Codice Civile art. 2110 - Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio.

Paolo Sordi

Infortunio, malattia, gravidanza, puerperio.

[I]. In caso d'infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge [o le norme corporative] (1) non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza [38 2 Cost.], è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o una indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, [dalle norme corporative,] (1) dagli usi o secondo equità [2111 2; 98 att.] (2).

[II]. Nei casi indicati nel comma precedente, l'imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge [dalle norme corporative] (1), dagli usi o secondo equità.

[III]. Il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell'anzianità di servizio [2120].

(1) Le disposizioni richiamanti le norme corporative devono ritenersi abrogate in seguito alla soppressione dell'ordinamento corporativo.

(2) Per la tutela delle lavoratrici in stato di gravidanza o puerperio v. art. 49 l. 23 dicembre 1999, n. 488 e art. 80 l. 23 dicembre 2000, n. 388. V. inoltre l. 8 marzo 2000, n. 53 e d.lg. 26 marzo 2001, n. 151.

Inquadramento

L'art. 2110 disciplina le più comuni ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro, da precisare nel senso che ciò che, più propriamente, resta sospesa è l'obbligazione lavorativa, continuando il rapporto a produrre effetti giuridici sotto altri profili.

Trattasi di ipotesi che riguardano la persona del lavoratore e trovano un fondamento anche in norme di rango costituzionale (artt. 32, 37 e 38 Cost.).

Tale considerazione fa comprendere come eventi che, secondo la disciplina generale dei contratti, costituirebbero cause di impossibilità sopravvenuta della prestazione, determinano, non la risoluzione del contratto, ma solamente la sospensione dello stesso (in dottrina: Rusciano, 1; Ghera, 149, parla di traslazione sul datore di lavoro del rischio dell'inattività del lavoratore nei casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause fortuite o di forza maggiore attinenti alla persona del lavoratore).

La norma in esame resta quella fondamentale per quanto riguarda la malattia e l'infortunio, mentre per gravidanza e puerperio occorre ormai far riferimento essenzialmente al d.lgs. n. 151/2001.

La malattia

La norma non definisce la malattia.

La dottrina afferma che, in ambito lavoristico, la malattia ha un'accezione più ristretta di quella medica e/o medico-legale generale, comprendendo non ogni alterazione dello stato psico-fisico del lavoratore, ma esclusivamente quelle situazioni nelle quali l'infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale (seppure transitoria) incapacità al lavoro del medesimo (Carinci-De Luca Tamajo-Treu-Tosi, 285; Del Punta, 21; Pandolfo, 142; anche l'opinione tradizionale della giurisprudenza è in tal senso: v. già Cass. n. 2406/1968; successivamente, parlano di impossibilità della prestazione lavorativa, ad esempio, Cass. n. 9968/2005 e Cass. n. 4718/1998). In senso parzialmente diverso è quella dottrina che sottolinea come la valutazione della malattia si sia in realtà distaccata dalla vera e propria impossibilità della prestazione lavorativa, dovendo invece essere qualificata in termini di non compatibilità tra la prestazione lavorativa e le esigenze di recupero o anche di salvaguardia della salute del lavoratore, dovendosi quindi includere in essa anche l'assenza determinata da esigenze terapeutiche non collocabili in un determinato momento, ma neppure differibili all'infinito (Dell'Olio, 1988, 24). Altra parte della dottrina preferisce parlare di inesigibilità (piuttosto che di impossibilità) della prestazione lavorativa (Ichino, 2).

La dottrina sottolinea, pertanto, come numerose infermità che debbono essere considerate come malattie per la scienza medica, sono invece irrilevanti ai fini della norma in esame, non costituendo un impedimento alla normale prestazione: disturbi cardiaci meno gravi, disturbi cronici dell'apparato circolatorio, alle forme più comuni di menomazione della vista, ai disturbi sessuali, ad alcune malattie dentarie (Ichino, 2). Per contro, nulla impedisce alla contrattazione collettiva di prevedere nozioni di malattia più estese (Del Punta, 33).

La dottrina precisa altresì che l'incapacità lavorativa deve essere: concreta, essa perciò deve essere valutata tenendo conto del quadro patologico e del tipo di prestazione al cui adempimento è tenuto il lavoratore (Del Punta, 48); temporanea, così da distinguersi da condizioni di definitiva inidoneità, parziale o totale, al lavoro (Del Punta, 55); attuale e non potenziale, non avendo rilievo il fatto che, continuando l'attività, vi sia il rischio del verificarsi di una successiva incapacità lavorativa (Ichino, 19)

Rientra nel concetto di malattia ex art. 2110 anche la convalescenza, vale a dire l'assenza successiva alla malattia vera e propria, determinata dalla necessità per il lavoratore, ancora del tutto inidoneo alla ripresa dell'attività lavorativa, di un periodo necessario per il recupero della funzionalità e per la totale guarigione clinica (in dottrina: Ichino, 5; in giurisprudenza: Cass. n. 5509/1998).

La dottrina riconduce alla disposizione in esame le ipotesi in cui, pur non sussistendo uno stato di incapacità lavorativa, il lavoratore è portatore sano di una di malattia infettiva, dovendosi ritenere sussistente il diritto-dovere del dipendente di astenersi dalla prestazione (Del Punta, 52).

Dal carattere assoluto del bene protetto è stata tradizionalmente fatta discendere la conseguenza secondo la quale la disciplina dettata dalla norma in esame sia applicabile a prescindere dall'eventuale origine colposa della malattia (v., in dottrina, Del Punta, 96; Ichino, 6; Pandolfo, 95), restando esclusa, dunque, soltanto l'ipotesi della malattia dolosa.

La giurisprudenza ha però accomunato a quest'ultima fattispecie quella dell'evento morboso imputabile alla condotta del lavoratore che scientemente assuma un rischio elettivo particolarmente elevato che supera il livello della «mera eventualità» per raggiungere quello della «altissima probabilità», tenendo un comportamento non improntato ai principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 che debbono presiedere all'esecuzione del contratto e che, nel rapporto di lavoro, fondano l'obbligo in capo al lavoratore subordinato di tenere, in ogni caso, una condotta che non si riveli lesiva dell'interesse del datore di lavoro all'effettiva esecuzione della prestazione lavorativa (Cass. n. 1699/2011).

L'infortunio

L'infortunio si distingue dalla malattia esclusivamente per la causa violenta che ne è all'origine, laddove per causa violenta deve intendersi un agente o fattore esterno idoneo a determinare, con azione rapida ed intensa, una lesione dell'integrità biologica dell'organismo.

La giurisprudenza riconosce che, ai fini della tutela predisposta dall'art. 2110, in base al tenore testuale di detto articolo, l'infortunio sul lavoro è equiparato alla malattia, senza che l'eventuale diversità dei rispettivi sistemi di accertamento sia d'ostacolo ad una loro considerazione unitaria ad opera della contrattazione collettiva ai fini della determinazione del periodo di comporto per sommatoria e senza che in tali termini la menzionata norma dia luogo a dubbi di illegittimità costituzionale (Cass. n. 9968/2005; Cass. n. 9187/1997).

Il diritto a percepire la retribuzione o un'indennità

Nel caso in cui l'insorgenza della malattia ovvero l'infortunio siano collegati causalmente con l'esecuzione della prestazione lavorativa, la tutela economica è predisposta, seppur con limitazioni di tipo soggettivo e oggettivo, dall'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali disciplinata dal d.P.R. n. 1124/1965 e gestita dall'Inail.

L'assicurazione contro le malattie gestita dall'Inps opera invece in caso di malattia (o infortunio) extralavorativo, anche in tal caso con limitazioni.

L'art. 2110 dispone che, in tutti i casi in cui non intervengono forme di previdenza e di assistenza previste dalla legge, il datore di lavoro è obbligato a corrispondere al dipendente la retribuzione o un'indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dai contratti collettivi (così dovendosi ora intendere il rinvio alle norme corporative), dagli usi o secondo equità. Quindi, come precisato dalla giurisprudenza, il trattamento economico è dovuto dal datore di lavoro anche ove manchino disposizioni di legge o di fonte collettiva che consentano al lavoratore di fruirne (Cass., n. 3046/2017). Non può essere previsto però per periodi successivi alla scadenza del rapporto di lavoro a tempo determinato (Cass. n. 19316/2021).

È consolidata l'opinione secondo la quale il trattamento economico di malattia ha natura retributiva (in dottrina: Del Punta, 437; Dell'Olio, 1988, 24; Pandolfo, 323; in giurisprudenza: Cass. n. 5305/1985; Cass. n. 6570/1985).

La concreta determinazione di tale trattamento di malattia è operata di regola dai contratti collettivi, i quali prevedono un obbligo retributivo esclusivo, se la copertura previdenziale manca totalmente (ad esempio, per i soggetti esclusi dall'assicurazione o per i primi tre giorni di carenza assicurativa), ovvero integrativo dell'indennità corrisposta dall'Inps o dall'Inail.

La giurisprudenza nega, anche con riferimento a questo istituto, l'operatività del c.d. principio di onnicomprensività retributiva e, pertanto, riconosce che il trattamento di malattia non debba necessariamente coincidere con l'intera retribuzione (Cass. S.U., n. 1069/1984; Cass. n. 5595/2012).

La dottrina evidenza comunque la necessità di rispettare la regola costituzionale della retribuzione sufficiente (Del Punta, 508).

I contratti collettivi determinano anche la durata del trattamento di malattia e la dottrina ammette che essa può essere inferiore rispetto al periodo di conservazione del posto di lavoro (Del Punta, 527).

Nel caso in cui, poi, la contrattazione collettiva non preveda alcuna disciplina del trattamento economico spettante al lavoratore nel caso di malattia, è necessario fare ricorso, per la determinazione del suddetto trattamento economico, alle ulteriori fonti indicate dall'art. 2110, e cioè agli usi ed all'equità, in modo da contemperare i contrapposti interessi del lavoratore a non rimanere privo di retribuzione mentre è affetto da malattia e del datore di lavoro a non dover pagare l'intera retribuzione senza alcuna controprestazione (Cass. n. 14808/2001; Cass. n. 12146/1995)

Ad avviso della giurisprudenza, nell'ipotesi in cui il datore di lavoro si trovi nell'impossibilità di ricevere la prestazione lavorativa per causa a lui non imputabile (come nel caso di adesione ad uno sciopero da parte della stragrande maggioranza del personale dipendente e di conseguente inutilizzabilità del personale residuo non scioperante), il diritto alla retribuzione non viene meno per quei lavoratori il cui rapporto di lavoro sia già sospeso per malattia ai sensi dell'art. 2110, atteso che la speciale disciplina dettata per ragioni di carattere sociale da tale norma investe in via esclusiva il rapporto tra datore di lavoro e singolo lavoratore, e su di essa non possono pertanto incidere le ragioni che, nel medesimo periodo di sospensione del rapporto, rendano impossibile la prestazione di altri dipendenti in servizio, senza che, peraltro, possa in tal modo configurarsi una violazione del principio di parità di trattamento (Cass. n. 13256/2010; Cass. n. 3691/1998; in precedenza, in senso opposto: Cass. n. 1256/1991; Cass. n. 3529/1984; Cass. n. 3158/1983; Cass. n. 2522/1982).

La dottrina condivide il più recente orientamento della Suprema Corte: Del Punta, 535.

La decorrenza dell'anzianità di servizio

A norma del terzo comma dell'art. 2110, durante la malattia o l'infortunio si ha decorso dell'anzianità di servizio ai fini dei vari diritti per cui essa rileva, siano essi di genesi legale o contrattuale (ad esempio, scatti periodici di anzianità e mensilità aggiuntive).

Gli effetti in questione si estendono a tutti gli istituti per i quali può dirsi rilevante, come presupposto costitutivo, il mero decorso del tempo di servizio; la dottrina precisa tuttavia che, laddove, invece, un dato effetto sia ancorato alla prestazione di un servizio effettivo (come per certe progressioni di carriera), il periodo di malattia non può essere considerato utile (Del Punta, 550).

La giurisprudenza si è consolidata nel senso che, poiché il diritto del lavoratore alle ferie annuali è ricollegabile non solo ad una funzione di corrispettivo dell'attività lavorativa, ma altresì al soddisfacimento di esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore, il quale - a prescindere dalla effettività della prestazione - mediante le ferie può partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e può vedersi tutelato il proprio diritto alla salute nell'interesse dello stesso datore di lavoro, la maturazione di tale diritto non può essere impedita dalla sospensione del rapporto per malattia del lavoratore e che la stessa autonomia privata, nella determinazione della durata delle ferie ex art. 2109, capoverso, trova un limite insuperabile nella necessità di parificare ai periodi di servizio quelli di assenza del lavoratore per malattia (Cass. S.U., n. 14020/2001; Cass. n. 7739/2002).

Il diritto alla conservazione del posto

Il comma 2 dell'art. 2110 stabilisce che il lavoratore malato od infortunato ha diritto di assentarsi e conservare il posto di lavoro per un periodo (cosiddetto di comporto), la cui determinazione è lasciata ad altre fonti, individuate nelle leggi speciali, nei contratti collettivi, negli usi e nell'equità.

Secondo la giurisprudenza, tale tutela si applica anche al lavoratore in prova, con l'ulteriore conseguenza che, in tal caso, il decorso del periodo di prova resta sospeso in coincidenza dell'assenza per malattia (Cass. n. 21698/2001; Cass. n. 12814/1992).

La dottrina nega che invece, che sul lavoratore malato gravi un dovere di assentarsi dal lavoro, precisando tuttavia che, se il malato non vuole astenersi dal lavoro (o vuole rientrare al lavoro prima della scadenza della prognosi), il datore di lavoro (responsabile ex art. 2087) può rifiutarne la prestazione senza essere considerato in mora (Pandolfo, 259).

Il rifiuto del datore di lavoro a ricevere le prestazioni offerte dal lavoratore è invece ingiustificato, con conseguente configurabilità della mora credendi, nel caso in cui il lavoratore che chieda di riprendere anticipatamente l'attività documentando l'intervenuta guarigione ante tempus (Cass. n. 12501/2012).

Sono i contratti collettivi che normalmente determinano la durata del periodo di comporto. Al riguardo, si distingue tra comporto “secco”, relativo ad un unico episodio morboso, e comporto “per sommatoria” relativo a malattie reiterate. In questo secondo caso, il licenziamento è legittimo se intimato quando la somma dei giorni di assenza concernenti le varie malattie registrate entro un certo lasso di tempo (di norma coincidente con quello di durata del contratto collettivo) supera il periodo di comporto.

In difetto di una disciplina pattizia collettiva in tema di comporto per sommatoria, tale periodo è individuato dal giudice secondo equità. In proposito la giurisprudenza è consolidata nel senso che, per il termine interno del comporto per sommatoria (la soglia complessiva di durata delle assenze), si fa riferimento a quello contrattuale del comporto secco (Cass. n. 13374/2003; Cass. n. 14337/2001), e, per quello esterno (l'arco temporale per la sommatoria delle assenze), ad un periodo di tre anni, calcolato a ritroso dalla data del licenziamento (Cass. n. 5613/1997; Cass. n. 7381/1996).

La giurisprudenza precisa comunque che le assenze del lavoratore per malattia non giustificano, tuttavia, il recesso del datore di lavoro ove l'infermità sia comunque imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro, in dipendenza della nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro, che egli abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza o di specifiche norme, incombendo, peraltro, sul lavoratore l'onere di provare il collegamento causale fra la malattia e il carattere morbigeno delle mansioni espletate (Cass. n. 5413/2003) e non è sufficiente che la malattia sia meramente connessa alla prestazione lavorativa (Cass. n. 15972/2017).

In tema di computo del periodo di comporto, la giurisprudenza afferma che, in mancanza di esplicite disposizioni del contratto collettivo in senso diverso, devono essere inclusi nel calcolo anche i giorni festivi (Cass. n. 29317/2008) o comunque non lavorativi (Cass. n. 20106/2014; Cass. n. 13816/2000) che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, operando, in difetto di prova contraria, una presunzione di continuità, in quei giorni, dell'episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell'assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta, e la prova idonea a smentire la suddetta presunzione di continuità può essere costituita soltanto dalla dimostrazione dell'avvenuta ripresa dell'attività lavorativa, atteso che solo il ritorno in servizio rileva come causa di cessazione della sospensione del rapporto, con la conseguenza che i soli giorni che il lavoratore può legittimamente richiedere che non siano conteggiati nel periodo di comporto sono quelli successivi al suo rientro in servizio.

Né, ai fini del computo complessivo del periodo di assenza, possono essere detratti i giorni di ferie ove non sia stata avanzata una espressa domanda da parte del lavoratore per la fruizione del periodo maturato e non goduto (Cass. n. 29317/2008), tanto più nel caso in cui le ferie siano state obbligatoriamente fruite per la chiusura dell'azienda nel periodo feriale collettivo (Cass. n. 15501/2009). In proposito la giurisprudenza afferma che il lavoratore ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, ma è tenuto a formulare la relativa istanza prima della scadenza del comporto (Cass. n. 8834/2017) non esistendo un' incompatibilità assoluta tra ferie e malattia (Cass. n. 5078/2009). Peraltro, la stessa giurisprudenza esclude che, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, costituisca violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nell' esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto (Cass. n. 14891/2006). Così come si ritiene che lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto non può lamentare che il datore di lavoro non l'abbia messo in grado di avvalersi del diritto, previsto dal contratto collettivo, di fruire di un periodo di aspettativa al termine del comporto, dal momento che il datore di lavoro non è tenuto a sollecitare il ricorso all'aspettativa e, d'altra parte, la normativa legale e contrattuale deve essere nota ad entrambe le parti del rapporto (Cass. n. 21385/2004; Cass. n. 13396/2002).

La giurisprudenza appariva consolidata nel senso che, in caso di assenze determinate da malattie — anche discontinue — del lavoratore, il recesso del datore di lavoro si inquadra nello schema previsto (ed è soggetto alle regole dettate) dall'art. 2110, che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, con la conseguenza che, in dipendenza di tale specialità e del contenuto derogatorio delle suddette regole, il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del periodo di comporto e, dall'altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (Cass. n. 1404/2012; Cass. n. 1861/2010; Cass. n. 19676/2005; Cass. n. 5413/2003).

Tuttavia Suprema Corte ha affermato la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente — ed a lui imputabile — in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione e ciò ha ritenuto in un caso in cui le reiterate assenze effettuate dal lavoratore, comunicate all'ultimo momento ed agganciate ai giorni di riposo, determinavano uno scarso rendimento ed una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale (Cass. n. 18678/2014). In questa maniera i giudici di legittimità sembrano in qualche maniera ricollegarsi al risalente indirizzo che qualificava l'eccessiva morbilità come giustificato motivo oggettivo di licenziamento, prima che, con una serie di pronunce del 1980, le Sezioni Unite affermassero il principio, destinato ad essere costantemente seguito da tutta la giurisprudenza successiva, secondo il quale anche l'art. 2110 di applica anche al caso del susseguirsi di più malattie discontinue (Cass. S.U., n. 2072/1980; Cass. S.U., n. 2074/1980).

Ancor più di recente, seppure con specifico riguardo alla particolare disciplina dell'esonero definitivo dal servizio del personale autoferrotranviario, che prevede l'ipotesi dello scarso rendimento come diversa e separata da quella concernente la malattia che determini inabilità al servizio, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito che, in sede di valutazione del comportamento del lavoratore, non possa tenersi conto, oltre che delle diminuzioni di rendimento determinate da imperizia, incapacità, negligenza, anche di quelle determinate da assenze per malattia, non caratterizzate da colpa, le quali possono rilevare solo nell'ambito di una diversa previsione e delle correlative speciali modalità di adozione del provvedimento di esonero (Cass. n. 16472/2015).

Il licenziamento intimato in pendenza del comporto

In pendenza del periodo di comporto il lavoratore non può essere licenziato, non soltanto per cause connesse con lo stato di malattia, ma neppure per qualsiasi altro motivo, ad eccezione dei casi qualificabili come giusta causa di licenziamento. Non si tratta, quindi, di una mera ipotesi di esonero dalla responsabilità per il mancato adempimento della prestazione lavorativa, ma anche di un divieto temporaneo di recesso, pur in presenza dei motivi (con l'eccezione della giusta causa) che consentono il valido esercizio del potere di licenziamento.

Circa la possibilità per il datore di lavoro di licenziare validamente il dipendente assente per malattia anche in pendenza del periodo di comporto, v., in giurisprudenza, Cass. n. 12481/2003; Cass. n. 10881/2001.

In dottrina, nel senso della validità del licenziamento intimato per giusta causa durante il periodo di comporto, v. Dell'Olio, 1988, 26; Del Punta, 370.

In particolare, ad avviso della giurisprudenza, costituisce giusta causa di licenziamento lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolente simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l'attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore (Cass. n. 1765/2014; Cass. n. 21253/2012; Cass. n. 14046/2005). La stessa giurisprudenza in alcune occasioni ha ritenuto che possa costituire giusta causa di licenziamento la violazione, da parte del lavoratore, dell'obbligo di rendersi disponibile all'esecuzione delle visite di controllo durante le fasce orarie previste dalla legge (Cass. n. 3226/2008 e Cass. n. 27104/2006; in senso contrario, Cass. n. 5671/2012).

Ad avviso della dottrina, costituisce giusta causa di recesso validamente intimato durante il periodo di assenza per malattia la cessazione di attività dell'impresa (Del Punta, 371).

Il licenziamento adottato in pendenza di comporto e determinato dallo stato di malattia è nullo per violazione di norma imperativa (in giurisprudenza: Cass. n. 24525/2014; Cass. n. 12031/1999; Cass. 9869/1991; in dottrina: Del Punta, 366).

Circa le conseguenze di tale vizio, occorre distinguere tra lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, ai quali si applica l'art. 18 l. n. 300/1970 ovvero (in difetto dei prescritti requisiti dimensionali) l'art. 8 l. 15 n. 604/1966 e i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ai quali si applica il d. lgs. n. 23/2015.

Per quel che riguarda i primi, se destinatari dell'art. 18 l. n. 300/1970, occorre far riferimento al comma 5 di tale norma che prescrive la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità fino ad un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto in caso di licenziamento intimato «in violazione dell'art. 2110, secondo comma, del codice civile».

La dottrina (Sordi, 297) ritiene che i casi di illegittimità del licenziamento che rientrano nell'ambito di operatività della norma sono quelli nei quali il recesso datoriale sia stato adottato prima della scadenza del periodo durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto; ciò sia perché il numero di giorni di assenza fatti registrare dal dipendente sia inferiore rispetto al periodo di comporto, sia perché, pur essendo superiore, la malattia che ha determinato tutto o una parte del periodo di assenza sia imputabile alla violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di tutela della salute dei propri dipendenti di cui all'art. 2087 e, quindi, non sia computabile ai fini dell'art. 2110; deve ritenersi rientrante nell'ipotesi in questione (con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata) anche il caso in cui il datore di lavoro non abbia illegittimamente concesso un periodo di ferie o di aspettativa chiesto dal dipendente al fine di evitare il superamento del periodo di comporto, poiché anche queste sono ipotesi qualificabili come licenziamenti intimati «in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile»; estraneo alla previsione in esame è invece il licenziamento intimato per giustificato motivo durante il periodo di assenza per malattia e, pertanto, temporaneamente inefficace (v. infra).

Per quanto riguarda i lavoratori (assunti prima del 7 marzo 2015) ai quali non si applica l'art. 18 l. n. 300/1970, la giurisprudenza ritiene che, in caso di licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto per motivi attinenti allo stato di malattia, si applichi la tutela generale del codice civile e non l'art. 8 della l. n. 604/1966 (Cass. n. 19661/2019).

Passando ai lavoratori il cui rapporto sia soggetto alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 23/2015, la dottrina ha espresso l'avviso secondo cui il licenziamento in questione, dovendo essere qualificato come nullo perché adottato in violazione di una norma imperativa, rientrerebbe nel campo di applicazione dell'art. 2, comma 1, del predetto d.lgs. n. 23/2015, che consente la tutela reintegratoria nei casi di nullità espressamente previsti dalla legge (Fiorillo, 112).

Invece, sia per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, sia per quelli assunti dopo il 6 marzo 2015, ad avviso della dottrina (Sordi, 297), deve ritenersi che mantenga validità la pregressa opinione espressa dalle prevalenti giurisprudenza (Cass. n. 23063/2013; Cass. n. 9037/2001; Cass. n. 1657/1993) e dottrina (Dell'Olio, 1988, 26; Del Punta, 367), secondo cui il licenziamento intimato, sempre in pendenza di comporto, ma per ragioni estranee allo stato di malattia (e non qualificabili come giusta causa di recesso) è solamente temporaneamente inefficace sino al termine della malattia.

La giurisprudenza ha fatto applicazione di tale principio anche nel caso di licenziamento collettivo conseguente a cessazione di attività (Cass. n. 15643/2005).

Il licenziamento per superamento del comporto

In tema di licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, la giurisprudenza afferma che opera ugualmente il criterio della tempestività del recesso, sebbene, difettando gli estremi dell'urgenza che si impongono nell'ipotesi di giusta causa, la valutazione del tempo decorso fra la data di detto superamento e quella del licenziamento - al fine di stabilire se la durata di esso sia tale da risultare oggettivamente incompatibile con la volontà di porre fine al rapporto - vada condotta con criteri di minor rigore che tengano conto di tutte le circostanze all'uopo significative, così da contemperare da un lato l'esigenza del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale e, dall'altro, quella del datore di lavoro al vaglio della gravità di tale comportamento, soprattutto con riferimento alla sua compatibilità o meno con la continuazione del rapporto (Cass. n. 1438/2008; Cass. n. 7047/2003). Ne consegue che il giudizio sulla tempestività, o meno, del recesso non può conseguire alla rigida e meccanica applicazione di criteri temporali prestabiliti, ma va condizionato, invece, ad una compiuta considerazione di ogni significativa circostanza idonea a incidere sulla valutazione datoriale circa la sostenibilità, o meno, delle assenze del lavoratore in rapporto con le esigenze dell'impresa, in un'ottica delle relazioni aziendali improntata ai canoni della reciproca lealtà e della buona fede, che comprendono, fra l'altro, la possibilità, rimessa alla valutazione dello stesso imprenditore nell'ambito delle funzioni e delle garanzie di cui all'art. 41 Cost., di conservazione del posto di lavoro anche oltre il periodo di tutela predeterminato dalle parti collettive, compatibilmente con le esigenze di funzionamento dell'impresa (Cass. n. 7037/2011; Cass. n. 23920/2010). Occorre quindi procedere ad una valutazione caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative; così, è stato ritenuto il decorso del termine di quattro anni dal superamento del periodo di comporto non ostativo al legittimo recesso del datore di lavoro, perché avvenuto nella immediatezza della sentenza di primo grado dichiarativa della nullità di un precedente licenziamento intimato alla lavoratrice (Cass. n. 19400/2014). In un'altra occasione, invece, la concessione al lavoratore di un congedo parentale, dopo il superamento del periodo di comporto è stata ritenuta incompatibile con la volontà di rescindere il rapporto (Cass. n. 1438/2008).

In dottrina, nel senso che condizione di legittimità del licenziamento per superamento del comporto, sia la persistenza della situazione di assenza per malattia: Del Punta, 383; Pandolfo, 304. In senso radicalmente contrario, Dell'Olio, 1988, 26, che ritiene legittimo tale recesso datoriale pur dopo il rientro in servizio del lavoratore.

Bibliografia

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