Sulla fallibilità dell’accomandante ingeritosi nell’amministrazione

Antonio Maria Leozappa
23 Settembre 2014

L'art. 2320 c.c. stabilisce che il socio accomandante che contravviene al divieto di ingerenza nella amministrazione “assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso a norma dell'articolo 2286”.

L'art. 2320 c.c. stabilisce che il socio accomandante che contravviene al divieto di ingerenza nella amministrazione “assume responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali e può essere escluso a norma dell'articolo 2286”.
Comunemente si ritiene che la responsabilità per le obbligazioni sociali debba essere intesa nel senso della sua completa equiparazione a quella propria della categoria degli accomandatari e che, pertanto, riguardi sia i debiti sorti prima dell'ingerenza che dopo, a prescindere da ogni connessione e/o dipendenza dalla stessa, sia nei confronti dei terzi sia verso gli altri accomandatari. In questi termini è stata affermata la soggezione al fallimento per estensione ex art. 147 l. fall. (cfr. Cass. 14 gennaio 1987, n. 172; Cass. 6 giugno 2000, n. 7554).
C'è peraltro da chiedersi se l'accomandante ingeritosi possa riacquistare il beneficio della limitata responsabilità. A mio avviso, ciò potrebbe accadere nel caso in cui l'ingerenza sia dovuta ad una previsione statutaria di cui sia stata, successivamente, accertata la non conformità al riparto normativo di competenze tra le due categorie di soci ex artt. 2313 e 2320 c.c. Ove la società conformi il suo modello organizzativo al tipo normativo mediante una modifica dell'atto costitutivo, iscritta nel registro delle imprese, non vedo la ragione per la quale l'accomandante (precedentemente) ingeritosi nell'amministrazione dovrebbe continuare ad essere esposto alla illimitata responsabilità.
L'adeguamento dell'atto costitutivo comporta la corretta applicazione dello statuto legale della società in accomandita semplice e si viene, così, a determinare la stessa situazione della società irregolare successivamente iscritta nel registro delle imprese. Nell'ipotesi in cui l'ingerenza sia dovuta ad una previsione statutaria non conforme alla legge, è la modifica di quest'ultima ad assicurare (in via immediata) il corretto utilizzo del tipo societario, risultato che la norma persegue (in via indiretta) sanzionando le violazioni dello statuto legale con la perdita del beneficio della limitata responsabilità.
In questa prospettiva, il mantenimento della sanzione non solo appare sproporzionato, posto che l'accomandante ingeritosi risponde, in ogni caso, per le obbligazioni sorte prima della modifica statutaria, ma a ben vedere rischia di frustrare il risultato cui è preordinata la sanzione medesima, nei termini in cui verrebbe meno ogni incentivo a ripristinare il legale e corretto funzionamento della società, a tutela dell'affidamento del terzo.
D'altro canto, dopo la modifica statutaria, un'ulteriore indebita partecipazione dell'accomandante all'amministrazione della società determinerebbe, nuovamente, la perdita del beneficio della limitata responsabilità. È, pertanto, da escludere che la tesi, qui prospettata, possa consentire significativi abusi a danno dei terzi. In questa direzione, l'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto costitutivo revisionato andrebbe considerata come una nuova registrazione della società, alla stregua di quanto ritenuto per la regolarizzazione della ragione sociale di società indebitamente iscritta (con riferimento a quest'ultima, cfr. R. Costi, Il nome della società, Milano, 1964, 68).
Se si condivide il ragionamento, potrebbe allora concludersi che il fallimento in estensione possa essere dichiarato allorché l'insolvenza si sia venuta a determinare, anche in parte, con riferimento a debiti esistenti nel periodo antecedente alla registrazione della modifica dell'atto costitutivo, a condizione che la sentenza intervenga entro un anno da detta registrazione.

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