una momentanea difficoltà, che non implica impotenza a pagare i debiti. In relazione a queste situazioni, dopo l'abrogazione dell'inidoneo istituto della moratoria (1903), il nostro ordinamento, a differenza di molte leggi straniere, non disponeva di uno strumento adatto per consentire all'impresa di superare le difficoltà, senza rischio per i creditori; ma la pratica lo reclamava e sopperiva alla sua mancanza come poteva. ... a tal fine ho previsto … il nuovo istituto dell'amministrazione dell'impresa sotto controllo giudiziario (amministrazione controllata). Infine l'organizzazione di controlli amministrativi su vaste categorie d'imprese, che involgono interessi di carattere generale (imprese assicurative, di credito, ecc.). E il conseguente assoggettamento di tali imprese - normalmente società o enti pubblici - a particolari forme di liquidazione amministrativa, nei casi di più gravi irregolarità, hanno dimostrato che per tali categorie di imprese la stessa tutela degli interessi dei creditori, anche in caso di insufficienza patrimoniale, può essere meglio realizzata con procedure amministrative che con procedure giudiziarie. … . A ciò provvede ... la liquidazione coatta amministrativa che è una delle novità salienti della presente riforma”.

C'è la presa d'atto di una realtà molto variegata, per fronteggiare la quale sono previsti strumenti differenziati in base alle necessità ed agli obiettivi che si vogliono raggiungere. Una posizione del tutto condivisibile.

Tuttavia, sempre nella relazione che accompagnava il testo di legge, relativamente all'art. 1: “una delle questioni più dibattute sotto l'impero del codice del 1882 era quella della determinazione del cosiddetto presupposto obbiettivo del fallimento, e cioè del fatto economico che giustifica la dichiarazione del fallimento. L'art. 683 del codice era particolarmente infelice su questo punto, perché contrapponeva uno stato di fallimento, conseguente alla cessazione dei pagamenti, anteriore al fallimento dichiarato, quasi che lo stato di fallimento potesse sussistere senza questa preventiva dichiarazione. È stato giustamente osservato che prima del fallimento, e cioè della sentenza che lo dichiara, non c'è uno stato di fallimento, ma un fatto o uno stato economico, quale l'insolvenza, così come prima dell'interdizione non c'è uno stato di interdizione, ma un fatto naturale, quale l'infermità di mente, e via dicendo. L'insolvenza è appunto il fatto o lo stato che la legge presuppone come necessario per la dichiarazione di fallimento: e questo concetto ampio e comprensivo sostituisce quello di cessazione dei pagamenti del codice, la quale può essere un sintomo, e lo sarà magari ordinariamente, ma può anche essere determinata da altri temporanei fattori, che escludono l'opportunità o la convenienza di dichiarare il fallimento. Questa precisazione era tanto più necessaria in quanto la legge prevede la temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni (che è cessazione di pagamenti ma non insolvenza) come presupposto della amministrazione controllata (art. 187)”.

Questo tipo di dissertazioni dottrinali ricordano molto le discettazioni sul sesso degli angeli che, nel Medioevo, impegnarono le più belle menti della Chiesa per circa un millennio, dopodiché si realizzò che forse non erano così determinanti per la gloria dell'Onnipotente. Inoltre, nel brano sopra riportato, per meglio chiarire i concetti, si accostava il fallito all'interdetto; il che fa ben comprendere la considerazione che si aveva dell'insolvente.

Nelle sue linee generali la presente legge reagisce decisamente alla concezione troppo liberalistica del codice del 1882, e sviluppa su un piano organico i principi affermati dalla legge Rocco del 1930 nel senso di una più energica tutela degli interessi generali sugli interessi individuali dei creditori e del debitore. Si suole a questo proposito parlare di una nuova concezione pubblicistica del fallimento in contrapposto a una tradizionale concezione privatistica. Non è però tanto importante né in materia di fallimento - né più in generale in materia di processo civile - la definizione astratta dei sistemi. Ciò che importa è che la nuova legge assume la tutela dei creditori (non uti singuli, ma come entità astratta - n.d.r.) come un altissimo interesse pubblico e pone in essere tutti i mezzi perché la realizzazione di questa tutela non venga intralciata da alcun interesse particolaristico, sia del debitore sia dei singoli creditori”.

In altre parole, “fiat lex sed pereat mundus”.

Se poi dalle enunciazioni di principi si passa alle singole norme si rileva che:

Art. 42. La sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento. / …

Art. 43. Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore. / …

Art. 48. La corrispondenza diretta al fallito deve essere consegnata al curatore, il quale ha diritto di trattenere quella riguardante interessi patrimoniali. Il fallito ha diritto di prendere visione della corrispondenza./ …

Art. 49. Il fallito non può allontanarsi dalla sua residenza senza permesso del giudice delegato, e deve presentarsi personalmente a questo, al curatore o al comitato dei creditori ogni qualvolta è chiamato, salvo che, per legittimo impedimento, il giudice lo autorizzi a comparire per mezzo di mandatario.

Art. 84. Dichiarato il fallimento, il giudice delegato … procede immediatamente … all'apposizione dei sigilli, sui beni che si trovano nella sede principale dell'impresa e sugli altri beni del debitore.

Se non era la morte civile, poco ci mancava. E tutte le procedure (anche quelle improntate ad “umanità”, come il concordato preventivo e l'amministrazione controllata) erano accentrate sui giudici, organi dello Stato, ritenuti espressione massima della tutela della giustizia sociale. Accordi tra privati, tecniche negoziali tra debitore e creditori neanche menzionati. Alquanto ovvio che nei decenni successivi all'entrata in vigore della legge (1942) i debitori abbiano cercato in tutti i modi di evitare le procedure concorsuali, ricorrendo a qualunque tipo di artificio, con la conseguenza - nella stragrande maggioranza dei casi - di peggiorare la situazione economica dell'impresa e far arrivare nelle aule dei tribunali situazioni del tutto decotte. Dopodiché procedure lunghissime costellate da ricorsi ed appelli; spese che riducevano di molto le poche disponibilità sopravvissute; disponibilità residue per i creditori spesso nulle; distruzione di quello che è il motore della ricchezza, le aziende. In pratica, si ripeté quanto successo in Francia con l'emanazione del Code Napoleon (vedi supra).

Da segnalare poi che la legge del 1942 velocizzò l'unico indice di allerta allora previsto, la segnalazione dei protesti, il cui intervallo passò da 30 a 15 giorni. Non pare però che, con gli anni, abbia dato buona prova di sé.

E tutto ciò, nonostante che nel 1933, pochi anni prima dall'entrata in vigore della Legge Fallimentare, Leone Bolaffio avesse riconosciuto che la normativa inglese era tra le migliori in essere; la quale prevedeva, tra l'altro, una fase preliminare alla procedura del fallimento, con un tentativo obbligatorio di accordo basato sulla negoziazione tra debitore e creditori.

Fu mantenuta l'impostazione di applicare la normativa fallimentare (e gli istituti connessi) al solo imprenditore commerciale privato, escluso il piccolo imprenditore (le società commerciali non erano mai considerate piccole). Si riteneva, infatti, che la nuova legislazione civilistica sulle esecuzioni assicurasse un efficiente mezzo di tutela per i creditori dei debitori privati.

Innovazioni alla Legge Fallimentare, dal 1979 al 2012

Le critiche alla Legge Fallimentare fioccarono quasi da subito (

Ferrara Francesco, Il fallimento, Milano, Giuffrè, 1974, prefazione, pagg. X-XI), ma la forte crescita economica registrata in Italia negli anni '60 quasi nascose il problema al grosso pubblico. Quando poi nei decenni successivi aziende di grosse dimensioni avrebbero dovuto portare i libri contabili in Tribunale, per motivi principalmente elettorali si ricorse a strumenti tipo GE.PI. (cioè al debito pubblico).

Un primo indirizzo legislativo di cambiamento di rotta si ebbe nel 1979 con la Legge Prodi (“Provvedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”), che introdusse nell'ordinamento giuridico italiano la possibilità per un'impresa (di grandi dimensioni) in stato di insolvenza di continuare l'attività per un periodo non breve, tramite un piano di risanamento che, tenendo conto dell'interesse dei creditori, indicasse gli impianti da riattivare, quelli da completare e quelli da trasferire, non escludendo eventuali nuovi assetti imprenditoriali. Tale normativa fu riformata nel 1999 dalla c.d. Legge Prodi-bis, il cui scopo era la conservazione del patrimonio della grande impresa insolvente mediante prosecuzione, riattivazione e riconversione delle attività imprenditoriali. La sopravvivenza dell'azienda, quindi, era divenuto l'obiettivo primario; il soddisfacimento dei creditori, cardine della normativa fallimentare in vigore dal 1942, non prevaleva più su tutto.

Sempre per le grandi imprese in stato di insolvenza, la Legge Marzano del 2004 introdusse la possibilità di suddividere i creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei, con la possibilità di trattamenti differenziati concordati con i creditori stessi.

Nell'ordinamento giuridico italiano si erano affacciati, quindi, alcuni dei principi propri della normativa statunitense sulla crisi di impresa, enunciati nel Chapter 11 dell'U.S. Code.

Molteplici inoltre i progetti di riforma. Uno, in particolare, quello prodotto dalla Commissione Trevisanato, nel quale è di notevole importanza, ed assoluta novità, l'incipit:

“ Titolo I, Disposizioni generali.

Art.1 - Finalità degli istituti di allerta e prevenzione, delle procedure di composizione concordata della crisi e di liquidazione concorsuale.

Gli istituti di allerta e prevenzione sono diretti a far emergere con tempestività la crisi dell'impresa in funzione di ricercare le soluzioni più adatte per il suo superamento.

La procedura di composizione concordata della crisi è diretta a consentire al debitore di superare la crisi o di regolare il suo stato di insolvenza proponendo ai creditori un piano che può avere finalità conservative, liquidatorie o miste.

La procedura di liquidazione concorsuale è diretta a soddisfare i creditori concorsuali attraverso la liquidazione del patrimonio del debitore e la successiva distribuzione del ricavato ovvero attraverso un piano di regolazione dell'insolvenza alternativo alla liquidazione del curatore”.

Fulcro della procedura, quindi, non era più - come nel 1942 - la tutela dell'entità astratta “creditori” realizzata tramite l'attività dei giudici dello Stato, massimi tutori della giustizia sociale, bensì gli interessi dei singoli, i quali ultimi dovevano trovare una composizione concordata per superare la crisi aziendale. Ci si riallacciava, cioè, idealmente alle disposizioni della Repubblica Serenissima di Venezia, alla normativa anglosassone sulla bancarotta di fine Ottocento, alla dottrina giuridica italiana dei primi del Novecento. Soprattutto, si prendeva atto della realtà (Cabras Giovanni, “La governance del fallimento nella riforma del diritto fallimentare”, in dircomm.it) .

Novità quasi assoluta per l'Italia le disposizioni sugli istituti di allerta e prevenzione, mutuati dall'esperienza francese, normati dall'articolo 8 al 12, anche se un po' farraginosi. Nella normativa e letteratura giuridica italiana, infatti, il problema dell'emersione tempestiva della crisi di impresa è quasi sconosciuto; è stato invece analizzato dalla scienza aziendalistica. Riflessioni comuni tra le due dottrine, sull'argomento, sarebbero più che opportune.

Il lavoro, organico, della Commissione Trevisanato non trovò uno sbocco normativo, per il dissenso principalmente di Confindustria ed ABI. Il legislatore, quindi, ricorse ad interventi stralcio; operò cioè sulle singole pezze del vestito di Arlecchino.

Ecco allora il D.L. 14 marzo 2005 n. 35

(c.d. “decreto competitività”), convertito con modifiche nella

L. 14 maggio 2005, n.80, con cui si intervenne pesantemente sulla revocatoria fallimentare (consistente favore alle banche), si novellò il concordato preventivo (attività del magistrato esclusa dalla valutazione del merito della proposta e limitata al controllo di legalità; suddivisione dei creditori in classi) e furono introdotti i piani attestati di risanamento e gli accordi di ristrutturazione dei debiti (gli accordi stragiudiziali stipulati per evitare le procedure concorsuali cessarono di essere “clandestini”; rimaneva però ancora il problema della revocatoria degli atti compiuti in loro esecuzione e della finanza-ponte, nonché il rischio di incorrere nel reato di bancarotta preferenziale).

Accolti i desiderata delle banche in relazione alla revocatoria, si diede mano ad un intervento più ampio nella normativa fallimentare, con la delega conferita al governo nella stessa

L. 80 del 2005, cui seguì il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169

, c.d. “decreto correttivo”. Nel frattempo era stato approvato il

D.Lgs. 9.1.2006, n. 5

, che ha dato il via alla cd. “riforma organica”.

Il fallimento era sempre meno la procedura “principe”, maggiore spazio veniva riservato agli accordi debitore-creditori sia a livello privato (accordi di ristrutturazione dei debiti, affiancati dalla transazione fiscale - art. 182-ter l. fall

.) sia a livello procedurale (concordato preventivo). Tuttavia un piano di ristrutturazione aziendale nella stragrande maggioranza dei casi richiede nuova finanza; in tali situazioni i creditori (rectius, le banche) erano ancora molto restii a concedere nuovi prestiti, perché, in caso di evoluzione negativa della situazione e di apertura di una procedura fallimentare, il loro ultimo credito sarebbe andato in concorso con gli altri preesistenti e sarebbe stato sottoposto al rischio di bancarotta preferenziale. Nel

D.L. 31 maggio 2010, n.78, convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122, l'art. 48 introdusse la prededucibilità dei crediti concessi dalle banche in esecuzione di un accordo di ristrutturazione dei debiti o di un concordato preventivo (art. 182-quater l. fall.) e la esenzione dalla bancarotta semplice e preferenziale per i pagamenti e le operazioni compiuti nelle stesse procedure (art. 217-bis l. fall.). Queste ultime, dall'entrata in vigore di dette norme, sono state usate sempre più spesso.

Con il D.L. 6 luglio 2011, n. 98 convertito con modificazioni nella L. 15 luglio 2011, n. 111 fu previsto il ricorso agli accordi di ristrutturazione ed alla transazione fiscale da parte delle aziende agricole. La separatezza storica tra aziende commerciali medio grandi, che potevano ricorrere al fallimento, e tutte le altre, da questo escluse, cominciava ad essere incrinata.

Nell'estate 2008 era deflagrata la crisi economica mondiale, che immediatamente riverberò i suoi effetti negativi anche in Italia. Crebbero notevolmente i fallimenti e le richieste di concordato preventivo, questi ultimi nella stragrande maggioranza dei casi a contenuto liquidatorio; concetti - e prassi - come tempestività (indici di allerta) e tecniche negoziali tra debitore e creditori erano e sono molto poco conosciuti e, quindi, quasi per nulla praticati. Era aumentato l'indebitamento (a livello internazionale ormai conosciuto ed analizzato come overindebtedness) ma non solo quello delle aziende commerciali medie e grandi; il fenomeno riguardava anche le imprese agrarie, le commerciali medio piccole e piccole, nonché i privati, soggetti tutti esclusi dalle variegate procedure previste da quella che continua ad essere chiamata

Legge Fallimentare. Nei tribunali aumentavano sempre più, contribuendo ad intasarli, le procedure individuali di recupero crediti.

Dal 2008 vagava per le aule parlamentari il progetto di legge Centàro, che, dopo uno slalom procedurale, portò alla L. 27 gennaio 2012, n. 3, entrata in vigore il 29 febbraio 2012. La l. n. 3/2012 (Matteucci, Crisi da sovraindebitamento, in altalex.com) prevede la possibilità per un soggetto sovraindebitato, non fallibile, di negoziare con i suoi creditori accordi di ristrutturazione dei debiti, con un possibile periodo “di grazia” da azioni contro il suo patrimonio fino ad un massimo di sedici mesi, con l'aiuto e la vigilanza dell'organismo di composizione della crisi (figura al di fuori dell'ordinamento giudiziario) e sotto il controllo del magistrato. Ripeto, un soggetto sovraindebitato non fallibile, cioè imprenditore commerciale medio piccolo, tutti gli imprenditori agrari, i soggetti privati.

La L. n. 3/2012, poi modificata e integrata dal D.L. n. 179/2012, convertito dalla l. n. 221/2012, quindi, ha fatto sì che in Italia, dopo 150 anni dalla costituzione dello Stato unitario, tutti i soggetti possano accedere ad una procedura non individuale di gestione della loro situazione debitoria.

Altra novità quasi assoluta (si ricordi quanto previsto dall'art. 37 della L. n. 197/1903 sui “piccoli fallimenti”) l'organismo di composizione della crisi può svolgere anche la funzione di facilitatore/mediatore tra debitore e creditori.

Situazione attuale e prospettive (auspicabili)

Oggi la normativa “latu sensu” fallimentare italiana prevede che:

  • tutti i soggetti economici indebitati possano ricorrere a procedure non individuali di recupero crediti;

  • tutti i debitori hanno possibilità differenziate di raggiungere accordi con i creditori, sotto il controllo del magistrato;

  • ci sono dei soggetti qualificati che possono operare (in pochissime procedure) come facilitatori/mediatori; discorso diverso è se ci siano competenze per ricoprire questo ruolo;

  • alla soddisfazione dei creditori si è affiancato l'obiettivo di sopravvivenza dell'impresa e la procedura “principe” non è più il fallimento, ma il concordato preventivo.

La L. n. 134/2012

- tra l'altro - ha reso possibile passare dal concordato preventivo agli accordi di ristrutturazione dei debiti (e viceversa) anche nel corso di un'istruttoria fallimentare, mantenendo inalterate le tutele delle trattative; anzi, anticipandole nel tempo. Sono stati introdotti il concordato preventivo in continuità ed il pre-concordato. In quest'ultimo caso forse ci si è spinti troppo in là: il debitore può attivare la procedura prima ancora di aver concluso gli accordi con i creditori. Operatori poco coscienziosi, quindi, potrebbero essere indotti a rivolgersi al magistrato con modalità e tempistiche inadeguate, fors'anche controproducenti. E gli abusi riscontrati nell'utilizzo degli strumenti negoziali nei secoli passati dovrebbero far riflettere.

“L'istituto del concordato è fra quelli, di cui più ardua è la sistemazione scientifica, e più difficile la pratica applicazione. Dal punto di vista teorico esso ci presenta l'anomalia di un contratto, al quale resta vincolato anche chi non vi ha assentito o vi ha dissentito; dal punto di vista pratico ci offre, accanto al beneficio di una soluzione più rapida, più semplice, meno costosa del fallimento dichiarato o imminente, il pericolo di frodi da parte dei debitori di mala fede, e di soprusi da parte dei creditori disonesti o rapaci” (R. Alfredo, Il concordato nel fallimento e prima del fallimento, Torino, 1902).

Le innovazioni introdotte nella normativa fallimentare dal 2005 in poi sono state numerose e profonde ma non hanno ancora sortito risultati adeguati. Uno studio recente mostra che la soddisfazione dei creditori continua ad essere molto bassa e che un po' meno dell'80% delle imprese che attiva una procedura concorsuale ha già cessato di operare.

Continuano a mancare leggi che facilitino l'emersione anticipata della crisi (uno dei prerequisiti essenziali per una sua soluzione positiva di essa), cioè non sono stati normati gli indici di allerta. Pochissima (quasi nulla) attenzione è data alla negoziazione debitore-creditori (da gestire con le tecniche elaborate per la mediation): un'analisi degli statuti comunali dell'Italia centro settentrionale dal ‘200 al ‘400, nonché della normativa della Repubblica Serenissima di Venezia, potrebbe aiutare.

Guida all'approfondimento

Bolaffio Leone, Il concordato preventivo, Torino , 1933

Cabras Giovanni, Il diritto fallimentare nel teatro di Carlo Goldoni, in dircomm.it

Cabras Giovanni, La governance del fallimento nella riforma della legge fallimentare, in dircomm.it

Cabras Giovanni, Quale filosofia per la crisi di imprese?, in dircomm.it

De Francisci Pietro, Sintesi storica del diritto romano, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1965

Diliberto Oliviero, Bibliografia ragionata delle edizioni a stampa della Legge delle XII Tavole - Secoli XVI - XX, Robin Edizioni

D'Ippolito Federico M., Problemi storico-esegetici delle XII Tavole, Edizioni scientifiche italiane, 2003

Fassa Cesare, Moratoria, Enciclopedia giuridica italiana, 1901

Ghia Lucio, Esdebitazione, Milano, 2008

Ferrara Francesco, Il fallimento, Giuffrè, 1974

Lattes, Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle città italiane, Milano, 1884

Matteucci Giovanni, Crisi da sovraindebitamento, in altalex.com

Matteucci Giovanni, La gestione della crisi di impresa,in altalex.com

Negri Giovanni, Fallimento, riforma da completare, Il Sole -24 Ore, 18.11.2012

Portale Giuseppe B., Dalla pietra del vituperio alle nuove condizioni del fallimento e delle altre procedure concorsuali, in dircomm.it

Pepe Jolanda, Codice civile (1865) e Codice di commercio (1882), II ed., Napoli, 2001

Pipia Umberto, Del fallimento, del concordato preventivo e dei piccoli fallimenti, Torino, 1931

Rocco Alfredo, Il concordato nel fallimento e prima del fallimento, Torino, 1902

Santorelli Umberto, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell'età intermedia, Padova, 1964

Trevisanato (Commissione), relazione, Il diritto fallimentare delle società commerciali, 2004, I

Varè Giovanni Battista, Atti del Parlamento italiano, Camera dei Deputati, 1880 - 1882, XVI legislatura

Violante Raffaele, Autonomia contrattuale e fallimento tra fondazioni medievali, diritto comune e codici, in Di Marzio F. e Maciario F., Autonomia negoziale e crisi di impresa, Giuffrè, 2010

Vivante Cesare, Trattato di diritto commerciale, Milano, 1906.

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