Riflessioni in tema di standard probatorio nella bancarotta distrattiva

Andrea Mereu
06 Settembre 2016

L'autore esamina le problematiche più ricorrenti in tema di prova nel delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione. Particolare attenzione è dedicata al peculiare meccanismo di prova indiziaria ex art. 192 c.p.p., secondo il quale, dalla presenza di una prova ragionevolmente certa di ingresso dei beni nel patrimonio del fallito, deriva l'onere per l'imprenditore individuale o per l'amministratore di fornire una spiegazione plausibile circa la legittima destinazione data ai cespiti, potendosene in difetto presumere la distrazione.

L'autore ha esaminato le problematiche più ricorrenti in tema di prova nel delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione. Particolare attenzione è stata dedicata al peculiare meccanismo di prova indiziaria ex art. 192 c.p.p. applicato dalla giurisprudenza, la quale, dalla presenza di una prova ragionevolmente certa di ingresso dei beni nel patrimonio del fallito, fa derivare l'onere per l'imprenditore individuale o per l'amministratore di fornire una spiegazione plausibile circa la legittima destinazione data ai cespiti, potendosene in difetto presumere la distrazione, in forza di una presunzione iuris tantum che trova fondamento normativo nella destinazione giuridica dei beni alla soddisfazione delle obbligazioni contratte dal debitore (art. 2740 c.c.), nonché nell'obbligo di verità del fallito circa la destinazione dei beni dell'impresa al momento dell'interpello formulato dal curatore ai sensi dell'art. 87, comma 3, l. fall. Particolare approfondimento è stato inoltre dedicato alle modalità concrete e alle tecniche di accertamento della distrazione (come la verifica della disponibilità dei beni in capo al fallito tramite le emergenze dello stato passivo del fallimento), anche con riguardo all'ipotesi – particolarmente complessa e delicata – del c.d. disavanzo ingiustificato.

Il mancato reperimento, dopo la dichiarazione di fallimento, dei beni del fallito prima risultanti nella sua disponibilità pone il problema di stabilire i criteri sulla cui base dedurre se egli abbia posto in essere o meno il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha in più occasioni affermato che "La responsabilità per il delitto di bancarotta per distrazione, ascrivibile all'imprenditore fallito, richiede l'accertamento della previa disponibilità, da parte di quest'ultimo, dei beni dell'impresa, accertamento che non è condizionato da alcun onere di dimostrazione in capo al fallito né da alcuna presunzione, con la conseguenza che il giudice - ancorché le scritture di impresa costituiscano prova, ex art. 2710 cod. civ., nei riguardi dell'imprenditore - deve valutare, anche nel silenzio del fallito, l'attendibilità dell'annotazione contabile e dare congrua motivazione ove questa non sia apprezzabile per l'intrinseco dato oggettivo" (in tal senso cfr., ex plurimis, Cass. pen., n. 40726/2006; Cass. pen., n. 22787/2010; Cass. pen., n. 35882/2010; Cass. pen., n. 7588/2011; Cass. pen., n. 52219/2014).

In particolare si è precisato che "Ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta per distrazione (art. 216, comma primo, n. 1 L.F.) è necessario che siano sottratti alla garanzia dei creditori cespiti attivi effettivi e, pertanto, sicuramente esistenti. Ne consegue che, se detta esistenza è dubbia, in quanto attestata solo da scritturazioni contabili fittizie effettuate per occultare lo stato di decozione o per altre ragioni, non può ritenersi integrata la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 216, comma primo, n. 1 L.F." (Cass. pen., n. 3615/2006).

Per quanto riguarda le tecniche di accertamento del reato de quo occorre distinguere due situazioni:

a) vi è prova certa e diretta della sottrazione del bene individuato;

b) non vi è prova diretta della sottrazione, ma esclusivamente dell'esistenza di un ammanco (c.d. ingiustificato disavanzo).

Con riferimento a quest'ultima fattispecie si è affermato correttamente che "La prova dei fatti di distrazione, integranti il reato di bancarotta fraudolenta (art. 216 l. fall.), richiede che si accertino e si indichino i beni non rinvenuti all'atto del fallimento o di cui si ignori la destinazione; pertanto, essa non può essere desunta dall'accertamento del passivo, giacché, in tal caso, il reato di bancarotta fraudolenta sarebbe ravvisabile in ogni ipotesi di fallimento" (Cass. pen., n. 42382/2004), atteso che "non è consentito al giudice trarre il proprio convincimento dalla sola presenza di un disavanzo in un dato momento dell'esistenza dell'azienda successivamente fallita, in ordine all'avvenuta consumazione del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, occorrendo, invece, accertare che l'eccedenza passiva costituisca la conseguenza del venir meno di beni determinati, dei quali sia nota l'esistenza in un momento anteriore alla formazione del deficit" (Cass. pen., n. 39942/2008).

In sostanza deve ritenersi insufficiente l'esistenza del solo divario tra attivo e passivo al fine di provare la distrazione, occorrendo necessariamente accertare che quel disavanzo si sia formato a causa del venir meno di determinati beni, dei quali sia comprovata l'esistenza in data anteriore al momento della formazione del deficit.

Appare doveroso ribadire che il concetto di disavanzo aziendale ingiustificato, idoneo ad assumere rilevanza penale sub specie di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, non ha nulla a che vedere, come si è visto, con il divario tra passivo ed attivo fallimentare. Il passivo fallimentare, infatti, può essere costituito anche da debiti non generati da fatti di diminuzione patrimoniale penalmente rilevanti. Invece, il disavanzo ingiustificato, a cui fa riferimento la giurisprudenza, è costituito solo dal cumulo dei valori patrimoniali di cui siano state stabilite con certezza esistenza e successiva scomparsa. Inoltre, il reato sussiste anche in presenza di un divario consistente tra la massa attiva e quella parte della massa passiva che non trova adeguata giustificazione nelle necessità economiche dell'impresa o non ne trova alcuna. In tal caso, assume rilevanza penale non la differenza tra attivo e passivo, ma la differenza tra quanto è disponibile per il riparto e quanto sarebbe stato disponibile se tutte le evenienze attive, residuate dall'esercizio dell'impresa, avessero ricevuto una legittima destinazione. In questo caso rileva l'entità della massa passiva non giustificata che rappresenta, infatti, un'attività patrimoniale omessa nella massa attiva.

In sostanza, si afferma che ciò che non trova una spiegazione ragionevole, all'interno dello sbilancio fallimentare, tra impieghi e attività, viene addebitato all'imprenditore come ricchezza distratta: trattandosi in questo caso di individuazione in termini quantitativi è evidente che in questi casi la contestazione accusatoria sarà priva di una specifica descrizione dei beni sottratti, vertendo l'addebito sulla considerazione che le risultanze attive (a valori di costo) non pareggiano con quelle passive, detratte le pendenze conseguenti alla normale gestione dell'impresa (c.d. gestione caratteristica), il che è come dire che il divario tra attivo e passivo risulta privo di oggettiva spiegazione rapportato alla dinamica dell'organismo fallito, sulla base delle conoscenze dedotte agli atti.

Risulta pertanto decisivo individuare le modalità di acquisizione della prova dell'ingresso dei beni nel patrimonio del fallito: a questo riguardo, nelle ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolare tenuta della contabilità aziendale, il P.M. potrà, ad esempio, acquisire le fatture dei fornitori e/o i relativi documenti di trasporto, oppure rifarsi alle risultanze dello stato passivo cristallizzato nella procedura fallimentare. Nelle ipotesi di mancato rinvenimento dei libri e delle scritture contabili è dunque opportuno non accontentarsi di provare l'ingresso dei beni nel patrimonio del fallito tramite l'iscrizione dei beni nell'attivo patrimoniale dell'ultimo bilancio sociale depositato, soprattutto se l'ultimo bilancio è risalente nel tempo rispetto alla dichiarazione di fallimento, e procedere all'acquisizione degli ulteriori riscontri sopra indicati.

La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha costantemente affermato che, una volta raggiunta la ragionevole certezza dell'ingresso dei beni nel patrimonio del fallito, in assenza di prova della legittima destinazione dei beni da parte dell'amministratore se ne deve presumere la distrazione; non si tratta di inversione dell'onere della prova, bensì di prova indiziaria ex art. 192, comma 2, c.p.p.

Quindi, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione occorre provare che i beni ipotizzati come distratti siano entrati nella disponibilità dell'amministratore (c.d. input) e solo a quel punto – se l'autore del fatto non provi, anche per il tramite di una plausibile allegazione, di avervi dato legittima destinazione (c.d. output) – se ne può presumere la distrazione. Naturalmente, sarà opportuno che il P.M. verifichi altresì, tramite l'acquisizione del programma di liquidazione (predisposto dal curatore e approvato dal comitato dei creditori), che i beni ipotizzati come distratti, non rinvenuti in sede di inventario, non siano stati acquisiti successivamente alla massa attiva del fallimento.

In sostanza è pacifico il predetto principio in punto di onere della prova della distrazione, affermandosi che il fallito ha l'obbligo di dimostrare la destinazione dei beni dei quali sia certa la preesistenza nel suo patrimonio e che non siano stati rinvenuti all'atto della redazione dell'inventario dopo la dichiarazione di fallimento.

Si tratta di un meccanismo presuntivo di prova indiziaria del tutto legittimo, che trova precipuo fondamento giuridico: a) nella destinazione giuridica dei beni alla soddisfazione delle obbligazioni contratte dal debitore (art. 2740 c.c., secondo cui "il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri"); b) nell'obbligo di verità del fallito circa la destinazione dei beni dell'impresa al momento dell'interpello formulato dal curatore ai sensi dell'art. 87, comma 3, l. fall.

Al riguardo deve infatti ricordarsi che sia l'imprenditore individuale che gli amministratori di una società dichiarata fallita hanno l'obbligo di fornire la dimostrazione della destinazione data ai beni acquisiti al patrimonio, in quanto la destinazione legale dei beni del debitore all'adempimento delle obbligazioni contratte comporta una limitazione della libertà di utilizzare gli stessi; onde, dalla mancata dimostrazione può essere desunta la prova della distrazione o dell'occultamento. L'art. 87, comma 3, l. fall., d'altra parte, assegna al fallito un obbligo di verità circa la destinazione dei beni d'impresa al momento dell'interpello formulato dal curatore al riguardo, con espresso richiamo alla sanzione penale. Ne consegue che le attività di cui all'art. 216, comma 1, n. 1, l. fall. hanno anche (diretto) riferimento alla condotta infedele o sleale del fallito nel contesto dell'interpello. Tali osservazioni giustificano "l'apparente" inversione dell'onere della prova ascritta al fallito nel caso di mancato rinvenimento di cespiti da parte della procedura in assenza di giustificazioni al proposito.

Nonostante la giurisprudenza affermi che la suddetta presunzione opera come prova indiziaria ai sensi dell'art. 192 c.p.p. e che dunque la stessa può essere posta nel nulla laddove l'imputato alleghi fatti e circostanze di segno contrario, è opportuno ricordare come la dottrina tradizionale contrasti tale impostazione, evidenziando come, nonostante le esplicite negazioni della giurisprudenza, ci si trovi di fronte ad una vera e propria inversione, non consentita, dell'onere della prova. In particolare la dottrina ha fatto riferimento all'ipotesi, invero non infrequente, dell'imprenditore che non sia in grado per mero disordine amministrativo, ovvero per negligenza dei collaboratori, di dimostrare la effettiva destinazione dei beni in conformità agli scopi sociali (Pedrazzi, in Pedrazzi-Sgubbi, Reati commessi dal fallito - Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, Galgano (a cura di), Zanichelli, 1995, ora in Id., Diritto penale, vol. IV, Scritti di diritto penale dell'economia, Giuffrè, 2003, 518 s.; Antolisei, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, vol. II, XI ed. (aggiornata e integrata da Conti), Giuffrè, 2001, 72 s.).

Al fine di poter acquisire elementi probatori circa la sussistenza di eventuali distrazioni penalmente rilevanti da parte del fallito, è fondamentale per il P.M. (nonchè per il giudice del dibattimento) il patrimonio informativo contenuto nella relazione ex art. 33 l. fall. predisposta dal curatore fallimentare.

Spesso, infatti, il dissesto dell'impresa si accompagna al mancato rinvenimento delle scritture contabili o, quantomeno, ad una contabilità incompleta o tenuta irregolarmente: in questi casi è di fondamentale importanza, al fine di un proficuo esercizio dell'azione penale, che il curatore possieda una sorta di "abilità investigativa" nel ricostruire – anche attingendo a fonti esterne – le vicende economiche e gestionali dell'impresa (svolta in forma individuale o societaria). L'operato del curatore fallimentare dovrà poi essere adeguatamente supportato dai penetranti strumenti investigativi di cui dispone l'ufficio del P.M., il quale potrà, se necessario, procedere ad acquisizione di documenti (ad esempio gli estratti dei conti correnti della società), sequestri e intercettazioni.

In contesti di contabilità mancante o alterata occorre verificare se il fallito dovrà rispondere semplicemente di bancarotta fraudolenta documentale, laddove la condotta sia idonea ad arrecare un effettivo pregiudizio per la ricostruzione dell'andamento contabile dell'impresa, oppure se sussistano anche distrazioni di beni penalmente rilevanti ed eventualmente, in caso di falsificazioni del bilancio della società penalmente illecite, se sia configurabile anche la bancarotta societaria ex art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. Ad esempio sarà necessario accertare se la condotta dell'amministratore è tesa semplicemente a sopravvalutare le poste attive del bilancio per mascherare perdite (es. sopravvalutazione delle rimanenze o dei crediti) o se si è in presenza di una effettiva distrazione delle rimanenze di magazzino non rinvenute (ed effettivamente esistenti) o degli utili falsamente rappresentati tramite la sopravvalutazione di poste dell'attivo.

Per questo motivo è opportuno che, in presenza di scenari suscettibili di supportare una pluralità di contestazioni accusatorie, il P.M. proceda ad una contestazione cumulativa delle diverse fattispecie incriminatrici o, se del caso, ad una contestazione alternativa, la cui legittimità è da sempre indiscussa in giurisprudenza (in tal senso cfr., tra le tante, Cass. pen., n. 2112/2008; Cass. pen., n. 51252/2014).

Con riferimento all'individuazione dell'attivo distratto (e quindi della condotta distrattiva), nella prassi la frequente mancanza o incompletezza della contabilità aziendale comporta la necessità di accertamenti complessi. Per esempio, in alcuni casi si è giunti ad individuare l'attivo distratto tramite la ricostruzione dei costi sostenuti dall'impresa: in sostanza si è proceduto all'individuazione dei ricavi distratti tramite ricostruzione della struttura dei costi dell'impresa, come l'energia elettrica per un'attività industriale, o il costo della materia prima acquistata (c.d. costo del venduto).

Appare pertanto evidente che "per sapere quando un'azione è concretamente distrattiva (ovvero non funzionale all'esercizio di impresa) occorre un sapere tecnico che non può che essere compiuto sul piano delle scienze economico aziendali" (Peretoli, Considerazioni in tema di prova nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, in Giur. it., 2002, I, 160 ss.), posto che "Quando (...) il sostrato fenomenico della vicenda si colloca su un terreno più marcatamente tecnico, le medesime operazioni di percezione, selezione, organizzazione ed interpretazione dei dati possono divenire assai più problematiche" (Rordorf, L'efficienza della prova scientifica nella ricostruzione del fatto: le analisi di bilancio e le verifiche contabili, Relazione all'incontro di studio «Ricostruzione del fatto e prova scientifica», C.S.M., Roma, 11-13 giugno 2001, 2.).

Nell'ambito delle problematiche in tema di prova della bancarotta fraudolenta per distrazione è altresì importante menzionare la questione della utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal fallito al curatore fallimentare. Al riguardo si è condivisibilmente affermato da un lato che "Le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono soggette alla disciplina di cui all'art. 63, comma secondo, cod. proc. pen., in quanto il curatore non appartiene alle categorie indicate da detta norma e la sua attività non può considerarsi ispettiva o di vigilanza ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 220 disp. coord. cod. proc. pen. (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittima la testimonianza del curatore che riferiva quanto dichiaratogli dal fallito in sede di procedura fallimentare)" (Cass. pen., n. n. 46422/2013; nello stesso senso cfr., ex plurimis, Cass. pen., n. 13285/2013; Cass. pen., n. 36593/2008; Corte cost., n. 136/1995) e dall'altro lato che "Le dichiarazioni assunte dal curatore fallimentare e trasfuse nella relazione redatta ai sensi dell'art. 33 l. fall., se rese da un indagato o da un imputato di reato connesso o collegato nel medesimo procedimento o in separato procedimento, devono essere valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità, ai sensi dell'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen." (Cass. pen., n. 46422/2015; Cass. pen., n. 4164/2015; Cass. pen., n. 32388/2015).

Estratto della relazione tenuta al VI Seminario dei G.D. e dei P.M. sulle procedure concorsuali, Venezia – Isola di San Servolo, 20-21-22 maggio 2016

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