Una delle maggiori criticità in tema di recupero di crediti d'imposta che si formano nel corso delle procedure fallimentari è generata dal sistema delle ritenute fiscali.
Come è noto, ai sensi dell'art. 26 dPR 600/73, gli istituti di credito operano sugli interessi attivi maturati nei conti correnti una ritenuta d'acconto (ora del 26%) che, nel caso di conti accesi da procedure concorsuali, attesa la durata delle stesse, talvolta raggiunge importi ragguardevoli.
La situazione di impasse nella quale inevitabilmente confluisce la quasi totalità delle procedure fallimentari si genera alla loro conclusione, quando, rilevata (salvo rarissime eccezioni) l'assenza di residuo attivo (ossia dell'eccedenza devoluta alla società fallita dopo il pagamento di tutti i creditori concorrenti che, se superiore al patrimonio netto iniziale, configura il reddito imponibile del fallimento), la ritenuta d'acconto si converte inevitabilmente in credito verso l'erario.
Ma posto che, ai sensi dell'art. 5, comma 4, dPR 322/1998, il curatore redige un'unica dichiarazione dei redditi per l'intero periodo fallimentare entro il nono mese successivo alla chiusura del fallimento, il credito d'imposta, in quanto esigibile solo dopo la sua cessazione, non potrà mai essere ripartito fra i creditori.
L'evidente anomalia aveva indotto la miglior dottrina a rimarcare i probabili profili di incostituzionalità del sistema, in quanto il giudice delle leggi ha sempre subordinato la legittimità degli acconti (fra l'altro) al pieno diritto al rimborso, mentre, nel caso di specie, tale diritto non sarebbe assicurato al soggetto passivo della ritenuta (la massa di creditori).
La prassi fallimentare fin dagli anni ‘90 aveva tentato di superare questa criticità proponendo soluzioni volte ad implementare un'appendice legale al fallimento, in guisa da poter consentire la ripartizione tardiva del credito dopo il conseguimento del rimborso (dall'ultrattività degli organi concorsuali fino alla segregazione in trust del credito fiscale); ma i tentativi, pur pregevoli, non sono mai parsi del tutto congruenti con la struttura legale del procedimento e probabilmente non abbastanza rigorosi da superare l'eventuale vaglio della Suprema Corte. Che, viceversa, con una decisione dei primi anni duemila (n. 10349 del 1.7.2003), forniva un'interpretazione sorprendente e particolarmente accomodante della norma (la tesi opposta riscontrava infatti l'unanime assenso di amministrazione finanziaria e dottrina prevalente) asserendo che il dies a quo di decorso dei termini per la dichiarazione finale del curatore non si sarebbe dovuto ritenere coincidente con quello della chiusura del fallimento bensì con quello (ben precedente) in cui “da un lato, siano stati definiti tutti i rapporti pendenti del fallimento e, dall'altro, siano noti al curatore tutti gli elementi che compongono i redditi da dichiarare”; in altri termini, appena definito il passivo e concluse le operazioni liquidatorie e recuperatorie. Ciò che avrebbe consentito, e tutt'ora consente, di redigere e trasmettere la dichiarazione ben prima del riparto finale, così potendosi attuare, quantomeno astrattamente, sia l'incasso del credito sia la devoluzione del controvalore ai creditori.
La soluzione, anche se inizialmente apparsa lineare ed efficace, in quanto introduceva uno strumento immediatamente e agevolmente utilizzabile, non é però riuscita a garantire lo scopo che si era prefissa, in quanto non aveva considerato (né poteva considerare) che i lunghissimi tempi di erogazione dei rimborsi fiscali sarebbero risultati assolutamente incompatibili anche con la (seppur non breve) fase conclusiva della procedura.
Infatti, l'anticipazione del dies a quo dichiarativo, che può ritenersi verosimilmente coincidente con l'approvazione del rendiconto finale, potrebbe tutt'al più schiudere al curatore una temporanea finestra di attesa, idonea forse al superamento dei profili di incostituzionalità della norma, ma, nella pratica, assolutamente inadeguata al conseguimento del rimborso.
E nemmeno la nota triplice opzione di gestione dei crediti tributari, ossia la compensazione fiscale (ex art. 17 D. Lgs. 241), l'assegnazione in sede di riparto (ex art. 117, comma 3, l. fall.) e la cessione (ex art. 106, comma 1, l. fall.) si è rivelata in questo caso efficace: la compensazione, in quanto il credito viene ad esistenza, e quindi diventa fiscalmente utilizzabile, solo dopo la presentazione della dichiarazione finale; l'assegnazione, per i medesimi motivi (nonché per le note difficoltà di acquisizione dell'assenso preventivo degli assegnatari e di iper-frammentazione in caso di distribuzione massiva); la cessione, per le rilevanti quote capitali richieste quale corrispettivo dalle società specializzate.
Non resta quindi che confidare che venga conferita al problema l'unica, radicale, ma autentica soluzione, ossia l'esenzione da ritenuta d'acconto delle rendite fallimentari. Intervento ormai ineludibile, attesa l'evidente presenza di una regola (l'acconto coatto d'imposta), che esplica effetti non distorsivi solo in casi inusuali (le procedure con residuo attivo imponibile).