Tre questioni in tema di concordato: abuso del diritto nella formazione delle classi, atti di frode e legittimazione del liquidatore giudiziale all’azione di responsabilità

24 Novembre 2011

Alcune tematiche di grande interesse in materia di concordato preventivo sono state affrontate dai giudici milanesi in una recente pronuncia (Trib. Milano, sez. II, 19 luglio 2011).L'autore, muovendo dalla fattispecie oggetto della decisione del Tribunale, esamina, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, le delicate questioni relative all'abuso del diritto nella formazione delle classi ed alla qualificabilità delle condotte depauperative anteriori al deposito della domanda e sottaciute in sede di ricorso quali atti di frode; viene analizzato, infine, il profilo della sussistenza o meno della legittimazione, per il liquidatore giudiziale, a proporre azione di responsabilità verso gli amministratori della società debitrice.
Premessa

Il decreto del 19 luglio 2011 con il quale il Tribunale di Milano ha negato l'omologazione al concordato proposto da una società per azioni affronta tre questioni di grande interesse in materia di concordato preventivo. La più rilevante è senz'altro la prima, anche in ragione dell'assenza di precedenti editi esattamente in termini, attinente al delicato profilo del sindacato relativo alla corretta formazione delle classi, nella specie condotto alla luce non solo dei criteri dettati dall'art. 160, comma 1, lett. c, l. fall. – apparentemente rispettati dalla società debitrice –, ma soprattutto del divieto di abuso del diritto, secondo un'impostazione che si rivela sostanzialmente in linea con l'orientamento adottato – sia pur con riferimento a fattispecie non completamente sovrapponibili a quella decisa dal decreto – dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, in Fall., 2011, 403, con commenti di LO CASCIO, Il concordato fallimentare: aspetti attuali e prospettive future, e NISIVOCCIA, Alcuni principi in tema di concordato fallimentare; Cass., 23 giugno 2011, n. 13818, con commento di AMBROSINI, Il sindacato sulla fattibilità del piano concordatario e la nozione “evolutiva” degli atti di frode nella sentenza 23 giugno 2011 della Cassazione). Ad essa il Tribunale sembra essersi attenuto anche nella ricostruzione della nozione delle condotte idonee a determinare il prematuro arresto dell'iter concordatario, nella misura in cui ha attribuito rilievo dirimente al difetto di adeguata disclosure in sede di ricorso circa gli atti depauperativi del patrimonio dell'imprenditore in stato di crisi compiuti in epoca antecedente al deposito della domanda.

La terza questione – per quanto consta mai affrontata ex professo successivamente alla riforma – attiene ai poteri del commissario liquidatore da nominarsi ai sensi dell'art. 182 l. fall., dai quali il decreto in esame ha escluso la legittimazione all'esperimento dell'azione di responsabilità contro gli amministratori della società ricorrente, traendone gli inevitabili corollari in materia di comparazione con l'alternativa fallimentare, sotto questo profilo evidentemente più appetibile, dal momento che il curatore gode pacificamente della prerogativa di avvalersi dello strumento testé menzionato.

Il sindacato sulla corretta formazione delle classi alla luce del divieto di abuso del diritto

La prima delicata questione riguarda la verifica dell'osservanza dei criteri che presiedono alla divisione in classi del ceto creditorio. Come noto, l'art. 160, comma 1, lett. c, l. fall. stabilisce che il debitore ha facoltà di creare dei sottoinsiemi di creditori, purché ciò avvenga sulla base di posizioni giuridiche e interessi economici omogenei (da tempo la dottrina prevalente ritiene che la creazione delle classi sia rimessa alla discrezionalità del debitore). Quanto alle prime, viene in considerazione, oltre alla sussistenza di cause di prelazione (appare legittima sotto il profilo dell'omogeneità delle posizioni giuridiche la scelta di assegnare a un'apposita classe i soggetti muniti di privilegio limitatamente alla frazione di pretesa degradata al chirografo; d'altro canto, neppure in questo caso sussiste l'obbligo di creare un insieme distinto di creditori (cfr. AMBROSINI, Il controllo giudiziale sull'ammissibilità della domanda di concordato preventivo e sulla formazione delle classi, cit., 543-544; contra FERRO, sub art. 160 – Presupposti per l'ammissione alla procedura, in FERRO (a cura di), La legge fallimentare. Decreto legislativo 12 settembre 2007 n. 169. Disposizioni integrative e correttive. Manuale teorico-pratico, Padova, 2008, 286; MANDRIOLI, sub art. 160 – Il piano di ristrutturazione nel concordato preventivo, ivi, 298)al loro grado, un ampio novero di fattispecie, tra le quali ricorrono più di frequente l'assoggettabilità a revocatoria nell'ipotetico successivo fallimento (agevolmente pronosticabile sotto il profilo temporale, dovendosi ritenere pacifica l'applicazione della consecutio anche alle procedure aperte successivamente all'entrata in vigore della riforma: Cass., 6 agosto 2010, n. 18437, in Giust. civ., 2010, I, 2453, con nota di DIDONE, Note minime sulla consecuzione delle procedure concorsuali) e la postergazione ai sensi degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. (quantomeno laddove si aderisca alla tesi secondo la quale nel concordato preventivo i titolari di pretese subordinate hanno diritto di partecipare al concorso).

Ancor più variegate sono le ragioni astrattamente idonee a dar luogo alla suddivisione fondata sulla disparità di interessi economici: di regola esse attengono alle caratteristiche soggettive del creditore (distinguendosi, ad esempio, tra banche, fornitori e creditori intercompany), ma nulla vieta di adottare quale parametro circostanze ulteriori, quali la presenza di garanzie da parte di soggetti terzi o l'entità della pretesa (AMBROSINI, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 44-45).

Com'è noto, l'impatto della creazione di classi sulla proposta concordataria è assai significativo, in quanto, oltre a determinare il trattamento differenziato dei diversi gruppi (art. 160, comma 1, lett. d, l. fall.), influisce direttamente sul procedimento di approvazione della domanda: non è infatti sufficiente il raggiungimento della maggioranza dei crediti, ma deve altresì risultare assenziente più della metà degli insiemi (DEMARCHI, L'approvazione del concordato, in AMBROSINI-DEMARCHI-VITIELLO, Il concordato preventivo e la transazione fiscale, Bologna, 2009, 157 ss).

Di qui l'interrogativo se il tribunale, nel vagliare la corretta formazione delle classi, debba limitarsi a verificare il rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 160, comma 1, lett. c, l. fall. o sia piuttosto indispensabile un sindacato più approfondito: l'accertamento che le scelte del debitore, pur incensurabili sotto il profilo dell'omogeneità delle posizioni giuridiche e degli interessi economici, non siano mosse dall'intento di coartare la volontà dei creditori attraverso la loro segregazione arbitraria, preordinata esclusivamente al conseguimento della maggioranza delle classi, come può avvenire quando si proceda a isolare in alcune di esse – evidentemente create ad arte – un numero esiguo di creditori (o addirittura singoli soggetti), ai quali venga in tal modo attribuito un “peso specifico” decisamente superiore a quello che i medesimi presenterebbero ove “diluiti” nella massa dei votanti.

Il Tribunale ha ritenuto di fare propria questa seconda impostazione. Richiamandosi al divieto di abuso del diritto, esso ha affermato che la formazione delle classi, quand'anche dia origine a insiemi omogenei, va nondimeno censurata ogniqualvolta, per le concrete modalità con cui è stata posta in essere e per le finalità a essa sottese, appaia inequivocabilmente diretta al conseguimento un obiettivo contra ius.

Come si è anticipato, la pronuncia milanese sembra porsi sulla stessa “lunghezza d'onda” della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “non è contestabile la applicabilità anche allo strumento concordatario del concetto di abuso del diritto che ha già trovato nella giurisprudenza importanti applicazioni sia in ambito sostanziale (basti pensare a quello tributario nonché, inter alias, Cass. civ., sez. III, 18.9.2009, n. 20106) e processuale (Cass. civ., sez. I, 3.05.2010, n. 10634; Cass. civ., sez. III, 27.01.2010, n. 1706; Cass. civ., sez. un., 15.11.2007, n. 23726) e che trova fondamento nel principio generale secondo cui l'ordinamento tutela il ricorso agli strumenti che lo stesso predispone nei limiti in cui questi vengano impiegati per il fine per cui sono stati istituiti senza procurare a chi li utilizza un vantaggio ulteriore rispetto alla tutela del diritto presidiato dallo strumento e a chi li subisce un danno maggiore rispetto a quello strettamente necessario per la realizzazione del diritto dell'agente” (Cass., 10 febbraio 2011, n. 3274, cit.).

Com'è stato osservato, “si tratta di un'affermazione molto importante, perché […] è la prima volta che l'abuso del diritto viene ritenuto applicabile, seppur solo in via di principio, anche in ambito concorsuale; e si tratta di un'affermazione anche condivisibile, perché, rappresentando l'abuso del diritto un principio generale del nostro ordinamento (ancorché non codificato né altrimenti istituzionalizzato), non esiste ragione che ne impedisca appunto l'applicazione generalizzata, quale che sia l'ambito interessato.

Più esattamente, l'abuso del diritto altro non è se non una particolare esplicazione del principio della buona fede, inteso non solo quale parametro di comportamento ma anche quale limite all'esercizio dei diritti” (NISIVOCCIA, Alcuni principi in tema di concordato fallimentare, cit., 422).

Tale impostazione è stata ribadita dalla Suprema Corte in relazione all'enucleazione degli atti di frode idonei a determinare l'interruzione dell'iter concordatario ex art. 173 l. fall., laddove ha menzionato espressamente il divieto dell'abuso del diritto, chiarendo che esso “si declina nell'abuso dello strumento concordatario in violazione del principio di buona fede laddove emerga la prova che determinati comportamenti depauperativi del patrimonio siano stati posti in essere con la prospettiva e la finalità di avvalersi dello strumento del concordato, ponendo i creditori di fronte ad una situazione di pregiudicate o insussistenti garanzie patrimoniali in modo da indurli ad accettare una proposta comunque migliore della prospettiva liquidatoria”, precisando che “è indubbio che in presenza di una tale condotta […] il concordato non sia ammissibile in quanto rappresenterebbe il risultato utile della preordinata attività contraria al richiamato principio immanente nell'ordinamento” (Cass., 23 giugno 2011, n. 13818, cit.).

Il decreto in esame, pur essendo – a quanto consta – il primo ad aver calato il divieto di abuso del diritto nella delicata fattispecie della divisione in classi, non è rimasto isolato: più di recente altra corte di merito ha affermato che nella valutazione della correttezza della formazione degli insiemi deve farsi uso della “categoria generale delle “buona fede”, verificando in particolare se da parte del ricorrente si è proceduto abusando e strumentalizzando le norme di legge a fini diversi da quelli previsti dal legislatore, ad esempio “creando” più classi di creditori che potevano rientrare in una unica classe al solo fine di ottenere la maggioranza delle classi”, sul presupposto che “la corretta applicazione del “principio di maggioranza” impone che non vi sia un inquinamento generato da vicende singolari, quali ad esempio una fittizia proliferazione di classi solo per ottenere la maggioranza” (Trib. Piacenza, 1° settembre 2011, la cui motivazione richiama espressamente il provvedimento milanese).

Di conseguenza, ai fini del corretto svolgimento del sindacato è anzitutto indispensabile che il debitore espliciti nel ricorso i motivi sottesi alla costruzione dei gruppi (LO CASCIO, Il concordato preventivo, Milano, 2007, 266 e 299; DE CICCO, Le classi di creditori nel concordato preventivo, Napoli, 2007, 101-102; CAFFI, Il concordato preventivo, in SCHIANO DI PEPE (a cura di), Il diritto fallimentare riformato, Padova, 2007, 617; AMBROSINI, Il controllo giudiziale sull'ammissibilità della domanda di concordato preventivo e sulla formazione delle classi, cit., 539), dovendosi ritenere che la relativa lacuna possa dar luogo alla richiesta di integrazione di cui all'art. 162, comma 1, l. fall.

Con riferimento all'individuazione dell'illecito, contrariamente a quanto accade in altre fattispecie di abuso, non si tratta di scongiurare condotte consistenti nell'“esercizio del diritto volto a conseguire fini diversi da quelli per i quali il diritto stesso è stato conferito” (Cass., 18 settembre 2009, n. 20106).

La frammentazione del ceto creditorio persegue infatti fisiologicamente l'obiettivo del confezionamento di una proposta con adeguate chance di successo, agevolando la formazione di quel consenso che l'imprenditore (alla cui discrezionalità è rimessa la scelta circa l'an della divisione) ritiene di difficile conseguimento senza deroghe alla par condicio. Le censure del tribunale sembrano piuttosto doversi appuntare sui comportamenti manifestamente contrari alla buona fede e al dovere di lealtà nei confronti della controparte contrattuale(alla quale i creditori possono verosimilmente assimilarsi, tanto più alla luce dei connotati privatistici del “nuovo” concordato: AMBROSINI, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 1 ss.), vale a dire sulle misure adottate con l'unico scopo di neutralizzare il pronosticato voto contrario di alcuni gruppi, attraverso la creazione di un eguale o maggior numero di insiemi orientati a priori per l'assenso alla proposta, talvolta in effetti scontato, come nei casi di creditori intercompany.

In altre parole, la formazione delle classi è sempre legittimamente preordinata alla creazione delle condizioni più favorevoli per l'accettazione della proposta, consentendo la ripartizione dell'entità del sacrificio secondo scaglioni differenziati in ragione delle caratteristiche delle diverse tipologie (giuridiche ed economiche) di creditori; di frequente, ad esempio, la percentuale necessaria per ottenere il consenso dei piccoli fornitori è più elevata di quella prospettabile con successo alle banche, anche a causa del differente impatto che lo stato di crisi del debitore spiega sulle due categorie di soggetti.

A tale stregua, le fattispecie abusive devono giocoforza individuarsi in quelle – per vero alquanto circoscritte – in cui la formazione delle classi, pur osservando i criteri dettati dall'art. 160, comma 1, lett. c, l. fall., sia finalizzata, obiettivamente e in via esclusiva, a comprimere artificialmente il diritto al dissenso di una o più di esse, attraverso la contrapposizione alle stesse di gruppi creati ad hoc, in ciò dovendosi ravvisare quel “limite interno oltre il quale, pur restandosi formalmente nell'alveo dell'esercizio del diritto, si sconfina, in realtà, nel campo dell'abuso” (BERGAMO, L'abuso del diritto ed il diritto di recesso, in Giur. it., 2004, 2065).

Il principale indice di condotte potenzialmente abusive va probabilmente ravvisato nell'inesistenza di un'effettiva differenziazione nel livello di soddisfacimento.

La divisione in classi mira infatti a consentire l'approvazione del concordato attraverso la graduazione dei creditori su base volontaria (Trib. Roma, 20 aprile 2010), sicché essa rischia di assumere i connotati dell'arbitrarietà – quando non sussistano addirittura gli estremi della simulazione, la quale peraltro postulerebbe la prova dell'esistenza di un separato accordo tra imprenditore in crisi e creditori inseriti nella classe fittiziamente formata – laddove le faccia da contraltare una disparità nella percentuale offerta inesistente o manifestamente irrisoria, segno di un possibile sovvertimento tra mezzo e fine. A sostanziale pari trattamento, infatti, la segregazione di alcuni creditori non sembra perseguire lo scopo di derogare alla par condicio onde rendere la proposta più appetibile, bensì quello di incrementare artificialmente la quantità delle classi, con il solo obiettivo di crearne alcune invariabilmente assenzienti e, come tali, idonee ad azzerare l'eventuale opposizione delle residue.

Nel caso deciso dal decreto in esame, la società debitrice, pur avendo distinto la percentuale riservata ai creditori intercompany da quella prospettata alla generalità dei fornitori, aveva previsto un gap di appena un punto percentuale, al quale corrispondeva un maggior sacrificio degli appartenenti al gruppo della S.p.A. in questione contenuto in poche migliaia di euro, equivalente a una frazione infinitesimale del fabbisogno concordatario.

A ciò si aggiunga che, nella specie, il Tribunale ha potuto desumere l'abuso da un secondo indice, consistente nella circostanza che la formazione della classe relativa alle pretese intercompany non era contemplata nel ricorso, essendo stata inserita in sede di modifica della proposta, verosimilmente quando il debitore si è avveduto della difficoltà di conseguire la maggioranza delle classi, originariamente previste in numero pari. La variazione, in astratto legittima – in quanto la domanda può modificarsi fino a quando le operazioni di voto abbiano inizio (art. 175, comma 2, l. fall.) –, in concreto contribuisce non poco a lumeggiare l'illiceità della condotta della ricorrente, dal momento che la sopravvenienza di una classe ulteriore non appare giustificata da alcun fatto nuovo occorso durante la procedura, né – come già detto – sembra sorretta da un reale differenziamento nel trattamento economico.

Sulla scorta di questi elementi – in effetti gravi, precisi e concordanti – il Collegio ha concluso per la sussistenza dell'abuso, all'esito di un accertamento necessariamente parametrato alle peculiarità della fattispecie. Com'è noto, infatti, l'individuazione dell'esercizio illegittimo del diritto postula un sindacato effettuato caso per caso, oltre che improntato al massimo rigore, sicché, in assenza di indici inequivoci denotanti la costituzione di una o più classi all'esclusivo fine di coartare il consenso dei creditori (come sembrerebbe essere avvenuto nella procedura della S.p.A. in questione), nulla vieta all'imprenditore in stato di crisi di suddividere il ceto creditorio secondo le modalità ritenute più funzionali all'approvazione del concordato, se del caso separando dagli altri i creditori intercompany ed eventualmente apportando alla proposta le modificazioni ritenute più opportune in corso d'opera.

La qualificabilità come atti di frode delle condotte depauperative anteriori al deposito della domanda sottaciute in sede di ricorso

Il decreto in esame ha ritenuto idoneo a determinare la revoca dell'ammissione al concordato il compimento di atti antecedenti al deposito del ricorso che, risultando privi, ex ante, di un'idonea giustificazione sotto il profilo imprenditoriale, si siano così tradotti nel depauperamento del patrimonio del debitore, incidendo significativamente sui termini della proposta. Si tratta, in particolare, dell'acquisto di azioni a un prezzo assai più elevato di quello risultante sia da una precedente perizia ai sensi dell'art. 2343 c.c., sia dal calcolo della corrispondente frazione di patrimonio netto (pressoché azzeratosi prima del trasferimento, in conseguenza di ingenti perdite), nonché del rilascio di garanzie in favore di soggetti terzi.

La pronuncia in esame ha attribuito particolare rilievo alla circostanza che “queste operazioni [siano] state “accertate” ex post dai commissari giudiziali, non contenendo il ricorso per ammissione alla procedura alcun accenno ad esse”. In tale affermazione può ravvisarsi chiara eco dell'insegnamento della Cassazione secondo il quale “l'atto di frode, per avere rilievo ai fini della revoca dell'ammissione, deve essere “accertato” dal commissario giudiziale e quindi dallo stesso “scoperto” essendo prima ignorato dagli organi della procedura o dai creditori, non potendosi certo attribuire al termine “accerta” il significato di “trova conferma di quanto già enunciato nella domanda” in ordine a determinati eventi. D'altra parte, la circostanza che l'evento “accertato” per essere tale dovesse essere prima ignoto è logicamente desumibile dalla considerazione che se la norma si volesse riferire alla segnalazione di eventi già noti al momento dell'ammissione alla procedura la segnalazione degli stessi da parte del commissario costituirebbe una sollecitazione al tribunale a riprendere in considerazione e a diversamente valutare fatti già ritenuti non ostativi all'ammissione e quindi, in sostanza, l'esercizio di un potere di sollecitazione di una pronuncia giurisdizionale modificativa di una precedente che costituirebbe una straordinaria deviazione dalle funzioni proprie dell'organo che sono unicamente consultive” (Cass., 23 giugno 2011, n. 13818, cit.).

In questa prospettiva, gli atti di mala gestio eventualmente commessi dagli amministratori della società in stato di crisi non vengono in considerazione dì per sé (ostandovi il superamento del requisito della meritevolezza), né per l'impatto negativo spiegato sul patrimonio del debitore, bensì nella misura in cui il loro occultamento in sede concordataria sia idoneo a impedire la formazione di un consenso pienamente informato.

Com'è stato osservato in dottrina, la rilevanza di comportamenti siffatti “è comunque legata alla condizione della correlazione tra la condotta fraudolenta e la domanda di concordato, nel senso che non qualsiasi fatto fraudolento o astrattamente idoneo a determinare un pregiudizio per i creditori dell'impresa può contare ai fini dell'interruzione della procedura, soprattutto se verificatosi ben prima della proposta di concordato, ma possono contare solo quelle condotte che siano specificamente finalizzate a trarre in inganno il ceto creditorio in vista dell'adunanza di cui all'art. 174 l. fall., influenzandone la manifestazione di voto” (CENSONI, Il concordato preventivo: organi, effetto, procedimento, in JORIO-FABIANI (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, Bologna, 2010, 1010).

Questa impostazione è stata recepita dalla già menzionata pronuncia della Suprema Corte, la quale ha infatti statuito che “nessun intervento sul patrimonio del debitore è di per sé qualificabile come atto di frode ma solo l'attività del proponente il concordato volta ad occultarlo in modo da poter alterare la percezione dei creditori circa la reale situazione del debitore influenzando il loro giudizio, ogni diversa interpretazione attribuendo alla disposizione in esame [i.e. all'art. 173 l. fall.: n.d.r.] una connotazione di incomprensibile ed in congruo fossile normativo del tutto incompatibile con la nuova disciplina in quanto reintrodurrebbe, in sostanza, il requisito, apertamente ripudiato dal legislatore, della meritevolezza da valutarsi da parte del tribunale” (Cass., 23 giugno 2011, n. 13818, cit.).

Pertanto, il divieto di proseguire l'iter concordatario non discende sic et simpliciter dal compimento di atti depauperativi, ma piuttosto dal combinato disposto tra i medesimi e il loro successivo occultamento, perché ogniqualvolta la società debitrice taccia l'intervenuta realizzazione, da parte dei propri organi, di condotte verosimilmente integranti altrettante fattispecie di mala gestio, così facendo sottrae al ceto creditorio informazioni indispensabili in vista della formazione di un consenso informato circa i termini della proposta.

La comparazione con l'alternativa fallimentare, invero, non può non tener conto dell'eventualità che il curatore (ma non, come si dirà nel paragrafo successivo, il liquidatore giudiziale) esperisca azione di responsabilità, con conseguente beneficio per la massa, benché incerto nell'an (non essendo agevolmente pronosticabile l'esito di un giudizio di regola assai complesso) e nel quantum (anche in ragione della difficoltà di stimare a priori la capienza dei potenziali convenuti).

La legittimazione del liquidatore giudiziale all'esperimento dell'azione di responsabilità

Il Tribunale ha sostenuto che al liquidatore giudiziale non compete la legittimazione all'esperimento dell'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della società ammessa alla procedura di concordato preventivo per cessione dei beni.

Egli appare in effetti privo del potere di avvalersi del rimedio posto a tutela dei creditori, in quanto – diversamente dal passato – è un soggetto terzo rispetto non solo all'imprenditore, ma anche a quanti vantino pretese nei suoi confronti, non essendo pertanto assimilabile a un mandatario di questi ultimi (AMBROSINI, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 140; CAVALLINI- ARMELI, sub art. 182, in CAVALLINI (diretto da), Commentario alla legge fallimentare, Milano, 2010, 750); senza dire che l'art. 2394-bis c.c. non contiene alcun riferimento al liquidatore, né pare ipotizzabile la sua applicazione in chiave analogica, trattandosi di disposizione eccezionale.

Meno univoca è la conclusione circa l'azione sociale.

Sul punto, conviene muovere dal rilievo che già nel vigore della disciplina previgente si riteneva che il liquidatore godesse della legittimazione a proporre soltanto le iniziative di carattere patrimoniale afferenti ai beni ceduti, in conformità a quanto previsto dall'art. 1979 c.c., escludendosi invece la sua facoltà d'intervento in materie estranee alla liquidazione.

In particolare, secondo la Cassazione “la procedura di concordato preventivo mediante la cessione dei beni ai creditori comporta il trasferimento agli organi della procedura non della proprietà dei beni e della titolarità dei crediti, ma solo dei poteri di gestione finalizzati alla liquidazione.

Il debitore cedente, pertanto, conserva il diritto di esercitare le azioni o di resistervi nei confronti dei terzi, a tutela del proprio patrimonio, soprattutto dopo che sia intervenuta la sentenza di omologazione. Per effetto di tale sentenza è da ritenere che venga meno il potere di gestione del commissario giudiziale, mentre quello del liquidatore è da intendere conferito nell'ambito del suo mandato e perciò limitato ai rapporti obbligatori sorti nel corso e in funzione delle operazioni di liquidazione”, con la conseguenza che – per quanto qui più interessa – “deve escludersi […] la legittimazione processuale del liquidatore giudiziale con riguardo a una controversia tra l'imprenditore e un terzo, per un credito vantato nei confronti di quest'ultimo” (Cass., 14 marzo 2006, n. 5515).

A tale stregua, l'esperimento dell'azione sociale sembra competere al liquidatore giudiziale esclusivamente nell'ipotesi in cui il credito risarcitorio da mala gestio sia ricompreso nel compendio da liquidare, il che probabilmente avviene soltanto nell'ipotesi in cui il piano concordatario preveda espressamente tale iniziativa o, comunque, l'assemblea l'abbia preventivamente autorizzata (cosa che non si è verificata nella fattispecie decisa dal Tribunale di Milano, come la pronuncia in esame non ha mancato di sottolineare). Alla procedura minore, infatti, non si applica l'art. 146 l. fall. e la relativa sostituzione del placet del giudice delegato a quello dell'adunanza, che appare pertanto sempre necessario.

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