L'utilizzabilità come prova documentale delle dichiarazioni rese dal fallito al giudice delegato

16 Settembre 2016

I verbali delle dichiarazioni rese dall'imprenditore fallito al giudice delegato siano acquisibili al fascicolo del dibattimento nel procedimento penale per reati connessi al fallimento e siano utilizzabili come prova documentale ai sensi dell'art. 234 c.p.p.?
Massima

Le dichiarazioni rese dal fallito al giudice delegato sono acquisibili al fascicolo del dibattimento come prova documentale ai sensi dell'art. 234 c.p.p., al pari delle dichiarazioni rese al curatore fallimentare, essendo accomunate a queste dalla medesima funzione informativa di ricostruire le vicende amministrative della società. Non è applicabile alle stesse l'art. 238, commi 2 e 2-bis c.p.p., in quanto quella fallimentare è una procedura finalizzata alla liquidazione dell'attivo, all'accertamento del passivo ed alla soddisfazione della massa dei creditori e non un giudizio civile in senso stretto; né l'art. 238-bisc.p.p., in quanto si tratta di procedura non destinata a sfociare in sentenza suscettibile di passare in giudicato; né l'art.62 c.p.p. perché, nella lettura datane dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 136/1995, norma applicabile solo alle dichiarazioni rese nel procedimento penale; né l'art. 63 c.p.p., perché la nozione di autorità giudiziaria contenuta in tale norma non è riferibile al giudice civile.

Il caso

La Corte di appello di Catania, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato Tizio, amministratore di diritto di una società fallita, alla pena di giustizia per bancarotta fraudolenta documentale, con esclusione della bancarotta fraudolenta patrimoniale e dell'aggravante di cui all'art. 219 l.fall.; ed ha confermato la medesima sentenza con riferimento a Caio, amministratore di fatto della fallita, condannato per i reati di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale, con il riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 219 l. fall.

Tizio e Caio hanno proposto separatamente ricorso per Cassazione, deducendo entrambi, fra gli altri motivi, la violazione degli artt. 238, commi 2, 2-bis e 5, 238-bis, 431 lett. a) e 62 e 63 c.p.p., lamentando che le dichiarazioni rese al giudice delegato da Caio, e da altro soggetto, quest'ultimo non indagato, non avrebbero potuto essere acquisite al fascicolo del dibattimento come produzione documentale, ostandovi le disposizioni menzionate, e non essendo assimilabili le dichiarazioni rese al giudice delegato a quelle rese al curatore fallimentare.

Secondo la prospettazione difensiva, i verbali di interrogatorio innanzi al giudice delegato sono meri atti della procedura fallimentare che non possono fare prova delle dichiarazioni rese a quest'ultimo; inoltre, in quanto assunte in assenza del difensore e senza gli avvertimenti di cui agli artt. 62 e 63 c.p.p., sono inutilizzabili, e non possono essere acquisite al fascicolo del dibattimento ai sensi dell'art. 431 c.p.p.

La questione

La questione affrontata dai giudici di legittimità è se i verbali delle dichiarazioni rese dall'imprenditore fallito al giudice delegato siano acquisibili al fascicolo del dibattimento nel procedimento penale per reati connessi al fallimento e siano utilizzabili come prova documentale ai sensi dell'art. 234 c.p.p.; ovvero se non siano utilizzabili in quanto acquisiti in violazione degli artt. 238, commi 2 e 2-bis, 238, 62 e 63 c.p.p.

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha disatteso l'assunto delle difese, richiamando i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine al valore di prova documentale ai sensi dell'art. 234 c.p.p. da attribuirsi alla relazione del curatore fallimentare ed alle dichiarazioni rese dal fallito a quest'ultimo, prove rilevanti nel processo penale al fine di ricostruire le vicende amministrative della società.

Tali principi si applicano, secondo la Corte, anche alle dichiarazioni rese dal fallito al giudice delegato, poiché queste ultime partecipano della medesima funzione informativa propria delle dichiarazioni raccolte dal curatore fallimentare, in quanto utili per ricostruire le vicende amministrative della società fallita, come si evince dalla lettera dell'art. 49 l. fall., secondo cui se occorrono informazioni o chiarimenti ai fini della gestione della procedura, i soggetti di cui al primo comma (ossia l'imprenditore del quale sia stato dichiarato il fallimento, gli amministratori o i liquidatori di società o enti soggetti alla procedura di fallimento) devono presentarsi senza ritardo personalmente al giudice delegato, al curatore o al comitato dei creditori.

Il richiamo delle difese all'art. 238, commi 2 e 2-bis,c.p.p. – che disciplina il valore probatorio da attribuirsi ai verbali di prove assunte in un giudizio civile definito con sentenza che abbia acquisito autorità di cosa giudicata, utilizzabili contro l'imputato solo se nei suoi confronti fa stato la sentenza conclusiva del giudizio civile – ed all'art. 238-bisc.p.p. – che disciplina il valore probatorio da attribuirsi alle sentenze irrevocabili – non è viceversa pertinente.

Infatti la Corte rileva che la procedura fallimentare è finalizzata alla liquidazione dell'attivo, all'accertamento del passivo ed alla soddisfazione dei creditori e non è destinata a sfociare in una sentenza suscettibile di passare in giudicato.

Né a diversa conclusione addiviene la Corte con riferimento all'applicabilità degli artt. 62 e 63 c.p.p.

Con riferimento al divieto di testimonianza sulle dichiarazioni rese nel corso del procedimento dall'imputato o dall'indagato, di cui all'art.62 c.p.p., la Corte, sulla scorta della lettura data a tale norma dalla Corte costituzionale con sentenza n. 136/1995, nella questione di legittimità costituzionale per la mancata estensione del divieto di testimonianza anche alle dichiarazioni indizianti rese dal fallito al curatore, ai sensi dell'art. 49 l. fall., rileva che il richiamo non è pertinente, in quanto il divieto opera solo con riferimento alle dichiarazioni rese nel corso del procedimento penale.

Quanto all'applicabilità dell'art. 63 c.p.p., del pari, come evidenziato nella citata sentenza della Corte costituzionale, il riferimento all'autorità giudiziaria contenuto in tale norma è finalizzato a ricomprendere in tale nozione non solo il giudice penale, ma anche il pubblico ministero, mentre ad essa non può essere ricondotto il giudice civile.

Infatti, nel caso in cui nel corso dell'interrogatorio formale innanzi al giudice civile, emergano indizi di reità a carico della parte, il giudice civile è tenuto a trasmettere senza ritardo la notizia di reato al pubblico ministero, secondo la regola, dettata per tutti i pubblici ufficiali, dall'art. 331, comma 4, c.p.p.

Viceversa, non è rinvenibile, fra quelle che disciplinano il processo civile, alcuna norma dalla quale trarre il principio secondo cui un atto di istruzione probatoria debba essere interrotto in funzione di esigenze teleologiche proprie del processo penale, diverse da quelle cui è finalizzato il rito civile.

Correttamente dunque gli organi della procedura fallimentare hanno inviato al pubblico ministero le dichiarazioni di Caio, e altrettanto correttamente le medesime sono state acquisite la fascicolo del dibattimento ai sensi dell'art. 431 c.p.p. e sono state utilizzate come prova documentale ai sensi dell'art. 234 c.p.p.

Osservazioni

La Corte ha risolto la questione sulla scorta dei principi già affermati in relazione alla utilizzabilità come prova documentale delle dichiarazioni indizianti rese dal fallito al curatore fallimentare, evidenziando che sia le une sia le altre dichiarazioni, come pure quelle che il fallito è tenuto a fornire al comitato dei creditori, ai sensi dell'art. 49 l. fall., hanno la medesima funzione, ossia quella di dare informazioni sulle vicende amministrative della società.

Si tratta di una prova che si forma fuori del procedimento penale, e, poiché rappresenta la situazione della società, è ascrivibile alla categoria dei documenti ai sensi dell'art. 234 c.p.p..

In quanto prova documentale preesistente al procedimento penale, è acquisibile al fascicolo del dibattimento ai sensi dell'art. 431 c.p.p.

Deve però osservarsi che, in tema di prova documentale, il profilo relativo all'acquisibilità della stessa al fascicolo del dibattimento ed alla sua utilizzabilità deve essere distinto dal quello relativo al valore probatorio da attribuirle, tanto più ove, come nel caso in esame, si vogliano trarre elementi di prova a carico dell'imputato dalle dichiarazioni rese al giudice delegato, od al curatore, da colui che poi è divenuto coindagato od imputato nel medesimo procedimento, o in procedimento connesso o collegato.

Già la Corte di cassazione, con riferimento alle dichiarazioni rese al curatore fallimentare da soggetto successivamente divenuto coimputato nel medesimo reato o in procedimento connesso o collegato, ha statuito che anche con riferimento alle stesse deve trovare applicazione il canone valutativo dettato dall'art 192, comma 3,c.p.p., dovendosi in caso contrario giungere alla paradossale conclusione che, se le dichiarazioni vengono rese al giudice penale, devono essere valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità, mentre, se rese al curatore, possono essere valutate a carico pur in assenza di riscontri. (cfr Cass. pen., Sez. V, 17 aprile 2015, n. 20090 Nondimeno, se le persone che il curatore ha esaminato rivestono il ruolo di indagati o imputati nel medesimo procedimento e procedimento connesso o collegato, tali dichiarazioni vanno valutate alla luce dell'art. 192, comma 3, c.p.p., in quanto non può certo essere il "filtro" consistente nell'intervento del curatore quel che può valere a far derogare dalla predetta regola di valutazione. Diversamente ragionando, si giungerebbe alla conclusione – ovviamente paradossale – che, se un soggetto imputato o indagato di reato connesso o collegato o del medesimo reato opera una chiamata in correità davanti al giudice, si deve fare applicazione dell'art. 192, comma 3, c.p.p. se – viceversa - tali dichiarazioni vengono rese al curatore, esse sarebbero valutabili ex se. Ma l'apparente paradosso si supera se solo si distingue tra acquisibilità (della relazione) e valutazione (del suo contenuto).

A parere di chi scrive la questione deve essere ulteriormente approfondita con riferimento alla compatibilità della lettura offerta dalla Corte con i principi dettati dall'art. 111 Cost. e art. 6 Cedu.

Non può sottacersi infatti che, dopo aver affermato più volte che il verbale delle dichiarazioni rese al curatore (ed ora anche al giudice delegato) costituisce prova documentale ai sensi dell'art. 234 c.p.p., prova che, in quanto preesistente al procedimento penale, può essere acquisita al fascicolo del dibattimento perché con riferimento ad essa non opera il principio di separazione delle fasi, la Corte, con la sentenza da ultimo menzionata, ha poi rilevato l'applicabilità del canone valutativo di cui all'art. 192, comma 3,c.p.p., norma che si riferisce alle dichiarazioni rese nel procedimento penale e non a quelle rese al di fuori del medesimo.

In conclusione, attribuire valenza probatoria in dibattimento a dichiarazioni rese da soggetto, poi divento coindagato nel medesimo reato o in procedimento connesso o collegato al giudice delegato od al curatore, senza garantire all'imputato il contraddittorio, non pare in linea con i principi del giusto processo, ed il richiamo al canone valutativo di cui all'art 192, comma 3,c.p.p. non sembra sufficiente a garantire la compatibilità con tali principi.

(Fonte: ilpenalista.it)

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