Il regime fiscale delle perdite su crediti degli istituti bancari nei confronti delle imprese in crisi

Alessandro Muradore
08 Gennaio 2015

Il contributo prende in esame il regime fiscale delle perdite da parte degli istituti bancari sui crediti nei confronti delle imprese in crisi. Gli Autori vagliano le diverse alternative, alla luce delle novità introdotte dalla Legge di Stabilità, che la banca può percorrere di fronte a un credito difficilmente recuperabile concentrandosi, per ognuna, sugli effetti che si produrranno sia in capo alla banca che al debitore.
Premessa

L'attuale momento storico vede molte aziende versare in una situazione di difficoltà finanziaria, tale, talvolta, da pregiudicare la restituzione dei finanziamenti concessi dagli istituti di credito.

In tale contesto, di fronte ad un credito difficilmente recuperabile, le banche hanno in buona sostanza tre alternative: o decidono di stralciare il credito rilevando una perdita, o optano per una svalutazione, oppure valutano progetti di ristrutturazione del debito, qualora vi siano i presupposti per la conservazione della continuità aziendale e prospettive di risanamento.

Quest'ultima soluzione potrebbe concretizzarsi nella conversione dei crediti (vantati dagli istituti bancari) in partecipazioni al capitale sociale dell'impresa interessata.

Alla luce delle recenti modifiche apportate dalla Legge di Stabilità 2014, le banche dovranno valutare la soluzione più adatta alle proprie esigenze, considerando tutti i diversi impatti fiscali prodotti dalle diverse fattispecie.

Per converso, a seconda della strada intrapresa, emergeranno impatti fiscali differenziati anche in capo alla società debitrice.

Stralcio del credito o svalutazione

Effetti in capo alla banca

La Legge di Stabilità 2014 ha ridisegnato la disciplina di deducibilità delle perdite su crediti e delle svalutazioni per gli enti creditizi e finanziari.

Come confermato dall'Amministrazione finanziaria (

Circolare Ag. Entr. 14/2014, par. 2. In dottrina, si veda Galli C., Palanca M., Più coerenti i criteri di deducibilità di svalutazioni e perdite su crediti per banche e assicurazioni, in Corr. Trib., 2014, n. 6, 441

), la novella normativa ha creato una sorta di doppio binario per le banche, relativamente alla disciplina di deducibilità delle perdite su crediti:

  • uno riferito ai soli crediti non inerenti all'attività caratteristica, quali quelli maturati nei confronti di altri istituti di credito (

    ex

    art. 101,

    comma

    5, del Tuir

    );

  • l'altro, relativo a tutti i crediti che si originano a seguito di operazioni

    di finanziamento nei confronti della clientela (ex

    art. 106,

    comma

    3, del Tuir

    ).

La disciplina fiscale delle perdite su crediti per gli enti creditizi, dunque, è ora strettamente correlata alla natura del credito.

È stato previsto che le perdite su crediti originate da una posta “non caratteristica” siano deducibili per gli istituti di credito in presenza delle condizioni di cui all'

art. 101,

comma

5, del Tuir

. Ad esempio, si dovranno verificare l'esistenza dei ben noti elementi certi e precisi, o l'assoggettamento del debitore a procedure concorsuali, o la conclusione di un accordo di ristrutturazione dei debiti.

Quanto alla deducibilità delle perdite (o svalutazioni) generate da crediti verso la clientela, invece, gli istituti di credito dovranno attenersi ai dettami dell'

art. 106,

comma

3, del Tuir

: tale norma effettua un'ulteriore distinzione, a seconda che la cessione del credito sia avvenuta a titolo oneroso o meno. Nel primo caso, le perdite (o svalutazioni) saranno integralmente deducibili nell'esercizio in cui sono rilevate in bilancio, nel secondo caso in cinque quote costanti (

Galli Palanaca, cit.

).

I crediti verso la clientela da considerare, come chiarito dall'Agenzia delle Entrate (Circ.

n. 14/2014, par. 2.1

), sono quelli contabilizzati alla voce 70 (“Crediti verso la clientela”) dello Stato Patrimoniale redatto secondo gli schemi dettati dalla Banca d'Italia con la circolare n. 262 del 22 dicembre 2005.

Al fine di stabilire se i crediti sono oggetto di cessione a “titolo oneroso” o meno, la relazione illustrativa alla Legge di Stabilità 2014 ha precisato il significato di tale nozione, agganciandosi alla classificazione contabile delle perdite generate, affermando che per le “perdite derivanti dalla cessione dei crediti indicate nella voce 100 del bilancio … opera l'integrale deducibilità nell'esercizio di realizzo”. Dunque, ai fini dell'integrale deducibilità dalla base imponibile Ires, rilevano le perdite imputate nella sottovoce 100.a del conto economico, che accoglie utili e perdite realizzati mediante la “vendita” di attività finanziarie classificate nei portafogli “crediti”.

In proposito, autorevole dottrina ha osservato che le perdite su crediti nell'ambito della norma de qua dovrebbero considerarsi “realizzate mediante cessione a titolo oneroso”, in presenza delle seguenti condizioni:

  1. cancellazione del credito dal bilancio;

  2. trasferimento del diritto conseguente ad una compravendita o ad altro negozio a titolo oneroso ad essa equiparato ai fini fiscali.

Per tali ragioni, si ritiene che una rinuncia a un credito verso la clientela non possa rientrare nell'alveo delle “cessioni a titolo oneroso”de quibus, poiché la rinuncia a un credito comporta l'estinzione piuttosto che il trasferimento di un diritto. In tale ipotesi, pertanto, la perdita su crediti iscritta dall'ente creditizio sarebbe deducibile ai fini Ires in quote costanti, in cinque periodi d'imposta.

Le svalutazioni e le perdite deducibili in quinti, invece, si presume siano quelle contabilizzate nella voce 130, sottovoce a), del conto economico.

Per completezza d'esposizione, va segnalato anche che il novellato regime di deducibilità di cui all'

art. 106,

comma

3, del Tuir

è applicabile nei confronti di tutti i crediti verso la clientela, senza alcuna eccezione. Pertanto, ai fini della deducibilità delle svalutazioni, non sarà più necessario escludere i crediti verso la clientela coperti da garanzia assicurativa, come invece avveniva ai sensi della precedente versione dell'art. 106, comma 3.

Effetti in capo alla società debitrice

In capo alla società debitrice che vede estinguersi o ridursi il proprio debito, per la rinuncia al recupero da parte della banca finanziatrice, è necessario operare una distinzione.

Se la banca fosse socia, la società genererebbe fiscalmente una sopravvenienza attiva non imponibile, ai sensi dell'

art. 88,

comma

4, del Tuir

. In caso contrario, la sopravvenienza attiva sarebbe imponibile ai fini Ires, non risultando applicabile il citato art. 88.

Oltre a quanto detto, in seguito alla rinuncia al credito da parte della banca, la società potrebbe beneficiare della detassazione della sopravvenienza attiva se fosse coinvolta in una delle procedure citate dall'art. 88, comma 4, ultimo periodo, ovvero:

  • un accordo di ristrutturazione dei debiti,

    ex

    art. 182

    -bis

    l.

    fall

    .;

  • un piano attestato

    ex

    art. 67 l.

    fall

    .

La ratio di tale disposizione è quella di evitare che un debitore, intrapresa la strada del risanamento attraverso gli istituti esdebitatori citati, possa subire un maggior aggravio dal punto di vista fiscale, con la tassazione delle sopravvenienze attive in tal modo emergenti (

Circolare Assonime n. 15/2013, cit., par. 1.1.6, pag. 17; si rinvia anche a Andreani G., Tubelli A., Assonime fa il punto su accordi di ristrutturazione, piani attestati e sopravvenienze da esdebitamento, in Corr. Trib., 2013, n. 25, pag. 1983

).

La norma citata, poi, stabilisce che la detassazione delle sopravvenienze avviene “per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all'art. 84”. Concretamente, dunque, come osservato da autorevole dottrina (

Circ. Assonime n. 15/2013, par. 1.1.6, pag. 17 e ss), potrebbero presentarsi tre distinte fattispecie:

  1. assenza di perdite fiscali pregresse;

  2. presenza di perdite fiscali pregresse e di un reddito imponibile (inclusa la sopravvenienza attiva da esdebitazione) inferiore a queste;

  3. presenza di perdite fiscali pregresse e di un reddito imponibile (inclusa la sopravvenienza attiva da esdebitazione) superiore a queste.

Nel primo caso (lett. a), sarebbe necessario confrontare l'entità della sopravvenienza attiva con il risultato di periodo che si sarebbe prodotto in assenza di questa.

Nel secondo caso (lett. b), in presenza di perdite fiscali pregresse, sembrerebbepiù coerente con la ratio della norma determinare l'imponibile con le regole ordinarie di compensazione delle perdite pregresse e, successivamente, detassare la sopravvenienza dopo aver quantificato l'imponibile così determinato.

Infine, l'ultima fattispecie si presenterebbe quando l'imponibile dell'esercizio corrente è riconducibile non soltanto alla sopravvenienza attiva in questione, ma anche ad altri redditi, e la società dispone di perdite fiscali pregresse di ammontare inferiore a tale reddito imponibile (lett. c).

In tale ipotesi, sembrerebbe corretto confrontare le perdite pregresse con l'intero ammontare del reddito di periodo unitariamente considerato (ivi includendo anche la sopravvenienza in esame) secondo il regime ordinario dell'art. 84; individuare la parte di reddito di periodo non compensabile con le perdite pregresse; compensare tale ultima parte di reddito con la sopravvenienza attiva residua per azzerare il reddito imponibile.

Per completezza di esposizione, va detto anche che, qualora la banca fosse già socia della società che ricorre agli istituti esdebitatori in questione, potrebbe porsi il dubbio se prevalga l'art. 88, comma 4, ultima parte o l'art. 88, comma 4, prima parte, che prevede l'irrilevanza tout court della sopravvenienza per il debitore.

Secondo autorevole dottrina, in virtù di un rapporto di specialità, dovrebbe prevalere la disciplina specifica relativa alle rinunce dei soci.

Trasformazione in partecipazioni

Come anticipato in premessa, in presenza di crediti bancari difficilmente recuperabili a causa dello stato di crisi in cui versa il debitore, gli istituiti di credito potrebbero procedere alla conversione (totale o parziale) dei finanziamenti in partecipazioni al capitale del debitore stesso.

Tale possibilità risulta particolarmente attraente per le banche, grazie ai vantaggi fiscali che queste potrebbero ottenerne.

L'

art. 113 del Tuir

, infatti, prevede che agli enti creditizi che acquisiscono partecipazioni per il recupero dei crediti finanziari è riconosciuta la possibilità, previo assenso dell'Amministrazione finanziaria in seguito ad apposito interpello presentato dalla banca, di “disapplicare” il regime della p.ex. di cui all'

art. 87 del Tuir

alle partecipazioni iscritte in sostituzione dei crediti convertiti.

Ciò significa che, in caso di risposta positiva da parte dell'Agenzia delle Entrate, le banche potrebbero continuare a trattare come credito le partecipazioni derivanti dalla conversione delle posizioni creditorie; pertanto, in capo agli istituti di credito sarebbero riconosciute fiscalmente, sia le svalutazioni operate in caso di successive perdite di valore delle partecipazioni acquisite, sia le perdite conseguite.

Effetti fiscali per la banca

Gli impatti fiscali in capo all'istituto bancario mutano a seconda della presentazione o meno dell'interpello, volto alla disapplicazione del regime p.ex..

In assenza di interpello, prima delle recenti modifiche apportate dalla Legge di Stabilità qui in commento, l'Agenzia delle Entrate aveva chiarito che le perdite di “prima iscrizione” erano deducibili ai sensi dell'

art. 101,

comma

5, del Tuir

, qualora ne sussistessero le condizioni previste dalla norma.

Tale chiarimento, nonostante il riferimento normativo all'art. 101, comma 5, non sia più attuale, secondo parte della dottrina dovrebbe ritenersi ancora valido nel suo principio di fondo: nell'ipotesi di assenza o non accoglimento dell'istanza, dunque, il differenziale negativo iscritto a conto economico in fase di conversione dei crediti rileverebbe come “perdita” su crediti (

, Gallucci G., Recupero di crediti bancari mediante conversione in partecipazioni del debitore: limiti e opportunità, in Corr. Trib., 2014, n. 7, pag. 553

). Conseguentemente, tale perdita dovrebbe essere interamente deducibile nell'esercizio di rilevazione, perché le operazioni di conversione in esame, pur non rappresentando “cessioni a titolo oneroso” in senso proprio, devono ritenersi ad esse assimilate sul piano tributario.

L'Amministrazione finanziaria, però, pare non condividere

tale orientamento, avendo affermato che nelle operazioni di scambio di crediti con partecipazioni, considerato che la differenza tra crediti cancellati e partecipazioni ricevute viene iscritta nella voce 130.a del conto economico, tali “perdite” sono deducibili in quinti.

Tale posizione, tuttavia, non appare convincente, perché prescinde dalla sostanza economica dell'operazione, ancorando la disciplina fiscale al mero trattamento contabile. La conversione di crediti in partecipazioni non rappresenta una fattispecie giuridica tipica, ma viene frequentemente assimilata al conferimento o alla cd. “datio in solutum”: tali istituti sono considerati alla stregua di cessioni a titolo oneroso nell'ambito delle imposte sui redditi (

ex

art. 9 del Tuir

), e le perdite generate in tali ultime circostanze sono interamente deducibili nell'esercizio in cui si verifica l'evento estintivo (

. Andreani, F. Giommoni, La deduzione delle perdite su crediti per banche e società finanziarie, in Il fisco, 2014, n. 28, pag. 2750

).

In caso di presentazione dell'interpello e di risposta positiva da parte dell'Agenzia delle Entrate, invece, rimangono indubbiamente validi i chiarimenti forniti dall'Agenzia nella citata

Circolare n. 42/E del 2010

.

In tale ipotesi, con l'equiparazione fiscale delle partecipazioni ai crediti convertiti, le differenze di conversione sarebbero assimilabili a “svalutazioni” del credito, quindi soggette al regime di deducibilità rateizzata ai sensi del novellato art. 106 comma 3 (in quote costanti, in cinque esercizi). Sarebbero invece deducibili quali perdite su crediti da realizzo quelle eventualmente scaturenti dalla successiva cessione della partecipazione

.

Un ultimo aspetto da esaminare riguarda le modalità di determinazione della perdita.

Come osservato da Autorevole dottrina (

Leo M., Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Tomo II, Milano, 2014, pag. 2114 e ss

), a tal fine è necessario verificare se l'effettiva conversione del credito in partecipazione sia avvenuta entro, o successivamente, alla chiusura del periodo d'imposta in cui il credito è stato svalutato.

Ad esempio, se tra la data dell'ultima svalutazione del credito e quella di effettiva conversione in azioni della società debitrice non si è venuto a chiudere il periodo d'imposta, la rettifica di valore del credito eventualmente già rilevata a conto economico non avrebbe ancora assunto, al momento della conversione, autonoma rilevanza fiscale. Pertanto, nell'ambito del reddito d'impresa, il valore fiscale del credito da confrontare con il valore delle partecipazioni ricevute dovrebbe essere quello che il credito aveva all'inizio del periodo d'imposta, al lordo della svalutazione rilevata nell'esercizio e non dedotta fiscalmente.

Diversamente, se tra il momento dell'ultima svalutazione e quello di effettiva conversione del credito in azioni si è chiuso il periodo d'imposta, l'eventuale svalutazione del credito contabilizzata nell'esercizio chiuso ha già assunto rilievo fiscale, determinando una riduzione del valore fiscale dello stesso credito. Conseguentemente, la perdita da conversione sarebbe pari alla differenza tra il valore fiscale del credito (già svalutato) e il fair value della partecipazione “acquisita”.

Effetti fiscali per la società debitrice

Tale fattispecie sembrerebbe riconducibile all'ambito applicativo dell'

art. 88,

comma

4, del Tuir

, nonostante tale disciplina si riferisca letteralmente alle rinunce di crediti da parte dei soci.

Innanzi tutto, si noti che la conversione in parola è un'operazione finalizzata a soddisfare non solo gli interessi delle banche creditrici, ma anche quelli delle imprese debitrici. In questo modo, infatti, un'impresa in temporanea difficoltà non irreversibile eviterebbe di ricorrere a piani di risanamento per risollevarsi, senza creare conseguenze negative sul piano occupazionale e dell'economia in generale.

Entrando più nel dettaglio, si consideri che la rinuncia parziale del credito verrebbe effettuata dalla banca non per spirito di liberalità, ma in virtù del legame societario che si viene contestualmente ad instaurare con la società debitrice, a seguito della conversione del credito in partecipazioni.

Pertanto, anche qualora la banca non fosse già socia del debitore prima della conversione del credito, sarebbe comunque sostenibile l'applicabilità dell'art. 88, comma 4, primo periodo, che prevede la detassazione del provento rilevato dalla società per la riduzione del debito originario (

Andreani G. e Tubelli A., Riflessi fiscali della conversione del debito in capitale, in Corr. Trib., 2013, n. 21, pag. 1670; Guida Ias assonime pag. 81, nota n. 117

).

Per completezza, se la conversione del credito in partecipazione dovesse avvenire nell'ambito di un'operazione di risanamento (accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis, o piano attestato

ex

art. 67, terzo

comma

, lett. d), l.fall

.), potrebbe porsi il dubbio se prevalga la prima o la seconda parte dell'art. 88, comma 4.

In dottrina è stato osservato che prevarrebbe la seconda parte del comma 4 citato, che prevede l'irrilevanza della sopravvenienza con il previo utilizzo delle perdite fiscali pregresse.

Tuttavia, considerando che anche in questa fattispecie il “creditore-banca” non rinuncia al proprio credito per spirito di liberalità, ma al fine di patrimonializzare la società in una prospettiva di continuità dell'attività sociale, seppure nell'ambito di una procedura concorsuale, pare sostenibile che la sopravvenienza attiva emergente sia integralmente irrilevante ai fini Ires (senza alcun utilizzo di perdite fiscali pregresse), ai sensi dell'art. 88, comma 4, prima parte.

In ogni caso, stanti le incertezze interpretative sul tema in esame, sono auspicabili dei chiarimenti da parte dell'Amministrazione finanziaria.

IRAP

Effetti fiscali per la banca

Il novellato art. 6, comma 1, del Decreto Irap, stabilisce che per le banche la base imponibile Irap è determinata considerando anche le “rettifiche e riprese di valore nette per deterioramento dei crediti, limitatamente a quelle riconducibili ai crediti verso la clientela iscritti in bilancio a tale titolo”, da far concorrere “al valore della produzione netta in quote costanti nell'esercizio in cui sono contabilizzate e nei quattro successivi” (lett. c-bis).

La Relazione illustrativa alla Legge 27 dicembre 2013, n. 147 ha precisato che le “rettifiche e riprese di valore nette” citate da tale disposizione, si riferiscono a quelle “iscritte alla voce n. 130 dello schema di conto economico redatto secondo i criteri contenuti nei provvedimenti della Banca d'Italia” e che “sono comprese in tale voce anche le perdite derivanti da transazione, rinuncia al credito, conversione, etc.”.

Ai fini dell'imposta regionale, dunque, le perdite rilevate dagli istituti bancari per rinuncia a crediti (sia nell'ambito di procedure concorsuali, sia al di fuori) e quelle per la conversione dei crediti in partecipazioni, rilevano in quote costanti, in cinque esercizi.

Per le componenti reddituali derivanti dalla cessione del credito, invece, resta confermata la rilevanza integrale nell'esercizio di imputazione a conto economico.

Effetti fiscali per la società debitrice

In applicazione del cd. “principio di correlazione”, per stabilire la rilevanza ai fini Irap delle sopravvenienze attive (o passive) è necessario indagare circa la natura del debito (o credito) “estinto”: se questo fosse di natura commerciale e avesse generato componenti di reddito rilevanti ai fini Irap negli esercizi pregressi, la sopravvenienza attiva sarebbe rilevante ai fini del tributo regionale (Michelutti R., Maisto F., Le sopravvenienze attive da ristrutturazione del debito: dubbi interpretativi per i soggetti Ias, in Corr. Trib., 2013, n. 18, pag. 1405), altrimenti non lo sarebbe.

Come noto, a tal fine i soggetti Ias adopter sono tenuti a riclassificare il conto economico secondo il tradizionale schema civilistico, in seguito alle qualificazioni e classificazioni operate in base ai criteri IAS/IFRS.

In relazione ai soggetti Oic Gaap, l'Agenzia delle Entrate ha chiarito che, ai fini Irap, le sopravvenienze attive da ristrutturazione del debito non concorrono alla formazione del valore della produzione, in virtù della loro classificazione tra i proventi straordinari, nella voce E.20) del conto economico.

Successivamente, l'Amministrazione finanziaria ha ulteriormente precisato che l'applicazione del principio di correlazione va esclusa “quando i componenti di reddito derivino dalla rettifica di un credito o di un debito conseguente ad una valutazione (come quella operata in sede di concordato preventivo), riguardante l'aspetto meramente finanziario, della capacità ad adempiere all'obbligazione”.

Dunque, sulla base di tali chiarimenti di prassi, sembrerebbe evidente che le sopravvenienze attive iscritte in seguito a rinunce al credito, o a conversione dei finanziamenti in partecipazioni, possano essere escluse dalla formazione della base imponibile Irap, se imputabili alla parte straordinaria del conto economico.

In ogni caso, è necessario considerare che i citati chiarimenti ministeriali sono riferiti a situazioni riguardanti soggetti Oic Gaap: pertanto, se appare pacifico che le sopravvenienze in esame siano irrilevanti ai fini Irap per i soggetti che applicano i principi contabili nazionali, altrettanto non può dirsi con assoluta certezza per i soggetti che applicano gli Ias-Ifrs. In relazione a questi ultimi, dunque, si auspica un chiarimento ufficiale da parte dell'Amministrazione finanziaria, anche se non vi sarebbe alcun motivo per sostenere nei loro confronti un trattamento differenziato.

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