Responsabilità degli organi gestori nell'approssimarsi dell'insolvenza: nuovi “sistemi di allerta” e disciplina vigente

01 Giugno 2016

La perdurante crisi economica mondiale ha reso attuale il problema della possibile responsabilità gestoria in prossimità della crisi di impresa, che porta con sé quello consequenziale della condotta che la governance dovrà tenere in tali fattispecie, in considerazione del fatto che spesso si assiste a condotte opportunistiche da parte degli stessi amministratori che possono condurre ad un aggravamento della posizione patrimoniale della società.
Introduzione

La perdurante crisi economica mondiale ha reso molto attuale il problema della possibile responsabilità gestoria in prossimità della crisi di impresa (su tale aspetto Miola, Riflessioni sui doveri degli amministratori in prossimità dell'insolvenza, in Studi in onore di Belviso, Bari, 2011, 612; Nigro, "Principio" di ragionevolezza e regime degli obblighi e della responsabilità degli amministratori di s.p.a., in Giur. comm., 2013, I, 472; Montalenti, La gestione dell'impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in Riv. dir. soc., 2011, 820 ss.), cioè in una fase in cui l'insolvenza non si è ancora verificata, il quale porta con sé quello consequenziale della condotta che - concretamente - la governance dovrà tenere in tali fattispecie, e ciò in considerazione del fatto che spesso si assiste a condotte opportunistiche da parte degli stessi amministratori che possono condurre ad un aggravamento della posizione patrimoniale della società.

In tale contesto si collocano le indicazioni di gran parte della dottrina recentemente recepite nello Schema di disegno di legge recante “Delega al governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza”, approvato dal Consiglio dei Ministri in data 11 febbraio 2016, ove si prevede all'art. 4, che devono essere introdotte procedure di allerta e composizione assistita della crisi, di natura non giudiziale e confidenziale, finalizzate ad incentivare l'emersione anticipata della crisi e ad agevolare lo svolgimento di trattative tra debitore e creditori, […] ponendo a carico degli organi di controllo societari, del revisore contabile e delle società di revisione, l'obbligo di avvisare immediatamente l'organo amministrativo della società dell'esistenza di fondati indizi della crisi e, in caso di omessa o inadeguata risposta, di informare direttamente il competente organismo di composizione della crisi”, imponendo altresì “[…] a creditori qualificati, come l'agenzia delle entrate, gli agenti della riscossione delle imposte e gli enti previdenziali, l'obbligo, a pena di inefficacia dei privilegi accordati ai crediti di cui sono titolari, di segnalare immediatamente agli organi di controllo della società o, in mancanza, all'organismo di composizione della crisi, il perdurare di inadempimenti di importo rilevante, coordinando detti obblighi con quelli di informazione e vigilanza spettanti alla Consob”.

Accanto a questi “obblighi si segnalazione” nella nuova disciplina dovranno essere previste anche “misure premiali” per l'imprenditore che ricorra “[…] tempestivamente alla procedura e ne favorisca l'esito positivo”, nonché misure “[…] sanzionatorie per l'imprenditore che ingiustificatamente la ostacoli o non vi ricorra, pur in presenza dei relativi presupposti, ivi compresa l'introduzione di un'ulteriore fattispecie di bancarotta semplice ai sensi degli articoli 217 e 224 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267”.

Appare dunque evidente come la problematica dell'anticipata emersione della crisi di impresa costituisca - probabilmente – la soluzione più opportuna al fine di evitare il depauperamento o la dissipazione di importanti realtà di imprese o – in certi casi più gravi – l'aggravamento del dissesto.

In tal senso si è espressa anche autorevole dottrina la quale, proprio in sede di primo commento allo “Schema di disegno di legge” citato, ha opportunamente sottolineato come l'obbligo si segnalazione proprio da parte degli stessi organi sociali trovi adeguata giustificazione (Fabiani, Di un ordinato ma timido disegno di legge delega sulla crisi d'impresa, in Il Fallimento, 2016, 261 ss. il quale sottolinea come “… attribuire agli organi di controllo sull'impresa la legittimazione ad instare per l'apertura di un procedimento di accertamento della crisi e dell'insolvenza (…) possa creare un corto circuito nelle relazioni fra organi sociali ma i vantaggi appaiono, a prima vista, superiori agli svantaggi. Forse si è ecceduto nell'assegnare loro proprio una legittimazione diretta, anziché convogliare la loro iniziativa verso il collettore pubblico ministero, perché questa opzione scardina i principi del processo, ma su questo, correzioni intelligenti del legislatore delegato potrebbero sopravvenire. Anche l'estensione della legittimazione del P.M. va nella stessa direzione, né appare distonica con una liberalizzazione della gestione dell'insolvenza. Sarebbe, infatti, ipocrita predicare che crisi e insolvenza di una impresa possano essere percepiti come un affare esclusivo del debitore e dei creditori. Vi sono interessi coinvolti superindividuali e a loro tutela la presenza del P.M. è più che giustificabile (…)”).

Occorre peraltro verificare – in attesa della nuova disciplina fallimentare – se la tutela dei creditori e dei soci trovi adeguata tutela nell'ordinamento vigente, e quali sono gli strumenti predisposti dal legislatore al fine di “incentivare” l'emersione della crisi di impresa.

Va fin d'ora evidenziato come con la locuzione crisi di impresa o "prossimità dell'insolvenza" si è soliti riferirsi a quella situazione, che precede l'apertura di una procedura di insolvenza o di altra procedura concorsuale o stragiudiziale per la composizione della crisi d'impresa, caratterizzata da un deterioramento della stabilità finanziaria e patrimoniale della società.

In tale fase della vita dell'impresa, in cui spesso il valore del patrimonio netto, a causa di andamenti negativi della gestione, si azzera o si riduce a un livello molto basso, e non vi sono ragionevoli prospettive di ripristino dello stesso, gli interessi dei soci e degli amministratori (che spesso sono i principali soci) tendono a discostarsi da quelli dei creditori, i quali - come è ovvio - sono naturalmente più interessati ad una gestione conservativa e liquidativa del patrimonio che ad una prosecuzione dell'attività aziendale.

Nelle situazioni di avvicinamento della crisi, dunque, si presenta agli amministratori la "tentazione" di non rilevare l'entità della probabile perdita e continuare l'attività per proteggere gli interessi economici propri e degli azionisti.

Tale situazione appare tanto più frequente nella realtà nazionale se si considera che il nostro sistema imprenditoriale è spesso caratterizzato da una forte matrice familiare, in cui il socio considera la società alla stregua di un qualunque altro bene di cui si può essere titolari, con la conseguenza - infondata - di poter esercitare con assoluta discrezionalità ogni prerogativa discendente da tale titolarità anche e soprattutto a livello di governance (costituisce un dato di esperienza che, soprattutto nelle società più piccole, gli amministratori sono anche i maggiori azionisti, interessati alla massima distribuzione di dividendi, soggetti al timore di perdite reputazionali in caso di fallimento, ed al desiderio di conservare la loro posizione all'interno della società).

Va ancora osservato come, nonostante ripetuti ed autorevoli interventi dottrinali (Galgano - Genghini, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e e di diritto pubblico dell'economia, diretto da Galgano, I, Padova, 2006, 479-480), nel panorama imprenditoriale italiano stenti ad attecchire l'idea che se l'impresa presenta un elevato grado di specializzazione tecnica e di complessità organizzativa occorrono specifiche e complesse qualità manageriali che spesso non si rinvengono nell'ambito della famiglia proprietaria.

Tale ovvia considerazione trova applicazione anche e soprattutto nel momento della "crisi", ove necessariamente si richiede una "specifica competenza" gestionale in capo agli amministratori, fino a ridisegnare il loro ruolo in presenza di questa nuova situazione, in cui saranno richieste diverse professionalità e valutazioni rispetto alla gestione sociale dell'impresa in bonis. Tuttavia, frequentemente, in tale situazione gli amministratori, anziché attuare una gestione oculata e conservativa del patrimonio o, se del caso, cessare l'attività nel più breve tempo possibile - proprio per le ragioni sopra sommariamente delineate -, pongono in essere condotte ispirate ad una prosecuzione dell'attività di impresa, anche investendo in progetti altamente rischiosi che dovrebbero fruttare i guadagni con i quali risollevarsi dalla crisi in cui l'impresa si è trovata.

Tuttavia, se tali comportamenti sono in alcuni casi caratterizzati da "imprudenza imperizia ed incompetenza", in altre circostanze ciò avviene nella piena consapevolezza che, se la società è prossima all'insolvenza, il rischio di ulteriori perdite finisce per ricadere interamente sui creditori, i quali in caso di insuccesso vedono ulteriormente ridursi le probabilità di soddisfacimento dei loro crediti.

Tale considerazione trova un pratico riscontro in uno degli istituti principali predisposti dal legislatore per la risoluzione della crisi di impresa (il concordato preventivo in continuità), in cui – necessariamente - molte delle spese affrontate in questa fase sono in prededuzione rispetto ai creditori dell'azienda.

Alla luce di tali situazioni, potenzialmente molto pericolose per i creditori, sorge la necessità di individuare meccanismi per proteggere gli interessi dei medesimi, a fronte di scelte gestionali in alcuni casi del tutto illogiche, irragionevoli, ed in altri casi aventi anche natura distrattiva, poste in essere dagli amministratori.

Le soluzioni per la tutela dei creditori nella crisi di impresa: rimedi ex ante e rimedi ex post

Il problema sopra delineato non è naturalmente solo italiano, e pertanto si tratta di una esigenza chiaramente sentita anche in ordinamenti giuridici diversi dal nostro, ma - naturalmente - sono diverse le soluzioni offerte dai vari ordinamenti per rispondere alla indicata esigenza di protezione.

Va richiamata - innanzitutto - una distinzione tra rimedi ex ante, quali le regole sul capitale sociale, e rimedi ex post, quali la promozione di azioni per far valere la responsabilità civile degli amministratori, sottolineando come il nostro "sistema societario" preveda (almeno formalmente) entrambi i meccanismi di salvaguardia.

Non appare peraltro inutile verificare le soluzioni adottate anche da altri ordinamenti, ove per frenare le condotte definite "opportunistiche" degli amministratori, si interviene soprattutto sul piano della responsabilità gestoria, attraverso tecniche risarcitorie che spesso differiscono non soltanto con riguardo alla natura dell'azione esercitabile, ma anche con riferimento alle conseguenze giuridiche.

In tale prospettiva occorrerà pertanto tener conto della contrapposizione tra sistemi, come quello italiano, che riconoscono ai creditori autonomi rimedi civilistici, e ordinamenti che prevedono una responsabilità degli amministratori solo nei confronti della società e non dei creditori (osserva Buta, Tutela dei creditori e responsabilità gestoria all'approssimarsi dell'insolvenza: prime riflessioni, in Società, banche e crisi di impresa, Torino, 2014, 2545 come "Alcuni ordinamenti contengono previsioni che si applicano solo quando la società versa in stato di insolvenza. Nell'ordinamento tedesco, ad esempio, gli amministratori di una società già insolvente hanno lo specifico obbligo di ricorrere con ragionevole sollecitudine all'autorità giudiziaria, attivando una procedura d'insolvenza, pena la loro responsabilità personale").

L'idea generalmente accettata dalla giurisprudenza e dalla dottrina anglosassoni è che si tratti di obblighi verso la società e non verso i creditori, obblighi che però impongono agli amministratori di una società insolvente, o quasi insolvente, di tenere in considerazione gli interessi dei creditori nell'adempimento dei loro fiduciary duties.

In tali ordinamenti l'interesse dei creditori sociali è protetto indirettamente attraverso i tradizionali doveri fiduciari degli amministratori: non appena ci si avvicina all'insolvenza, gli interessi della società, ai quali gli amministratori come fiduciari devono avere riguardo, divengono essenzialmente gli interessi dei creditori.

A questo punto, resta da domandarsi se anche nel nostro ordinamento possano essere individuati specifici doveri di gestione in prossimità dell'insolvenza che si ispirino alla tutela dei creditori, ovvero se sussista, o possa essere ricostruito in via interpretativa, un obbligo degli amministratori di presentare la richiesta di fallimento "in proprio" della società al manifestarsi dello stato di insolvenza.

La responsabilità degli amministratori in presenza della crisi di impresa nell'ordinamento italiano

Come è stato autorevolmente sostenuto (cfr. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 40 ss. e 63), l'insorgere di una situazione di crisi in grado di compromettere la continuità aziendale impone agli amministratori di operare una valutazione tra i diversi interessi coinvolti nell'esercizio dell'impresa dando la prevalenza alla tutela dei creditori. Il fondamento di questo dovere di protezione dell'interesse dei creditori a vedere conservato il valore patrimoniale della società e a non essere esposti a maggiori rischi di perdita del proprio credito viene ricondotto al principio generale di corretta gestione imprenditoriale e di divieto di aggravare il dissesto.

L'esistenza di tale dovere trova conferma - sotto il profilo dell'analisi economica - nella considerazione che il venir meno della continuità aziendale, cui non facciano seguito iniziative volte alla ricapitalizzazione della società in misura tale da conservare in capo ai soci un investimento in capitale di rischio tale da garantire una corretta gestione dell'impresa ed evitare che l'assunzione di nuovi rischi aggravi le perdite per i creditori, impone il rispetto della priorità accordata a questi ultimi, quali involontari «investitori senza diritti», nella soddisfazione del loro interesse rispetto ai fornitori di capitale di rischio.

L'estrinsecazione normativa di tali principi si rinviene negli artt. 2394 c.c. (sulla responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali per inosservanza degli obblighi di conservazione dell'integrità del patrimonio, secondo Fabiani, op. cit. passim, non appare condivisibile “[...] una lettura sanzionatoria dell'art. 2394 c.c. tale per cui la responsabilità degli amministratori sussiste per il solo fatto che il patrimonio sociale risulti non integro. […] Se dovesse accreditarsi una siffatta tesi, non si potrebbe più parlare di responsabilità per danni ma di responsabilità per debito, con la conseguenza che in caso di perdita dell'integrità del patrimonio, il creditore potrebbe aggredire l'amministratore salvo dover al più escutere, preventivamente, il patrimonio sociale. Una visione siffatta della responsabilità si risolve, nella sostanza, nell'attribuzione nei confronti dell'amministratore di una forma di coobbligazione. Si tratta di una visione che, di per sé, non è necessariamente eretica rispetto al sistema, visto che di responsabilità per debito si discuteva a proposito della responsabilità dell'amministratore ai sensi del [precedente] art. 2449 c.c. e che, tuttavia non pare più conciliabile con il sistema attuale, un sistema che ha ripudiato quella regola, visto che la responsabilità degli amministratori e dei liquidatori post-scioglimento è, oggi, una responsabilità risarcitoria e mai una responsabilità diretta per le obbligazioni assunte dalla società”), 2485 c.c. (sulla responsabilità degli amministratori per mancata attuazione di adempimenti conseguenti al manifestarsi di una causa di scioglimento), 2486, comma 2, c.c. (sulla responsabilità degli amministratori per una gestione «non conservativa» del patrimonio successivamente allo scioglimento della società), nonché nell'art. 2497 c.c., dettato in tema di responsabilità da direzione e coordinamento, ma che in realtà prevede uno standard di corretta gestione imprenditoriale ritenuto espressione di un principio generale.

Nel nostro ordinamento viene previsto anche un generale obbligo - sanzionato penalmente - di attivarsi in prossimità dell'insolvenza dall'art. 217 l. fall. peraltro ben poco applicato, come si ricava dai repertori di giurisprudenza (evidenzia, al contrario, Buta, op. cit. 2547, come "[...]In definitiva, seppur su basi diverse, in caso di pericolo per i creditori, molti ordinamenti - ma non quello italiano, come si avrà modo di notare più avanti - delineano un sistema speciale di responsabilità degli amministratori in prossimità dell'insolvenza, prevedendo in capo a costoro obblighi nuovi e ulteriori rispetto a quelli cui sono normalmente soggetti: si tratta di obblighi qualificati perché in grado di generare responsabilità per il danno eventualmente arrecato da una gestione che non tenga conto anche degli interessi dei creditori"; cfr. altresì Vicari, La responsabilità degli amministratori di società di capitali verso i creditori in caso di omessa o ritardata presentazione della richiesta di fallimento al tribunale, nel diritto tedesco e italiano, in Giur. comm., 1996, II, 377; Id., I doveri degli organi sociali e dei revisori in situazioni di crisi di impresa, in Giur. comm., 2013, I, 135 s.).

Come appare subito evidente le norme richiamate rispondono all'esigenza di maggiore tutela dei creditori all'avvicinarsi della crisi, in quanto "[...]In situazioni di rischio per gli interessi dei creditori, gli amministratori dovrebbero dare una risposta in termini di prosecuzione dell'attività (previo risanamento della situazione economico finanziaria), o di liquidazione della società, attraverso una procedura formale o per mezzo di accordi informali con i creditori" (cfr. Buta, op. cit., 2547).

Scopo delle citate disposizioni è anche di tentare di dissuadere gli amministratori da condotte che appaiono in palese contrasto con gli interessi dei creditori e, in seconda battuta, risarcire (direttamente o indirettamente) quei creditori che subiscono una perdita come risultato della non conformità della condotta concretamente posta in essere dagli amministratori agli standards o alle rules previste dalla legge.

Si è peraltro osservato come tali soluzioni si prospettino solo nel caso di impresa in crisi, in quanto, nel caso in cui la società sia in bonis, non si ritiene invece necessario offrire ai creditori un così elevato livello di tutela, perché al contrario si correrebbe il rischio di indurre gli amministratori a considerare solo progetti a bassissimo rischio e perciò meno redditizi al fine di non incappare in responsabilità civili.

Da tali premesse e dai citati riferimenti normativi deriva che già nella fase che precede l'assunzione delle decisioni relative alla composizione della crisi, e a prescindere dal verificarsi di una causa di scioglimento che imponga una gestione conservativa ai sensi dell'art. 2486 c.c., non solo la gestione imprenditoriale, ma anche quella societaria risultano inevitabilmente condizionate dal necessario rispetto del dovere di protezione dei creditori che impone agli amministratori di non proporre o adottare decisioni e di non dare esecuzione a deliberazioni assembleari che alterino, a danno dei creditori, l'equilibrio finanziario o il valore patrimoniale della società.

Peraltro, dall'applicazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale si ricava il dovere degli amministratori di porre in essere le (o verificare la praticabilità delle) operazioni societarie che possono ripristinare o quanto meno migliorare l'equilibrio finanziario: dal richiamo dei versamenti ancora dovuti, alle operazioni di ricapitalizzazione, all'emissione di strumenti finanziari, obbligazioni o titoli di debito che determinano una modificazione della composizione del passivo o delle relative scadenze tale da consentire la sostenibilità del debito (Cfr. Calandra Buonaura, La gestione societaria dell'impresa in crisi, in Società, banche, cit. 2595).

Qualora, al contrario, gli amministratori non abbiano agito in una prospettiva conservativa, vengono riconosciuti ai creditori sociali autonomi rimedi civilistici, esperibili anche al di fuori di una procedura concorsuale: in tal senso è innanzitutto l'ipotesi prevista dall'art. 2394 c.c., ove si prevede che gli amministratori possono essere chiamati a rispondere nei confronti dei creditori sociali nel caso di violazione degli "obblighi di conservazione dell'integrità patrimoniale della società", sempre che da tale violazione sia derivata l'insufficienza patrimoniale.

Si tratta di un'azione tendente a riconoscere al singolo creditore ed al di fuori dell'ambito concorsuale il risarcimento per un danno che non è diretto, ma riflesso (il fatto che si tratti di un danno "riflesso" esplica – a nostro avviso - rilevantissime conseguenze in tema di possibile legittimazione del curatore fallimentare nell'azione per la concessione abusiva di credito, facendo concludere in senso favorevole circa la sussistenza di tale legittimazione in capo al curatore fallimentare in ordine all'esercizio dell'azione di risarcimento danno per il depauperamento del residuo patrimonio dell'azienda finanziata), in quanto derivante dall'insufficienza del patrimonio sociale causata dal comportamento dell'amministratore, e ciò comporta, naturalmente, che si presentino inevitabili interferenze con l'azione ex art. 2392 c.c.

Ancora, analizzando i principali contributi dottrinali in materia emerge come - in presenza della crisi - uno degli obblighi più importanti posti a carico degli amministratori sia costituito dall'agire in senso "conservativo", secondo il modello dell'art. 2486 c.c., nonché, nei casi in cui la società sia insolvente, l' eventuale accesso ai rimedi concorsuali.

A questo proposito si è ulteriormente osservato (cfr. Fabiani, op. cit.) come nell'ambito dell'agire in senso conservativo, l'amministratore può porre in essere una condotta conforme all'interesse sociale ma pregiudizievole al patrimonio; in tali fattispecie che cosa accade? Si è evidenziato che se c'è un danno al patrimonio, il soggetto leso è prima la società e poi lo sono i creditori sociali e che se c'è un danno al patrimonio la condotta non può essersi conformata all'interesse sociale. Si è peraltro replicato che si tratta di una semplice impressione perché “[….] non è affatto sicuro che quella condotta possa essere sanzionata dalla società; infatti, ben si può assistere ad una condotta conforme all'interesse sociale che, però, nel suo divenire si è dimostrata nociva. Quindi, le sfumature possono essere molte e ciò giustifica una attenzione più intensa sulla ragione della responsabilità verso i creditori sociali” (Fabiani, op. cit. il quale ulteriormente osserva come “[…] diverso, però, può essere il discorso quando si consideri che, una volta predicata l'autonomia dell'azione dei creditori sociali, gli interessi tutelati possono risultare fortemente divergenti. Infatti, se rispetto all'azione sociale è indubbio che venga in gioco la valutazione di corrispondenza fra condotta dell'amministratore → interesse sociale e → responsabilità , rispetto all'azione dei creditori sociali, la circostanza che sia stato osservato dagli amministratori l'interesse sociale — quale espressione dell'interesse della maggioranza dei soci — potrebbe, anche, risultare indifferente”).

In tal senso si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità prevedendo un preciso obbligo di comportamento degli amministratori e dei sindaci di instare per il fallimento della società, qualora si manifesti lo stato di insolvenza, e ciò proprio al fine di non aggravare il dissesto, secondo i dettami dell'art. 217 l. fall. (cfr. in tal senso le opportune indicazioni di Galletti, L'insorgere della crisi e il dover essere nel diritto societario. obblighi di comportamento degli organi sociali in caso di insolvenza, in questo portale, nonché Panzani, L'insuccesso delle operazioni di risanamento delle imprese in crisi e le responsabilità che ne derivano, in Crisi di imprese: casi e materiali, Milano, 181 e ss. e Bonelli, Concessione abusiva di credito e interruzione abusiva di credito, ivi, 249 ss.).

Va peraltro osservato come anche la gestione conservativa costituisca un "rimedio" temporaneo, e gli amministratori non potranno limitarsi a porla in essere per tempo indefinito, essendo inevitabile che anche una gestione conservativa - in caso di società che si trovano in costante perdita di esercizio - necessariamente condurrà ad un totale azzeramento del patrimonio sociale; tale situazione - pertanto - deve considerarsi inevitabilmente transitoria, e appare destinata a saldarsi con una sistemazione definitiva, che potrà passare o meno per le opportune deliberazioni assunte ai sensi dell'art. 2487 c.c.

A fronte di tali obblighi consegue che, se da parte degli amministratori non si rinvengono le condizioni per esperire un'efficace pianificazione della ristrutturazione o della liquidazione di alcuni assets, così da ricavare dalle operazioni di realizzo degli elementi dell'attivo i flussi necessari per estinguere integralmente le passività, allora si avrà la prova che la società è insolvente, con conseguente messa in liquidazione.

In tale prospettiva di possibile recupero produttivo dell'azienda, come si analizzerà più avanti, deve ritenersi sussistente in capo agli amministratori l'obbligo dell'utilizzo di una procedura di risoluzione della crisi (piano di risanamento ex art. 67 l. fall., accordi di ristrutturazione, concordato preventivo) e ciò soprattutto al fine di evitare la prosecuzione dell'attività in perdita con conseguente aggravamento del dissesto.

La responsabilità degli amministratori per le errate scelte gestionali durante la crisi di impresa

E' evidente che individuare in capo agli amministratori una precisa responsabilità per aver proseguito una attività di impresa in perdita (ed eventualmente al collegio sindacale per non aver segnalato tempestivamente tale situazione), o per aver scelto uno strumento per la risoluzione della crisi di impresa inadeguato o inopportuno, rende necessario approfondire il problema della sindacabilità delle scelte gestorie, ponendo, quindi, il seguente quesito: si può imputare agli amministratori di aver effettuato una determinata scelta (concorsuale o meno) piuttosto che un'altra?

Oppure - come osservato in dottrina (cfr. Galletti, op. ult. cit., passim) - così facendo si contravviene al "divieto" di censurare le scelte gestorie discrezionali, il c.d. merito della gestione (business judgement rule)?

Come è noto, l'affermazione per cui un sindacato sul merito di tali scelte contravverrebbe alla c.d. business judgement rule appare in realtà poco armonica con il nuovo modello di responsabilità introdotto dopo il 2003; la dottrina è infatti unanime nell'affermare che la riforma del 2003 ha senz'altro spostato il baricentro del meccanismo della responsabilità dalla diligenza dell'amministratore, concetto caratteristico di un giudizio statico, volto a verificare la conformità di un atto ad una fattispecie tipica, all'adeguatezza dell'organizzazione, concetto invece dinamico, ed intraneo ad una valutazione dell'impresa in termini di attività.

Gli amministratori pertanto debbono "adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze" (art. 2392, comma 1, c.c.).

Nella considerazione della "natura dell'incarico" giocano elementi di carattere oggettivo, legati alle dimensioni dell'impresa ed alla complessità dell'attività sociale; non è ammissibile in particolare che i soggetti i quali accettarono la carica di amministratori di società di rilevanti dimensioni, con flussi finanziari in entrata ed in uscita di grande entità, possano poi addurre a scusa la propria incapacità gestionale, oppure l'inettitudine ad affrontare con gli strumenti più adeguati la grave crisi che caratterizza questi anni.

L'art. 2392, comma 2, c.c., infatti, fa sì salva, ai fini della responsabilità, l'ipotesi in cui le attribuzioni siano oggetto di delega; ma la norma va notoriamente posta in correlazione sistematica non soltanto con il successivo comma 3, alla luce del quale "in ogni caso gli amministratori [...] sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne i compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose", ma anche e più specificamente con l'art. 2381, ove si rinviene l'esatta delimitazione normativa degli obblighi dei consiglieri non delegati.

In particolare, l'art. 2381, comma 3, c.c. sancisce l'obbligo per i consiglieri di amministrazione di valutare "l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società", oltre al "generale andamento della gestione".

In altre parole sono i componenti del consiglio di amministrazione ad essere onerati del compito di controllare che gli assetti organizzativi siano adeguati. Ed un assetto organizzativo non può dirsi "adeguato" qualora esso prescinda da una idonea pianificazione strategica, soprattutto quanto l'impresa si trova in una fase di "patologia", e cioè in crisi produttiva o finanziaria.

La "pianificazione strategica" che dovrà tener conto del tipo di crisi (finanziaria, organizzativa o produttiva), potrà poi trasfondersi o meno in un documento organizzato in forma sistematica ed intelligibile, ma non potrà prescindere, per attività di complessità non insignificante, da una minima esteriorizzazione, che consenta ai consiglieri non delegati di valutarlo.

Alla medesima conclusione in ordine alla sussistenza di una palese responsabilità dell'organo gestorio si perviene evidenziando che se il merito delle decisioni gestionali generalmente non è sindacabile, ciò non può dirsi invece qualora le stesse si discostino dagli standards razionali di condotta esigibili e, comunque, quando tali "scelte" siano prive dell'adozione di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere.

A tal fine va evidenziato come il primo obbligo dell'amministratore, delegato o meno, consiste nell'informarsi adeguatamente anche e soprattutto nel momento della crisi dell'impresa, ossia nel ricevere, anche sollecitandoli, gli elementi informativi necessari non solo al fine di adottare collegialmente le decisioni che siano poste all'ordine del giorno del consiglio, ma anche di svolgere la propria funzione residuale e continua di controllo e per elaborare in modo responsabile le eventuali soluzioni alla crisi.

In ogni caso in capo all'amministratore sussiste l'onere di chiedere informazioni aggiuntive rispetto ai flussi periodici, se carenti, o comunque se valutati anche nella situazione concreta come insufficienti; il consigliere, al limite anche "indipendente", svolge il suo ruolo, che è pur sempre quello di gestire la società, e , come evidenziato in dottrina - "[...] non già di scaldare una poltrona in consiglio, quasi come un consulente esterno, munito di particolari competenze tecniche, erogabili a richiesta del presidente o degli altri membri dell'organo durante le riunioni collegiali" (cfr. Galletti, op. ult. cit. passim).

L'adeguatezza di tali informazioni, anche sotto il profilo della eventuale omessa attivazione dell'amministratore al fine di informarsi, in presenza di indici economici e/o finanziari preoccupanti, sarà certamente sindacabile nel merito da parte del Giudice.

Molto opportunamente, a nostro avviso, si è evidenziato che la business judgement rule non rivestirà validità generale, costituendo solamente una regola tecnica di giudizio: essa risponde semplicemente alla ratio della impossibilità per il Giudice, e della inopportunità in generale, di sindacare concrete scelte di gestione, elevatamente discrezionali, per la loro natura fortemente opinabile e "soggettiva", ciò che potrebbe risolversi in un forte disincentivo all'adozione delle determinazioni imprenditoriali del management; ma tale conclusione dovrà essere rivista quando l'impresa entra in crisi proprio alla luce dei principi con i quali si è esordito, anche nel rispetto del più volte citato obbligo conservativo cui devono attenersi gli amministratori.

Al fine di meglio individuare le situazioni concrete, da un punto di vista teorico e generale si possono delineare le seguenti situazioni che precedono l'impresa in crisi: in un determinato esercizio l'impresa ha una situazione economica positiva, produce ricavi superiori ai costi, riesce a distribuire dividendi (o comunque a retribuire l'imprenditore se non è esercitata in forma societaria) e ad avere ancora una certa liquidità di cassa messa da parte per l'attività futura.

In un esercizio successivo l'impresa, per una qualche ragione non opera più in condizioni di economicità perché non ha abbastanza ricavi per remunerare adeguatamente i fattori produttivi (quindi manca il cash flow) ed è costretta a consumare le riserve di liquidità di cui dispone spesso si tratta del patrimonio immobiliare) per non essere inadempiente.

In questo momento - di fatto, di fronte al rischio di insolvenza - l'impresa non è ancora insolvente, ma è già in crisi.

In tale momento il management dell'impresa si trova ad un bivio: può proseguire l'attività senza prendere provvedimenti particolari, occultando la crisi (e l'eventuale successiva insolvenza) confidando nella sua temporaneità; oppure può fare ricorso agli istituti delineati dal legislatore della riforma 2005-2006; come appare evidente, il fatto stesso che gli amministratori intervengano prima dell'insolvenza o dell'aggravamento della stessa, ponendo in essere una ristrutturazione economica e/o finanziaria tempestiva, consente di arginare il più possibile i danni che conseguono necessariamente nel caso di un'impresa che, continuando ad operare nonostante la crisi, consuma prima le proprie riserve di liquidità e, sopraggiunta l'insolvenza, poi lo stesso patrimonio, che costituisce garanzia generica dei creditori ex art. 2470 c.c.

E' in questo senso che deve essere inteso anche l'evidente favor legislativo per gli istituti della crisi di impresa e per il concordato preventivo in particolare, come dimostrato dai plurimi e periodici interventi degli ultimi anni: l'impresa insolvente - infatti - produce esternalità negative verso tutti gli operatori economici che la circondano, ed in primis verso i suoi creditori.

In questa prospettiva, proprio ritenendo sussistente un vero e proprio "obbligo" per gli amministratori di intervenire nel momento della crisi, da parte della dottrina è stato elaborato un vademecum per l'amministratore dell'impresa in crisi (cfr. Galletti, op. ult. cit. passim), evidenziando come la prima disfunzione che sarà possibile registrare, da parte degli amministratori, verterà sul mancato raggiungimento degli obiettivi di gestione così come pianificati dal management.

In tale prospettiva gli scostamenti rispetto al piano industriale possono essere del tutto normali, costituendo il piano null'altro che uno strumento volto a tentare di rimediare a quello che è l'ordinario rischio dell'imprevisto.

La verificazione di eventi imprevisti, o il mancato avveramento di circostanze programmate, possono rendere il piano superato, o comunque meritevole di aggiornamenti; qualora gli obiettivi previsti dal piano possano ancora essere raggiunti, mediante un riposizionamento delle risorse impiegate, la situazione non presenterà particolari patologie: gli amministratori porranno in essere le dovute rettifiche alla pianificazione in essere, e la persistenza della continuità aziendale non sarà posta in discussione.

Se, tuttavia, le disfunzioni della pianificazione saranno più radicali, e si sarà in presenza di espedienti finalizzati ad occultare la realtà della situazione, nonostante l'esistenza di budget e di bilanci previsionali che espongono flussi negativi, gli scostamenti registreranno in realtà la inadeguatezza ed inattendibilità originarie del piano.

In tali circostanze l'assetto organizzativo dell'azienda dovrà ritenersi del tutto inadeguato, e in tal caso la censura che sarà possibile rivolgere agli amministratori sarà, pertanto, direttamente quella di aver predisposto un assetto organizzativo ab origine insufficiente e di non aver utilizzato gli strumenti che il Legislatore ha posto a disposizione per le imprese in crisi.

Come già evidenziato, anche in tale fase, utilizzando gli strumenti dell'accordo di ristrutturazione o del concordato preventivo, si potrebbe ancora, in molti casi, evitare la distruzione di valore dell'impresa; in molte fattispecie (quando cioè non si è in presenza di un piano di ristrutturazione aziendale adeguato) - tuttavia - tale distruzione viene - di fatto - agevolata da parte delle banche che concedono credito ad aziende che possono solo entrare nella fase della liquidazione.

Nel caso da ultimo delineato, gli amministratori spesso tentano di proseguire - irresponsabilmente - nella gestione caratteristica della società cagionando danni al patrimonio in violazione dell'art. 2449 c.c., deteriorandone il valore o la consistenza al di là delle falcidie fisiologiche allo stato di liquidazione, di svalutazioni di poste attive non direttamente imputabili, di costi non eliminabili neppure in fase liquidatoria (cfr. sul punto App. Milano 11 luglio 2007).

Si deve ritenere, pertanto, che la situazione di "crisi dell'impresa" porti all'individuazione di uno specifico dovere in capo all'amministratore: oltre a dover agire in senso conservativo, sussiste anche l'obbligo di individuare lo strumento più idoneo per risolvere o tentare di risolvere la stessa "crisi".

Tuttavia, anche volendo prescindere da quanto sopra esposto, si osserva come l'art. 2486 c.c. stabilisca una precisa responsabilità dell'amministratore per risarcimento dei danni che, come si legge nella Relazione all'articolato normativo della riforma "non investe più l'operazione in sè, ma l'eventuale danno conseguente".

Gli amministratori sono dunque responsabili se con un'azione od un'omissione (ad esempio continuando a richiedere finanziamenti al ceto bancario) determinano un danno che consiste nella (ulteriore) perdita patrimoniale subita dalla società da loro amministrata.

E' evidente che proseguendo una attività in costante perdita, le perdite aumenteranno con ulteriore deficit a carico della società (cfr. in tal senso Zamperetti, La prova del danno da gestione non conservativa nella società disciolta per perdita del capitale, in Fall., 2009, 570).

In ogni caso va ribadito come la condotta degli amministratori sopra descritta potrebbe costituire una violazione dell' art. 2486 c.c., in quanto non solo non sarà orientata alla conservazione del valore del patrimonio sociale, ma pur in presenza di notevoli perdite, l'attività caratteristica prosegue, con ciò ponendo in essere un "nuovo rischio di impresa" che, verosimilmente, cagionerà un danno ingiusto in termini di depauperamento (ulteriore ed ingiustificato) del patrimonio sociale.

In tali fattispecie la condotta degli amministratori appare - a nostro avviso - nettamente contraria ai normali criteri di diligenza richiesti all'amministratore. Con riferimento a tale aspetto va richiamata la Relazione ministeriale al codice civile vigente, la quale chiarisce: "si tratta di un criterio obiettivo e generale, non soggettivo e individuale"; e con riferimento all'art. 1176, comma 2, c.c. aggiunge che tale criterio "va commisurato al tipo speciale del singolo rapporto".

La riforma ha - peraltro - inserito in questo quadro un'importante novità: nel ricostruire il modello dell'amministratore diligente non si dovrà oggi solo prendere in considerazione la natura dell'incarico ma anche le specifiche competenze dell'amministratore; è dunque evidente che il rinvio espresso da parte del vigente art. 2392 c.c. alle specifiche competenze dell'amministratore quale elemento sulla base del quale ricostruire la diligenza che a detto amministratore può essere chiesta, amplia l'ambito della responsabilità degli amministratori, pur partendo da uno standard di sforzo e di comportamento; questo, per definizione, non può essere "singolare" o "particolare", ma "medio".

La tutela dei creditori per le errate scelte gestionali nella fase della crisi da parte del management

Il discorso, a questo punto, si sposta sul piano della tutela dei creditori sociali che - come osservato in dottrina (cfr. Buta, op. cit., 2566) - consente a questi ultimi di pretendere direttamente nei confronti dei gestori il rispetto delle regole di salvaguardia dell'interesse protetto (cfr. Fabiani, op. cit., il quale evidenzia comeIn ogni fase della vita della società gli amministratori si possono trovare di fronte ad un bivio e a dover effettuare una scelta fra più alternative. Quindi, anche con riferimento alla situazione di crisi dell'impresa non vi sono condotte obbligate se non nei precisi limiti in cui è la legge a stabilirlo (come accade a proposito dell'opzione “ricapitalizza o liquida” e dell'eventuale opzione di accedere a nuovi finanziamenti); ad ogni crisi corrispondono diverse reazioni”).

I deterrenti contro l'inadempimento degli amministratori sono - infatti - da un lato l'azione sociale, dall'altro l'azione dei creditori.

Una responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali - seppur subordinata alla duplice condizione che gli amministratori abbiano violato gli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale e che in conseguenza di ciò il patrimonio sociale sia divenuto insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti - risulta tuttavia un quid pluris rispetto alla responsabilità prevista dall'art. 2392 c.c. (legata alla generale violazione del dovere di gestire la società con "la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle specifiche competenze").

Ciò trova la sua giustificazione nella volontà di rendere effettiva la tutela dei creditori sociali rispetto a comportamenti posti in essere dagli amministratori, svincolando il rimedio dei creditori dalle regole relative all'esercizio dell'azione sociale, soprattutto al fine di incentivare il corretto adempimento degli obblighi posti a salvaguardia del loro interesse a veder conservato il valore della garanzia patrimoniale.

D'altro canto, è proprio questo il motivo alla base della regola dettata nell'art. 2394, comma 3, c.c., per il quale la rinuncia all'azione di responsabilità da parte della società non preclude ai creditori l'esercizio dell'azione, mentre la transazione tra società e amministratori è impugnabile solo con l'azione revocatoria quando ne ricorrano gli estremi.

E' proprio nella prospettiva di una divaricazione degli interessi dei soci (perseguiti per il tramite degli amministratori) e dei creditori, in una situazione di difficoltà finanziaria, che si dovrebbe manifestare la maggiore efficienza del sistema nazionale che riconosce ai creditori autonomi rimedi civilistici rispetto ad un sistema che riconosce nei creditori dei semplici legittimati a sostituirsi alla società.

Si è pertanto affermato che la disposizione dell'art. 2394 c.c. rappresenta un elemento che pone il nostro ordinamento in una posizione avanzata e di maggior rigore rispetto ad altri. In tale prospettiva, pertanto l'art. 2394, comma 3, c.c., nella misura in cui stabilisce che la rinuncia all'azione non estingue il diritto, non soltanto rende la posizione dei creditori autonoma rispetto a quella della società, ma rappresenta un singolare indice positivo di emersione della rilevanza "esterna" del rapporto di amministrazione.

Tale soluzione, peraltro, già avallata dal dato letterale offerto dal comma 1 dell'art. 2394 c.c. («gli amministratori rispondono verso i creditori sociali»), sembra oggi trovare oggi ulteriore conforto nel testo del riformato art. 2394-bis c.c., che si riferisce ad una pluralità di azioni: “[i]n caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli spettano al curatore del fallimento, al commissario liquidatore e al commissario straordinario”.

Appare dunque evidente come quella riconosciuta ai singoli creditori sia un'azione "autonoma" rispetto a quella sociale (non può non essere richiamato il dibattito tra coloro che in dottrina ritengono che si tratti di azione autonoma (in tal senso cfr. Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004, 208 s.; Guerrera, La responsabilità, cit., 247 e 254; Adiutori, Funzione amministrativa e azione individuale di responsabilità, Milano, 2000, 68 ss.; Galgano, Il nuovo diritto societario, in Tratt. Galgano, XXIX, Padova, 2003, 282 ss.; Jorio, La determinazione del danno risarcibile nelle azioni di responsabilità, in Giur. comm., 2011, I, 149 ss.; in giurisprudenza cfr. Cass., n. 13765/2007; Cass. n. 1812/2005; Trib. Bologna, 8.8.2002; Trib. Ivrea, 27.1.2004; Trib. Milano, 29.3.2003) e quanti, invece, qualificano l'azione come surrogatoria (per questa secondo soluzione cfr. Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, 330 ss.; Nigro, La responsabilità degli amministratori nel fallimento delle società, in Il trattamento giuridico della crisi d'impresa. Profili di diritto concorsuale italiano e spagnolo a confronto, a cura di Sarcina, Garcìa Cruces, Bari, 2008, 225 s.; Borgioli, I direttori generali di società per azioni, Milano, 1975, 338 ss.; in giurisprudenza Cass. n. 2251/1998; Cass. n. 13498/1991); a questo proposito in dottrina si è affermato che la circostanza che l'art. 2394 c.c. renda espressamente autonomo il rimedio civilistico, esperibile in caso di violazione degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio, valorizza la funzione della tecnica risarcitoria ai fini della repressione e prevenzione di condotte negligenti idonee a danneggiare i creditori.

Si è pertanto affermato che ritenere che si tratti di azione autonoma, "[...] determina differenti conseguenze, anche di non poco rilievo, rispetto alla tutela comunque spettante ai creditori sulla base dei principi generali - vale a dire rispetto all'agire in surrogatoria della società - se non altro in relazione agli effetti derivanti dall'azione stessa: del risarcimento beneficerà non la società, ma direttamente i creditori" (cfr. Buta, op. cit.,2569).

Deve pertanto affermarsi che la tutela disegnata dall'art. 2394 c.c. si delinea quale conferma di una costruzione del rapporto amministratori-creditori che pone in capo ai primi - soprattutto nel momento della crisi - precisi obblighi (di comportamento) nei riguardi degli stessi creditori oltre che della società.

Ma tali obblighi non discendono dal precetto generale del neminem laedere, ma dalla legge e vengono seguiti da un'espressa regola di responsabilità.

Occorre, a questo punto, verificare la natura della responsabilità configurabile in capo agli amministratori, la quale, come noto, rileva soprattutto ai fini dell'onere della prova.

Sotto quest'ultimo profilo, l'opzione in favore del regime contrattuale è particolarmente importante, perché permette di applicare una regola probatoria più favorevole per il creditore, il quale dovrà dimostrare la colpa degli amministratori (secondo il modello dell'art. 2043 c.c.), ma potrà limitarsi a fornire la prova dell'inadempimento degli stessi, spettando invece a questi ultimi, per escludere o attenuare la loro responsabilità, provare che essere immuni da colpa.

Appare a nostro avviso fondata quella soluzione dottrinale che ritiene possibile esercitare l'azione di responsabilità ex art. 2394 c.c., oltre che nel caso di violazione degli specifici obblighi che, direttamente o indirettamente, tendono a garantire il corretto impiego del patrimonio nell'attività economica della società, anche nell'ipotesi di inosservanza del dovere generico di gestire l'impresa sociale con diligenza e secondo principi di corretta amministrazione.

Va anche osservato - con riferimento alla decorrenza dei termini prescrizionali - che la situazione di insolvenza non vale ad individuare il momento in cui si ritiene che debbano sorgere i doveri qualificati di conservazione dell'integrità patrimoniale - i quali parrebbero gravare sugli amministratori nel corso dell'intera vita di una società e non solo, quindi, in situazioni di insolvenza o di approssimarsi dell'insolvenza -, ma rappresenta soltanto una condizione dell'azione: in base all'art. 2394 c.c. i creditori possono agire in responsabilità quando risulti l'insufficienza patrimoniale, in un momento, dunque che può al limite anche precedere l'apertura del fallimento, ovvero la stessa situazione di insolvenza, consentendo quindi una tutela anticipata dei creditori.

In definitiva, la presenza dell'art. 2394 c.c. sulla responsabilità esterna per la violazione degli obblighi inerenti alla conservazione del patrimonio sociale consente di affermare la sussistenza in capo agli amministratori - per tutta l'intera vita della società - del dovere di non pregiudicare gli interessi dei creditori.

Naturalmente tale obbligo si concretizza e si rinvigorisce là dove la società versi in condizioni di crisi o di pre-crisi, situazione nella quale, come si è già detto, si accentua il rischio di condotte opportunistiche degli amministratori che possono condurre ad un trasferimento del rischio di impresa sui creditori.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario