I contratti non sono concordati; i concordati non sono contratti

06 Novembre 2014

“Nomina sunt consequentia rerum”; ossia i nomi sono conseguenti alle cose. Nella Vita Nuova (XIII, 4) scrive Dante: “con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: «Nomina sunt consequentia rerum». Il riferimento è a un passo delle Istituzioni di Giustiniano (II, 7, 3). Leggiamo infatti “nos ... consequentia nomina rebus esse studentes ...” Cioè “noi ... cercando di far sì che i nomi corrispondano alle cose ...”. Nell'uso proverbiale che se ne è fatto, “nome omen” significherebbe che i nomi rivelano qualità di ciò a cui si riferiscono. Si dice soprattutto delle persone (il signor Basso, tale di nome e di fatto). Ma il proverbio tradisce la verità. Le fonti - che trattano la questione non con riguardo alle persone, ma esclusivamente con riguardo alle cose - non dicono che i nomi sono necessariamente conseguenza delle cose; piuttosto esortano a che lo siano: ossia a che ci curiamo di denominare esattamente le cose di cui parliamo.

Nomina sunt consequentia rerum”; ossia i nomi sono conseguenti alle cose. Nella Vita Nuova (XIII, 4) scrive Dante: “con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: «Nomina sunt consequentia rerum». Il riferimento è a un passo delle Istituzioni di Giustiniano (II, 7, 3). Leggiamo infatti “nos ... consequentia nomina rebus esse studentes ...” Cioè “noi ... cercando di far sì che i nomi corrispondano alle cose ...”. Nell'uso proverbiale che se ne è fatto, “nome omen” significherebbe che i nomi rivelano qualità di ciò a cui si riferiscono. Si dice soprattutto delle persone (il signor Basso, tale di nome e di fatto). Ma il proverbio tradisce la verità. Le fonti - che trattano la questione non con riguardo alle persone, ma esclusivamente con riguardo alle cose - non dicono che i nomi sono necessariamente conseguenza delle cose; piuttosto esortano a che lo siano: ossia a che ci curiamo di denominare esattamente le cose di cui parliamo.

Nel diritto, quando si conviene il nome di un istituto, se ne presuppone la denotatività. Il nome, in altre parole, si postula che riassuma tutte le principali caratteristiche dell'istituto medesimo.

Veniamo a noi.

L'espressione “procedura concorsuale” si compone di un sostantivo e di un aggettivo. La procedura; il suo carattere concorsuale. Il nesso che si stabilisce tra sostantivo e aggettivo è univoco. Non ogni procedura è anche concorsuale; ma nulla di concorsuale esiste al di fuori del mondo delle procedure.

In particolare, non esistono, e nessuno di noi ha mai sentito parlare, di “contratti concorsuali”.

Perciò, nonostante l'inveterata tradizione, dire che determinate procedure concorsuali (ossia i concordati preventivi) siano contratti significa affermare, erroneamente, la pensabilità di contratti concorsuali.

Contratto e concorsualità si amalgamano come acqua ed olio. La disciplina del contratto è improntata alla libertà di contenuto, legittimata dal consenso. Il diritto è ampiamente dispositivo; fatti salvi i limiti posti dalla legge, le parti possono determinare il contenuto che vogliono per il loro contratto (cfr. art. 1322 c.c.). Il principio di concorsualità è dettato da norme imperative: quelle costitutive del sistema della responsabilità patrimoniale. Sopra tutte, la norma cardine sulla parità di trattamento dei creditori nel concorso sul patrimonio del comune debitore inadempiente o anche insolvente.

L'immediata conseguenza di questa constatazione di carattere istituzionale è che, mentre le procedure concorsuali, e tra di esse il concordato preventivo, sono edificate all'insegna della regola della parità di trattamento dei creditori concorsuali, invece la parità di trattamento è un riferimento privo di senso rispetto al contratto. Il debitore che conclude contratti con i propri creditori non è affatto tenuto ad osservare il criterio della parità di trattamento.

Ma questo lo sappiamo tutti; ed è inutile insistere sulle ragioni di questa evidente differenza. Mentre il contenuto del contratto è condiviso da tutti i contraenti, che vi acconsentono (ogni contratto è edificato sull'accordo; e corre quasi una sinonimia tra accordo a contenuto patrimoniale e contratto) invece il contenuto del concordato è deliberato dalla maggioranza dei creditori. Cosicché una elementare esigenza di giustizia, accolta nella regola imperativa della parità di trattamento dei creditori, impone che la maggioranza decida un trattamento eguale per tutti (benché magari potrebbe preferire - come sarebbe anche umano - di approvare una proposta di concordato vantaggiosa per la maggioranza e sfavorevole per la sfortunata minoranza).
Per questo genere di ragioni bisognerebbe smetterla di affermare che il concordato preventivo sarebbe una specie di contratto stipulato tra il debitore insolvente e i suoi creditori in cui vale la regola della parità di trattamento dei creditori.

E bisognerebbe anche smettere di affermare che gli accordi di ristrutturazione dei debiti, siccome inseriti in una procedura di omologazione, non sarebbero accordi (cioè contratti) bensì piccoli concordati preventivi retti tuttavia non dalla regola del concordato (la parità di trattamento dei creditori concorsuali) bensì dalla regola del contratto (il consenso individualmente prestato da ciascun creditore).

Qualora in futuro ciò accadesse, potremmo ribadire con Dante: «Nomina sunt consequentia rerum».
I vantaggi sono intuibili: a pensare meglio si sbaglia di meno. Si comprenderebbe pertanto per davvero e fino in fondo che una cosa è trovarsi di fronte contratti, altra cosa è trovarsi di fronte concordati.

Una cosa è redigere un piano aziendale di ristrutturazione dei debiti da realizzare attraverso contratti (e dunque da sottoporre al consenso di ciascun creditore: come capita per gli accordi di ristrutturazione dei debiti), altra cosa è redigere un piano aziendale concordatario (e dunque da attuarsi previa deliberazione maggioritaria, peraltro limitata esclusivamente agli aventi diritto al voto).

Se invece si volesse affermare che tutto ciò è da sempre chiaro, sarebbe da chiedersi perché ostinarsi a chiamare “vino” il “pane” nonostante il ricordato carattere di denotatività che necessariamente deve possedere il lessico giuridico.

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