Sul rapporto tra preconcordato e istruttoria prefallimentare

Stefano Mecca
12 Settembre 2016

Il diverso segno delle due decisioni prese dalla Corte d'Appello di Brescia, con provvedimenti del luglio 2015, nella medesima vicenda su questioni solo apparentemente eterogenee, conferma la necessità di un adeguato approfondimento sistematico del nuovo istituto del preconcordato, nel suo rapporto con l'istruttoria prefallimentare.
Premessa

Con due decisioni rese nello stesso giorno e nella medesima composizione collegiale (Corte d'Appello di Brescia, 15 luglio 2015, decr., e Corte d'Appello di Brescia, 15 luglio-8 agosto 2015, sent.), la Corte d'Appello di Brescia ha affrontato questioni concorsuali afferenti la medesima società.

Con decreto del 18-15 marzo 2015 il Tribunale di Brescia aveva ritenuto inammissibile l'istanza di concordato con riserva presentata da una società in nome collettivo, dichiarando con sentenza in pari data il fallimento della medesima società e dei soci illimitatamente responsabili.

La società fallita, pertanto, reclamava tanto la sentenza di fallimento, quanto il decreto di inammissibilità della domanda di preconcordato.

Con decreto la Corte ha ritenuto inammissibile il reclamo promosso contro il decreto e con sentenza ha rigettato nel merito il reclamo contro la sentenza di fallimento. Quest'ultimo mezzo di impugnazione era in parte basato sulle medesime doglianze contro la ritenuta inammissibilità della domanda di concordato in bianco, oltre che su ulteriori motivi, tra i quali, in particolare, la mancata regolare notifica e convocazione dei soci illimitatamente responsabili nell'istruttoria prefallimentare.

La complessa vicenda, pur toccando svariate questioni di natura sostanziale e processuale, evidenzia l'importanza di un adeguato approccio sistematico, con particolare riferimento al rapporto tra il procedimento per la dichiarazione di fallimento e il c.d. preconcordato, e i rispettivi presupposti sostanziali.

La mancata considerazione dello sfondo sistematico rende conto dell'impressione di una sostanziale disarmonia tra le decisioni rese sulle diverse questioni in gioco.

Sulle produzioni documentali obbligatorie contestuali alla domanda di c.d. concordato in bianco

La Corte bresciana conferma la decisione di primae curae in punto di inammissibilità della domanda di concordato con riserva non accompagnata dalla produzione degli ultimi bilanci sulla base di due motivazioni ben distinte.

In primo luogo (“per un verso”), la Corte richiama il tenore letterale dell'art. 161, comma 6, primo periodo, l. fall. (la domanda di concordato in bianco va depositata “unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi”), ritenendo che esso oneri l'istante di effettuare tale produzione “in ogni caso”. Con ciò la Corte non ritiene possibile eludere “l'insuperabile dato letterale” con opzioni esegetiche alternative, che - valorizzando il dato storico, sistematico - permettano di rendere conto delle peculiarità soggettive od oggettive di ciascuna fattispecie concreta. Si pensi solo al caso in cui l'istanza sia presentata prima dell'approvazione del bilancio relativo all'esercizio precedente: se si mantenesse fermo il tenore letterale della norma non si dovrebbe consentire la produzione di una situazione patrimoniale aggiornata (in senso contrario, tra altri, Trib. Cassino 31 luglio 2014, secondo il quale “in tema di concordato preventivo ex art. 161, comma 6, l. fall., l'omessa produzione dell'ultimo bilancio non comporta l'inammissibilità del ricorso di concordato se a quella data non era stato ancora approvato ai sensi degli artt. 2364 e 2478-bis c.c. e dello statuto, purché il debitore abbia prodotto una situazione patrimoniale aggiornata per permettere al Tribunale un giudizio sulla concessione del termine di cui all'art. 161, comma 6, l. fall. per depositare la proposta di concordato ed il piano”).

In secondo luogo (“per l'altro verso”), la Corte, dopo avere affermato di ritenere “in ogni caso” sufficiente il dettato della norma fallimentare, non si esime dallo svolgere alcune considerazioni di carattere extra-testuale. Tali considerazioni, tuttavia, non riguardano la fattispecie disciplinata dal richiamato primo periodo del comma 6 dell'art. 161 l. fall., il quale fissa i requisiti di ammissibilità della domanda di c.d. concordato in bianco; invero, le considerazioni svolte dalla Corte sembrano non voler riguardare tale particolare procedimento: esse riguardano, in generale, i presupposti richiesti “ai fini della ammissione al concordato preventivo e della omologazione del concordato medesimo”.

Secondo la Corte, il buon esito del procedimento presuppone il requisito della “regolare contabilità”, da intendersi “sia in senso formale che in senso sostanziale”. Sotto il primo aspetto, rileverebbe l'art. 2214 c.c., il quale, anche in caso di c.d. contabilità semplificata, rende obbligatoria la redazione dell'inventario annuale che, giusta l'art. 2217 c.c., si chiude con il bilancio. Sotto l'aspetto sostanziale, si richiede che sia offerta al Tribunale una “attendibile ricostruzione del giro d'affari dell'impresa nell'ultimo biennio”, così da verificare l'effettiva evoluzione economico-patrimoniale e l'assetto delle pretese creditorie.

Il secondo argomento impiegato dalla Corte sembra essere inconferente, non essendo in alcun modo riferito ai requisiti documentali di ammissibilità della domanda di concordato in bianco disciplinati dall'art. 161, comma 6, primo periodo, l. fall., norma che nella sentenza in commento rimane “inchiodata” al suo tenore letterale. L'esito dell'argomentazione, che sembra disancorata da un referente normativo, potrebbe risultare censurabile anche sotto il profilo della legittimità costituzionale.

Essa, come si vedrà, porta infatti a concludere che l'accesso al concordato in bianco (anzi, al concordato preventivo tout court) sarebbe precluso a tutti gli imprenditori in regime di contabilità semplificata, seppure commerciali ed astrattamente fallibili, quali sono tipicamente gli imprenditori individuali e le società di persone che si avvalgano di tale regime.

Per evitare tali approdi, giova delineare un percorso interpretativo più lineare, che risponda al concreto quid iuris (l'ammissibilità di una domanda di concordato in bianco non accompagnata dalla produzione dei bilanci) partendo dagli specifici referenti normativi e, sulla base di una lettura non limitata al mero dato letterale, si apra all'orizzonte sistematico.

Procedendo con ordine dal dato legislativo, deve ricordarsi che quando il legislatore disciplinò per la prima volta il c.d. concordato in bianco (D.L. n. 83/2012) non previde che la relativa istanza fosse corredata da alcun documento, introducendo solo successivamente l'onere di depositare i bilanci (L. n. 134/2012 di conversione del D.L. n. 83/2012) e quindi (D.L. n. 69/2013) anche l'elenco nominativo dei creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti. D'altra parte, fin dalla novella di cui al D.L. n. 35/2005, in sede di concordato preventivo è venuto meno l'obbligo di produrre le scritture contabili in relazione al venir meno dell'obbligo del Tribunale di verificarne la regolare tenuta. Di talché “l'esigenza di verificare la veridicità delle registrazioni contabili e di ricostruire le movimentazioni patrimoniali dell'impresa è attualmente soddisfatta dalla relazione prevista dal comma 3” (così per tutti, A. Audino, Art. 161, in Comm. Maffei Alberti, Padova, 2013, 1079). L'onere di produrre le scritture contabili è oggi al più configurabile solo successivamente all'ammissione e ai meri fini della registrazione di cui all'art. 170 l. fall.

Tali dati storici potrebbero portare ad escludere che gli oneri di produzione in esame siano intrinseci al procedimento concordatario, come parrebbe invece ritenere la Corte bresciana.

Ciò precisato, giova chiedersi quale sia la specifica ratio sottesa all'onere di produzione dei “bilanci relativi agli ultimi tre esercizi”.

Pressoché tutti i commentatori hanno ricercato lo scopo della norma confrontandosi con le elaborazioni di dottrina, giurisprudenza e prassi relative ad analoghe previsioni legislative introdotte in precedenza nella medesima materia.

Il principale riferimento in tal senso è rappresentato dall'art. 15, comma 7, l. fall., il quale, disciplinando l'istruttoria pre-fallimentare, statuisce che “in ogni caso, il Tribunale dispone che l'imprenditore depositi i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, nonché una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata”.

Tale previsione è stata introdotta dal legislatore contestualmente agli attuali parametri di fallibilità di cui all'art. 1 l. fall. Di talché è pacifico che l'obbligo di deposito dei bilanci risponde “proprio allo scopo di conformare la produzione documentale ai requisiti di (non fallibilità) indicati nel comma 2 dell'art. 1” (così R. Tiscini, L'istruttoria prefallimentare, in A. Jorio- B. Bassani (a cura di), Trattato delle procedure concorsuali, vol. I, Milano 2014, 510, nota 271. Nello stesso senso M. Ferro, Art. 15, in M. Ferro (a cura di), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, Padova, 2011, 197), secondo un orientamento confermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 9439/2015).

Ai fini della prova del (mancato) raggiungimento della soglia di fallibilità, l'opinione prevalente, nel caso di società di persone assoggettate alla contabilità semplificata ex art. 18 D.P.R. 600/1972, ritiene che “le imprese individuali e le società di persone non tenute al deposito dei bilanci possono assolvere l'onere probatorio che su di esse grava mediante la produzione di documenti che nella sostanza ai bilanci equivalgano, in quanto idonei a fornire una chiara, trasparente, completa e intellegibile rappresentazione della situazione economica, finanziaria e contabile dell'impresa” (A. Venturelli, Art. 1, in Comm. Maffei Alberti, Padova, 2013, 22. Si vedano anche L. Mandrioli, Presupposti per la dichiarazione di fallimento, in A. Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, Torino, 2009, 72; M. Sandulli, Le “dimensioni” dell'imprenditore in A. Caiafa (a cura di), Le procedure concorsuali, Padova, 2011, 10. Più critica la posizione di E. Stasi, Aspetti problematici sulle soglie di non fallibilità, in Fallimento, 2012, 1448 ss.).

E' infatti pacifico che dalle dichiarazioni dei redditi, IVA ed IRAP si desumono, fra l'altro, i ricavi, il volume d'affari, ovvero le componenti del conto economico. Il registro IVA, d'altra parte, contiene anche l'annotazione di operazioni non rilevanti ai fini dell'IVA, compresi ratei, risconti, plusvalenze e sopravvenienze attive, ammortamenti, accantonamenti, rimanenze di magazzino etc. (come previsto dal D.M. 2 maggio 1989). Dalla documentazione fin qui descritta esulano unicamente i movimenti finanziari, che potrebbero desumersi da una situazione finanziaria-patrimoniale particolareggiata dell'attivo e del passivo, eventualmente supportata dalla produzione degli estratti conto bancari.

Tali prassi sono state approvate dalla giurisprudenza di merito ormai consolidata (Trib. Piacenza 22 gennaio 2007; Trib. Napoli 21 aprile 2010; App. Torino 7 ottobre 2011) e trovano riscontro nella stessa giurisprudenza di legittimità, la quale ritiene che la prova dei requisiti di non fallibilità “va desunta innanzi tutto dai bilanci o, anche, da documenti altrettanto significativi” (Cass. n. 8226/2015; contra: Cass. n. 13643/2013). D'altra parte, la Suprema Corte ha precisato che i bilanci non hanno valore di prova legale e le relative risultanze ben possono essere trascurate dal giudice (Cass. n. 14790/2014). Questi, inoltre, gode di poteri istruttori officiosi, come autorevolmente ricordato dalla Corte Costituzionale, la quale ha precisato che il Giudicante deve farne uso per “evitare, nei limiti di quanto ragionevolmente dovuto, che siano dichiarati fallimenti che, date le caratteristiche del debitore, sarebbero ingiustificati” (Corte Cost. n. 198/2009).

La dottrina e la giurisprudenza di merito generalmente ravvisano nell'art. 161, comma 6, l. fall., la medesima ratio di “consentire al Tribunale di valutare quantomeno la sussistenza dei presupposti dimensionali di fallibilità dell'impresa” (Trib. Milano - Sez. II, Plenum 20.9.2012).

Dottrina

Giurisprudenza

S. Ambrosini, Il concordato preventivo, in Vassalli-Luiso-Gabrielli, Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2014, vol. IV, 76

Trib. Monza, orientamenti del plenum del 9 ottobre 2012

Trib. Asti 24 settembre 2012

Trib. Bolzano 25 settembre 2012

Trib. Lucca 31 ottobre 2012 (richiamati in M. Del Linz, La domanda di concordato “con riserva” – rassegna di giurisprudenza, in Giur. Comm., 2013, II, 168-179)

Trib. Milano - Sez. II - Plenum 20 settembre 2012

Si è, peraltro, evidenziato come anche nel concordato preventivo, analogamente all'istruttoria prefallimentare, il Giudice goda del “potere di procedere ad una verifica d'ufficio della sussistenza di tali requisiti” (Trib. Salerno, 7 aprile 2008. In dottrina, V. Lenoci, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2010, 57 e E. Frascaroli Santi, in L. Panzani (a cura di), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, vol. IV, Torino, 2014, 531).

Se lo scopo della norma è analogo, ben si comprende come, fin dall'introduzione del c.d. concordato in bianco, si siano richiamati gli indirizzi applicativi precedentemente consolidati sull'art. 15 l. fall.

In tal senso si è pronunciata molta dottrina, rilevando come “sia sufficiente una qualunque situazione patrimoniale relativa agli ultimi tre esercizi” (così, L. Panzani, Speciale Decreto Sviluppo - Il concordato in bianco, in questo portale), oltre alla già richiamata prassi milanese, secondo la quale, “per le imprese non tenute alla redazione del bilancio” si richiede “la produzione di tutta la documentazione che viene solitamente prodotta in sede prefallimentare ai fini dell'accertamento del requisito dimensionale” (Trib Milano, plenum 20 settembre 2012; in senso analogo, Trib. Monza, orientamenti del plenum del 9 ottobre 2012; Trib. Crotone 17 gennaio 2013 in questo portale). Dalle medesime linee-guida si desume anche il potere del Tribunale di richiedere integrazioni documentali, anziché dichiarare l'inammissibilità della domanda sfornita della documentazione ritenuta in concreto necessaria, come confermato anche da altra giurisprudenza (ex multis, Trib. Pistoia, 20 settembre 2012).

Così un Tribunale del distretto della Corte bresciana (Trib Mantova, 31 gennaio 2013), proprio nel caso di società di persone, ha ritenuto che la mancata allegazione dei bilanci, pur consentendo comunque di verificare il raggiungimento della soglia di fallibilità, precluderebbe la verifica dello stato di crisi.

Taluni passaggi di questo precedente sono stati ripresi nella sentenza qui annotata, la quale, tuttavia, è relativa ad un caso in cui alla declaratoria di inammissibilità della domanda di concordato si è accompagnata la contestuale dichiarazione di fallimento. Presupposto della dichiarazione di fallimento è l'insolvenza, mentre del concordato preventivo è lo stato di crisi. In mancanza di una definizione legislativa, in passato parte della dottrina aveva sostenuto che lo stato di crisi non potesse comprendere l'insolvenza (così, tra molti, G. Bozza, Le condizioni soggettive ed oggettive del concordato, in Fallimento, 2005, 954-956), ma la questione è stata successivamente risolta dal legislatore con il nuovo comma 3 dell'art. 160 l. fall., secondo il quale “ai fini di cui al comma 1 per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.

Di talché il medesimo Tribunale ha ritenuto positivamente accertati i requisiti della fallibilità e dello stato di crisi, ovvero gli stessi requisiti per la cui ritenuta mancanza aveva rigettato l'istanza di concordato.

Al di là di tale vizio logico, le conclusioni a cui perviene la Corte bresciana, come già evidenziato, potrebbero esporsi anche a dubbi di legittimità costituzionale.

Ritenere – sulla base di un'interpretazione letterale dell'art. 161, comma 6, l. fall. – che “in ogni caso” la domanda di concordato (in bianco) richieda il deposito dei “bilanci relativi agli ultimi tre esercizi” porterebbe ad escludere da tale istituto le imprese individuali e le società di persone che si avvalgano del regime di contabilità semplificata, anche se esse siano assoggettabili alla procedura fallimentare.

In proposito, deve in primo luogo ricordarsi come sia controverso che la ritenuta applicabilità dell'art. 2217 c.c. comporti per tutti gli imprenditori commerciali l'obbligo di redazione di un vero e proprio bilancio (in senso affermativo G. F. Campobasso, Diritto Commerciale, Torino, 2013, I, 127. In senso difforme M. Cian, Manuale di diritto commerciale, Torino, 2016, 60). In ogni caso, gli obblighi di tenuta delle scritture contabili sono pacificamente privi di sanzioni, se non quelle previste dalla disciplina tributaria (non applicabili in caso di contabilità semplificata: in tal senso, per tutti, R. Tommasini, in R. Tommasini-M. Galletti, Statuto dell'imprenditore e dell'azienda, Napoli, 2009, 171), oltre alle eventuali sanzioni penali in caso di fallimento. Di talché la migliore dottrina ha ritenuto che gli obblighi in questione rispondano in ultima analisi all'interesse dello stesso imprenditore (per tutti, G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 2010, 76, il quale ricorda come in altri ordinamenti non vi sia alcun obbligo giuridico di tenuta della contabilità), ad esempio in relazione alle facilitazioni probatorie che ne possono conseguire ex art. 2710 c.c.

Tale orientamento dottrinale è stato rafforzato dall'intervenuta novella all'art. 160 l. fall., il quale oggi non subordina più l'ammissione al concordato alla preliminare verifica della regolarità contabile. Con tale modifica legislativa, si ritiene che “viene meno ogni verifica da parte del Tribunale sulla pregressa tenuta della contabilità”, mentre “il legislatore non dispone espressamente che il debitore durante la procedura debba tenere una regolarità contabile, di guisa che sicuramente non rilevano le irregolarità di tipo formale” (così, G. Racugno, Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione e transazione fiscale. Profili di diritto sostanziale, in Trattato di Diritto Fallimentare a cura di V. Bonocore e A. Bassi, Padova, 2010, I, 517 ss.).

D'altra parte, è noto come la prassi delle società di persone tenda ad uniformarsi agli obblighi fiscali, di fatto formando solo le scritture richieste dalla norma tributaria.

Pertanto l'esclusione di tali imprenditori dall'accesso ad uno strumento recentemente potenziato dal legislatore non troverebbe alcuna giustificazione ai fini degli artt. 3 e 41 della Carta Fondamentale.

Né tale esclusione potrebbe essere giustificata ritenendo che le minori dimensioni di tali imprese possano giustificare l'onere di produrre immediatamente il piano ovvero, addirittura, l'esclusione dal concordato.

Non si può, infatti, ritenere che l'adozione di un determinato tipo societario comporti necessariamente una determinata complessità organizzativa, tale da giustificare un diverso regime in sede di crisi d'impresa (sul punto si rinvia a A. Benussi, Modello legale e statutario di organizzazione interna nelle società personali, Milano, 2006 e alla letteratura ivi richiamata, quale esempio di applicazione del metodo c.d. tipologico all'analisi della disciplina societaria con conseguente “relativizzazione” delle differenze tra tipi capitalistici e non).

Né a diversa conclusione si può pervenire – come fa la sentenza in commento – attribuendo al Tribunale l'obbligo di controllo della “regolare contabilità … sia in senso formale che in senso sostanziale”. In proposito, è noto come la giurisprudenza di legittimità abbia generalmente optato per un approccio sostanzialista al requisito della regolarità contabile.

In ogni caso, oggi non può non rilevare la già menzionata abrogazione della regolare contabilità come presupposto di ammissibilità del concordato. D'altra parte, quand'anche si ritenesse comunque che permanga quale requisito “implicito” la regolarità “sostanziale” della contabilità, la questione non può essere risolta sulla base della tipologia di scritture adottate. Infine, in ogni caso, la questione si porrà solo in sede di ammissione del concordato e non certo in sede di vaglio formale dell'ammissibilità della domanda con riserva, e sarà di fatto risolta dall'opera dell'attestatore (E. Frascaroli Santi, in L. Panzani (a cura di), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, IV, Torino, 2014, 534), nonché dalla relazione ex art. 172 l. fall. del Commissario Giudiziale.

Sulla convocazione dei debitori nell'istruttoria prefallimentare

Anche in merito alla notifica ai soci illimitatamente responsabili pare opportuno premettere un breve richiamo alla vicenda legislativa.

Com'è noto, nel testo originario l'art. 15 l. fall. prevedeva la mera facoltà del Tribunale di ordinare la comparizione dell'imprenditore per “sentirlo anche in confronto dei creditori istanti”. La Corte Costituzionale con sentenza 2-16 luglio 1970, n. 141, dichiarava l'illegittimità costituzionale della disposizione nella parte in cui non prevedeva l'obbligo di disporre la convocazione del fallendo per l'esercizio del diritto alla difesa. Successivamente, il medesimo Giudice delle leggi dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, comma 1, l. fall., laddove “non prevede che, prima della dichiarazione di fallimento della società con soci a responsabilità illimitata, il Tribunale debba ordinare la comparizione in camera di consiglio dei soci illimitatamente responsabili nei cui confronti produce effetti la sentenza” (Corte Cost. 28 giugno 1972, n. 110). Com'è noto, con la novella portata dal D. Lgs. n. 5/2006, il legislatore ha previsto l'obbligo di convocazione tanto della società fallenda, quanto dei suoi soci illimitatamente responsabili.

Da ciò la rilevanza anche costituzionale della problematica in esame.

In tema di notifica ai soci, la sentenza che si annota si occupa di due profili ben distinti, l'uno relativo alla validità (od esistenza) della notifica ad uno dei soci (per il quale la attuale residenza anagrafica era difforme da quella risultante dal registro delle imprese) e l'altro relativo all'acquisizione della prova della notifica ad entrambi i soci.

Quanto al primo profilo, la motivazione è apodittica: “la notificazione dell'istanza di fallimento è stata effettuata” presso la “residenza risultante dalla visura camerale della società”. Sennonché, pare pacifico che la residenza debba desumersi dai registri anagrafici, agevolmente accessibili, come riconosciuto dalla Suprema Corte, anche con specifico riferimento alle notificazioni relative alla fase pre-fallimentare (Cass. n. 14338/2013), senza che possano rilevare eventuali risultanze difformi desumibili dal registro delle imprese. Di talché l'invalidità della notifica comporterebbe la nullità della sentenza, nel capo in cui dichiara il fallimento del socio in questione (ex multis, Cass. n. 1105/2016; Cass. n. 1731/2003).

Peraltro – e qui viene in rilievo il secondo profilo – nella vicenda processuale in esame mai è stata accertata la validità delle notificazioni ai soci, pur dichiarati contumaci. È pur vero che, secondo la giurisprudenza prevalente, una dichiarazione di contumacia in assenza dei relativi presupposti (formali o sostanziali) non è, in sé, motivo di nullità quando l'erronea declaratoria non abbia comportato alcun pregiudizio allo svolgimento dell'attività difensiva (Cass. 24889/2006; Cass. 16034/2002, Cass. 3895/1985). Né tale verifica sarebbe stata possibile, posto che, come rileva la Corte d'Appello, “le notificazioni ai soci si erano perfezionate il 27 Gennaio ed il 6 Febbraio 2015 (data dell'udienza) e mancava solo la restituzione delle relazioni ad opera dell'Ufficiale Giudiziario”.

A nulla rileva la eccezione del fatto che la produzione della relazione di notifica nel procedimento sia avvenuta in data 20 marzo 2015, ovverossia successivamente alla pronuncia della dichiarazione di fallimento pronunciata in assenza di alcun contraddittorio e prova della notifica.

E' pur vero che, secondo autorevole dottrina, la dichiarazione di contumacia precedentemente omessa potrebbe essere fatta anche in sede di decisione (B. Ciccia Cavallari, Contumacia, in Digesto Disc. Priv., IV, Torino, 1989, 324), e dunque si potrebbe ritenere che in tale sede possa anche rimediarsi ad una dichiarazione effettuata in assenza dei relativi presupposti (formali o sostanziali), ma tali presupposti comprendono non solo la validità della notifica, ma anche la sua valida acquisizione agli atti.

In ogni caso, nella fattispecie esaminata dalla Corte, l'attività di acquisizione delle notifiche ad opera della Cancelleria del Tribunale è stata effettuata addirittura dopo la formazione del provvedimento.

Non rileva neppure la circostanza richiamata nella sentenza in commento per cui “all'udienza del 18 marzo 2015 la società … si era costituita tardivamente, senza nulla eccepire quanto alla ritualità delle notificazioni de quibus”. È , infatti, pacifico che ogni contestazione in merito alla regolare instaurazione del contraddittorio integra un'eccezione “de jure tertii”, che può essere fatta valere solo dalla parte che vi abbia interesse, mentre non può essere formulata da altro convenuto. Così come è pacifico che l'attività finalizzata alla dichiarazione di contumacia competa d'ufficio al giudice (“l'esercizio dei poteri-doveri in ordine alla rituale incardinazione del giudizio assume comunque carattere ufficioso”: B. Ciccia Cavallari, Contumacia, in Digesto Disc. Priv., IV, Torino, 1989, 324).

E' dunque evidente che non può trovare condivisione l'orientamento per cui nel caso di litisconsorzio necessario sia possibile pronunciare un provvedimento senza avere preventivamente verificato (quantomeno) l'esistenza, se non la validità, delle notifiche.

Sulla reclamabilità del decreto di rigetto della domanda di concordato in bianco

Con il secondo provvedimento in commento, la medesima Corte d'Appello, in pari data, ha dichiarato inammissibile il reclamo formulato avverso il decreto di inammissibilità della domanda di concordato in bianco.

La motivazione sul punto pare succinta, limitandosi la Corte bresciana a rilevare che “il decreto che dichiara inammissibile il concordato è impugnabile unitamente alla sentenza di fallimento”.

Se la regola espressa è del tutto pacifica con riferimento al procedimento di concordato introdotto con domanda ordinaria, non così può dirsi per il caso del c.d. concordato in bianco.

Nel caso del decreto che rigetta la domanda ordinaria di concordato la reclamabilità è espressamente esclusa dalla disposizione di cui all'art. 162, commi 2 e 3, l. fall.

Il comma 2 prevede che il Tribunale, laddove ravvisi la mancanza dei presupposti per l'ammissione del concordato, “dichiara inammissibile la proposta”, mentre il comma successivo prevede che, nel reclamo contro la eventuale successiva sentenza di fallimento, “possono farsi valere anche motivi attinenti all'ammissibilità della proposta di concordato”.

Il tenore letterale di entrambe le disposizioni – laddove si riferiscono alla “proposta di concordato” (e non già alla mera “domanda di concordato”), parrebbe escludere il caso della domanda in bianco, contraddistinta dalla riserva di presentazione della proposta in un momento successivo.

Peraltro, per il caso della pronuncia di inammissibilità della proposta concordataria, la norma stessa prevede in primo luogo la possibilità di integrare o modificare gli atti (“Il Tribunale può concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti” - art. 162, comma 1, l. fall. -), ed in secondo luogo, permanendo ad avviso del Tribunale carenze, fissa udienza al fine di consentire al debitore di esprimere in contraddittorio le sue ragioni (“Il Tribunale, se all'esito del procedimento verifica che non ricorrono i presupporti di cui agli artt. 160 commi 1 e 2, e 161, sentito il debitore in camera di consiglio, con decreto non soggetto a reclamo dichiara inammissibile la proposta di concordato” - art. 162, comma 2, l. fall.).

Dette garanzie del diritto di difesa non sono previste (né nel caso di specie analogicamente adottate) per il caso di preconcordato, ovvero di mera domanda di ammissione alla procedura concordataria con riserva di deposito del piano.

Di talché, se si volesse applicare la norma di cui all'art. 162 l. fall., la valutazione della ammissibilità o meno della c.d. “domanda in bianco” non sarebbe assoggetta a qualsivoglia contraddittorio.

Se così è, la mancanza di una previsione espressa per il caso di concordato in bianco renderebbe necessariamente applicabile la disciplina generale di cui all'art. 739 c.p.c., la quale prevede la reclamabilità dei provvedimenti resi in camera di consiglio (la norma fa riferimento "a tutti i procedimenti in camera di consiglio, ancorché non regolati dai capi precedenti"), conformemente a quei principi di difesa propri del dato costituzionale.

Viceversa l'art. 162 l. fall. rappresenterebbe una norma speciale e di stretta interpretazione, laddove il diritto di difesa sarebbe garantito prima dalla preventiva possibilità di integrare la documentazione e successivamente dalla fissazione di un'udienza dove esaminare in contraddittorio le criticità sollevate dal Tribunale.

La fragilità dell'argomento a contrario(sull'argomento a contrario e i suoi limiti si rinvia a G. Tarello, L'interpretazione della legge, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 1980, I, t. 2, 346-350) rende necessario verificare le conclusioni cui si è pervenuti con un riscontro teleologico-sistematico, a partire dal dato storico-legislativo.

Com'è noto, anche nel testo previgente della Legge Fallimentare era espressamente esclusa la reclamabilità del provvedimento di inammissibilità della proposta di concordato, ma si riteneva che, se a tale decreto seguisse la dichiarazione di fallimento, nel relativo reclamo potessero essere affrontati i profili relativi all'ammissibilità del concordato (S. Carmignani, Il concordato preventivo (panorama di giurisprudenza), in Giur. Comm., 1994, I, 187).

In caso contrario, il decreto era ritenuto comunque impugnabile con ricorso straordinario in cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., data l'evidente difficoltà di sostenere la reclamabilità del decreto in spregio al chiaro tenore della norma fallimentare (G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 303-304).

Tale ultima soluzione è stata fatta propria anche dalle Sezioni Unite nella vigenza del vecchio art. 162 l. fall., sul presupposto che il provvedimento abbia “intrinseco carattere decisorio, essendo dipeso da ragioni che escludono la consequenziale declaratoria di fallimento” (Cass. S.U. n. 9743/2008), ma è attualmente assai dibattuta in dottrina (in senso negativo, per tutti, P. Pajardi-A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 847; in senso affermativo, per tutti, G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2008, 304).

Resterebbe, in ogni caso, controverso il caso in cui al decreto di inammissibilità della proposta non faccia seguito la dichiarazione di fallimento unicamente per la mancanza di istanze (T.E. Cassandro, L'ammissibilità della proposta, in U. Apice (a cura di), Trattato di diritto delle procedure concorsuali, Torino, 2011, III, 133).

Pare evidente come le due soluzioni prospettate (svolgimento delle censure in sede di impugnazione della dichiarazione di fallimento e ricorso straordinario in Cassazione) si atteggino come altrettanti espedienti per ovviare alla espressa previsione di non reclamabilità.

Il caso del preconcordato è palesemente diverso, non solo sul piano della disciplina (mancando alcuna norma ostativa), ma anche per ragioni sistematiche, in relazione alle rilevanti differenze di presupposti e di disciplina tra la procedura ordinaria e la domanda con riserva.

In primo luogo, come anticipato, il rigetto della domanda di concordato a seguito della concessione dei termini presuppone la previa audizione della parte in camera di consiglio, onde consentire un contraddittorio sulle criticità sollevate dal Tribunale. Nulla di tutto questo accade nel caso di domanda con riserva.

In secondo luogo, il provvedimento di cui all'art. 162 l. fall. è adottato all'esito di un procedimento in cui il Tribunale verifica nel merito la ricorrenza dei presupposti del concordato preventivo. Diversamente, il decreto di inammissibilità pronunciato a seguito della sola presentazione della domanda in bianco non si fonda (o almeno non si dovrebbe fondare) su di una valutazione del merito e viene emesso quando il procedimento per la valutazione del merito non è ancora avviato.

Infine, si consideri che la migliore dottrina esclude il rimedio di cui all'art. 111 Cost. nel caso della procedura ordinaria (stante l'espressa previsione di non reclamabilità) sul presupposto della riproponibilità della domanda (P. Pajardi-A. Paluchowsky, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 847). Ebbene, tale presupposto non è ravvisabile nel caso della domanda con riserva, caratterizzata dal divieto di riproporre altra domanda in bianco nel biennio successivo al rigetto, di cui all'art. 161, comma 9, l. fall.

Di talché deve necessariamente configurarsi un rimedio, che non può evidentemente consistere nel ricorso straordinario per Cassazione, data la presenza della norma generale di cui all'art. 739 c.p.c.

In conclusione, i profili sistematici esposti confortano il dato testuale, facendo ritenere giustificata una differente disciplina tra pre-concordato e concordato in punto di reclamabilità del decreto di inammissibilità.

Spunti sistematici in tema di rapporto tra pre-concordato e istruttoria pre-fallimentare

La decisione della Corte bresciana in punto di inammissibilità di un autonomo reclamo avverso il decreto di rigetto dell'istanza ex art. 160, comma 6, l. fall., sul presupposto della sua impugnabilità contestualmente alla sentenza di fallimento, è tutta giocata sul delicato tema del rapporto tra domanda di concordato in bianco e procedimento per la dichiarazione di fallimento. Ma il tema è sotteso anche alle ulteriori questioni decise dalla Corte.

La giurisprudenza di merito che fino ad oggi si è occupata della questione ha unanimemente riconosciuto la necessità di un coordinamento tra i due procedimenti, pur declinando tale necessità con soluzioni non univoche: secondo Trib. Velletri 18 settembre 2012 e Trib. Pordenone 19 settembre 2012, la procedura prefallimentare subisce la propedeuticità della domanda di concordato, mentre secondo Trib. Terni 26 febbraio 2013 il Tribunale potrebbe dare precedenza alla dichiarazione di fallimento, qualora la relativa istanza contempli la deduzione di profili di illegittimità o anche solo di dannosità delle iniziative assunte dal debitore (così M. Del Linz, La domanda di concordato “con riserva” – rassegna di giurisprudenza, in Giur. Comm., 2013, II, 185 ss.).

Il decreto in commento pare confermare la presenza di una stretta connessione (quanto meno nel senso a-tecnico del termine), diversamente dalla sentenza contestualmente emanata dalla medesima Corte bresciana. Come già evidenziato, infatti, in punto di corredo documentale della domanda (bilanci) la Corte ha trascurato di rilevare che la prova della sussistenza dei requisiti di fallibilità (e dello stato di crisi) cui tale produzione è finalizzata è stata raggiunta nell'istruttoria prefallimentare.

La disarmonia nella quale la Corte bresciana pare essersi mossa deriva dal già evidenziato metodo argomentativo oscillante, ancorato talvolta al dato letterale e talvolta a considerazioni più “sostanzialistiche” che il dato letterale ignorano senza tuttavia confrontarsi con il tessuto normativo nel suo complesso dipanarsi.

Ma, a giustificazione della Corte, non può negarsi come lo sforzo di individuare soluzioni coerenti con il sistema sarebbe in ogni caso ostacolato dalla scarsità e dalla scarsa univocità delle elaborazioni dottrinali sull'ormai non più recentissimo istituto del c.d. preconcordato, nel suo rapporto con l'istruttoria prefallimentare.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario