Osservazioni sul DDL delega della Commissione Rordorf

Filippo Lamanna
22 Settembre 2016

Si riportano le osservazioni del dott. Lamanna, Presidente del Tribunale di Novara, già Presidente della Sezione Fallimentare del Tribunale di Milano, nonchè Direttore scientifico di questo portale, sul disegno di legge delega A.C. 3671-bis (Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza) presentate in occasione dell'audizione presso la Commissione Giustizia della Camera nella giornata di ieri, 21 settembre.
Premessa

Si riportano le osservazioni del dott. Lamanna, Presidente del Tribunale di Novara, già Presidente della Sezione Fallimentare del Tribunale di Milano, nonchè Direttore scientifico di questo portale, sul disegno di legge delega A.C. 3671-bis (Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza) presentate in occasione dell'audizione presso la Commissione Giustizia della Camera nella giornata di ieri, 21 settembre.

Finalità dell'audizione ed oggetto delle osservazioni

Nel ringraziare anzitutto la Presidente On.le Ferranti e gli On.li componenti della Commissione Giustizia per l'invito a partecipare all'odierna audizione, mi sia consentito esporre subito, molto brevemente, i criteri cui mi sono attenuto nel predisporre le mie osservazioni, con l'auspicio che possano essere di una qualche utilità.

Ho in primo luogo cercato di seguire le indicazioni di massima che, come risulta dalla relativa verbalizzazione, sono state date dalla Presidente Ferranti nella seduta del 20.4.2016, quando, preannunciando l'intenzione della Commissione di dar corso ad audizioni per un'indagine conoscitiva sui contenuti del disegno di legge delega per la riforma delle procedure concorsuali, ha soggiunto che esse avrebbero potuto rappresentare anche un'importante occasione per monitorare gli effetti della mini-riforma realizzata con il decreto legge n. 83 del 2015, con cui è stato realizzato il primo intervento urgente in materia fallimentare da parte del Governo in carica, mini-riforma il cui obiettivo – come la stessa Presidente ha voluto opportunamente puntualizzare - non era affatto quello di incrementare il ricorso ai concordati, quanto piuttosto di scongiurare il rischio di un loro utilizzo distorto.

Pertanto ho cercato di svolgere le mie osservazioni sul testo del nuovo disegno di legge riformatore con un occhio rivolto – per quanto fuggevolmente - anche agli effetti del suddetto decreto legge, che è riuscito in effetti a scongiurare quel rischio di utilizzo distorto del concordato ben evidenziato dalla Presidente. Fuggevolmente, per gli inevitabili limiti contenutistici delle mie osservazioni, giacchè, se il nuovo disegno riformatore non poteva che assumere connotati di inevitabile ampiezza, tuttavia in sede di audizione non vi è certo la possibilità di analizzarne ogni aspetto. Pertanto era per me inevitabile operare una selezione delle disposizioni su cui focalizzare l'attenzione, e siccome credo che il maggior interesse si racchiuda in quelle riguardanti il concordato preventivo e la procedura di liquidazione giudiziale che prenderà il luogo del tradizionale fallimento, conseguentemente ho ritenuto opportuno non occuparmi delle disposizioni riguardanti procedure diverse da queste ultime due. Non tratterò dunque né degli accordi di ristrutturazione dei debiti e dei piani di risanamento di cui si occupa l'art. 5 del disegno di legge, né del sovraindebitamento di cui all'art. 9, né della liquidazione coatta amministrativa di cui all'art. 14, né dell'amministrazione straordinaria di cui all'art. 15.

Quanto a quest'ultima procedura, peraltro, l'art. 15 originario è stato stralciato dal testo del disegno di legge, e quindi comunque non avrebbe senso occuparsene in queste note.

Sorte simile, anche se – per il momento - non ancora tradottasi in uno stralcio, deve preconizzarsi anche quanto alla programmata revisione delle garanzie non possessorie di cui all'art. 11. Infatti, sebbene il Governo abbia inizialmente ritenuto opportuno estendere l'oggetto della delega anche a tale materia, è nel frattempo già intervenuto a disciplinarla con il D.L. n. 59/2016 (cd. Decreto banche) conv. in L. n. 119/2016, sì che sembra che la materia stessa sia stata sostanzialmente esaurita, almeno alla luce delle direttive che la delega aveva inteso dettare al riguardo. Nulla dirò, dunque, nemmeno su tale aspetto, perché ritengo che l'art. 11 verrà verosimilmente soppresso.

Quanto alla liquidazione coatta amministrativa, mi limito solo ad esprimere, più che fuggevolmente, in questa sede preliminare, il mio apprezzamento per la soluzione proposta con l'art. 14, quella cioè di ricondurre la maggior parte delle imprese oggi soggette a liquidazione coatta amministrativa alla disciplina fallimentare comune, lasciando sopravvivere la procedura speciale solo per le imprese bancarie, finanziarie, assicurative e fiduciarie. Si otterrà certamente un vantaggio in termini di efficienza oltre che di trasparenza. Tale risultato dovrebbe apprezzarsi, tra l'altro, anche quanto alla nomina dei liquidatori, che - coerentemente con la programmata applicazione della procedura comune - dovrebbe essere ora riservata ai Tribunali, e non più all'autorità ministeriale di controllo. Incidentalmente osservo che analogo criterio sarebbe auspicabile ispirasse anche la riforma della procedura di amministrazione straordinaria, poiché la nomina dei commissari da parte dell'autorità ministeriale ha fatto talora registrare – come segnalato da più parti –scelte di tipo clientelare, con conseguenti abusi che hanno poi portato a reiterate revoche e nuove nomine, in un frenetico rincorrersi di incarichi e di compensi, moltiplicatisi vieppiù, in molti casi, per effetto delle revoche e delle nomine dei professionisti che i singoli commissari a loro volta avevano nominato per espletare le più diverse attività.

Credo peraltro di poter esprimere, altrettanto fuggevolmente, un analogo apprezzamento positivo tout court, senza maggiore necessità di approfondimento e di trattazione, anche in ordine ad altri punti dell'articolato che rientrerebbero questa volta proprio nella disciplina del fallimento e del concordato preventivo alla quale invece ho preannunciato di voler dedicare specificamente la mia attenzione.

Si tratta di disposizioni apprezzabili nel loro complesso, senza che vi siano aspetti critici particolari da segnalare.

Mi riferisco in particolare all'innovativa disciplina concorsuale dei gruppi d'imprese, che colma in maniera apparentemente esaustiva, con le previsioni contenute nell'art. 3, secondo le proposte dottrinarie più accreditate, una lacuna da più parti e da più tempo denunciata; alle modifiche contenute nell'art. 8 in materia di facilitazione dell'esdebitazione, che, specie per i piccoli imprenditori, mi sembrano del tutto ragionevoli e condivisibili; a quelle contenute nell'art. 12 sui rapporti tra liquidazione giudiziale e procedimenti penali nel cui ambito siano intervenuti provvedimenti di sequestro o confisca di beni appartenenti al debitore insolvente, stante la razionale calibratura che le ispira, affermandosi la prevalenza degli interessi pubblici in un caso (laddove i provvedimenti siano emessi in base alle disposizioni del codice antimafia), e, nell'altro, dei creditori (laddove i provvedimenti siano emessi in applicazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per reati commessi da propri dirigenti o dipendenti).

Mi riferisco altresì alle disposizioni contenute nell'art. 13, che contempla alcuni opportuni adattamenti di norme del codice civile in funzione della nuova disciplina concorsuale, adattamenti quanto mai utili specie laddove è stato innovativamente previsto il dovere dell'imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi, oltre che per l'adozione tempestiva di uno degli strumenti idonei al suo superamento, e laddove si è programmata – anche se senza maggiore specificazione (che forse sarebbe stata opportuna) – la necessità di individuare criteri uniformi di quantificazione del danno risarcibile nell'azione di responsabilità, problematica che ancor oggi registra irrisolti contrasti giurisprudenziali.

Necessità di individuare le criticità dell'attuale sistema normativo giusfallimentare per valutare il rapporto funzionale tra il disegno di legge e gli obiettivi della riforma

Entrando ora nel merito delle disposizioni riguardanti il concordato preventivo e il fallimento (ovvero la liquidazione giudiziale, come il disegno di legge propone ora di chiamarlo), credo che, per valutarle adeguatamente, per quanto nei limiti di un esame necessariamente sommario, occorra anzitutto individuare le principali criticità che tradizionalmente hanno connotato la disciplina di tali procedure.

Infatti gli obiettivi di una riforma generale che aspiri – come quella in esame - a non essere meramente compilativa, che cioè non abbia il solo fine di raccogliere ed ordinare - come in un mero Testo Unico - le norme preesistenti, rendendole, eventualmente, solo più coerenti l'una con l'altra, ma che intenda anche dare soluzione ai problemi irrisolti emersi finora nella pratica, non possono che consistere anzitutto nell'adozione delle misure più idonee per superare in modo innovativo le criticità del sistema normativo preesistente.

Per tale motivo l'individuazione di tali criticità è un passaggio prioritario ed essenziale, fungendo da parametro diacritico per l'esame in concreto del tasso di funzionalità/efficacia dei principi e criteri direttivi inseriti nelle disposizioni del disegno di legge delega.

Le criticità dell'attuale sistema

Il disegno di legge enumera molteplici criticità che si propone di superare attraverso le nuove disposizioni dell'articolato.

Peraltro, secondo una comune opinione, accreditata in parte anche da alcune sollecitazioni provenienti dalle istituzioni europee (cfr. soprattutto la Raccomandazione della Commissione n. 2014/135/UE, cfr. ad es. il punto A.7. della Raccomandazione europea: “La procedura di ristrutturazione non dovrebbe essere lunga né costosa (…)”), tra tutte le criticità dell'attuale sistema giusconcorsuale italiano quelle di maggiore rilevanza sono le quattro seguenti:

  1. eccessiva incidenza dei cd. costi legali che sottraggono risorse da destinare ai creditori, e ciò soprattutto in materia di concordato preventivo;
  2. eccessiva sproporzione ed iniquità nel trattamento dei creditori;
  3. mancanza di adeguate misure finalizzate ad incentivare l'emersione anticipata della crisi ed a conservare e riattivare le imprese effettivamente risanabili;
  4. eccessiva durata e complessità di alcuni procedimenti o di alcune fasi processuali.

Di tali criticità dà atto, sia pure in modo un po' dispersivo, anche lo stesso disegno di legge, proponendosi espressamente di superarle.

Ad es. nell'art. 2 sono delineati alcuni dei principali criteri direttivi cui dovrebbe attenersi il Governo per realizzare gli obiettivi essenziali della riforma (“principi generali”), e tra questi spiccano soprattutto i criteri/obiettivi indicati alla lettera i): “ridurre la durata ed i costi delle procedure concorsuali, (…) evitare che il pagamento dei crediti prededucibili assorba in misura rilevante l'attivo delle procedure”; finalità, quest'ultima, cui concorre in apparenza anche la previsione dell'art. 10, che, a sua volta, mira a “ridurre le ipotesi di privilegio generale e speciale”.

L'art. 4 mira poi ad incentivare l'emersione anticipata della crisi.

E l'art. 6, infine, per incentivare il salvataggio delle sole imprese vitali, prevede alla lettera a) “l'inammissibilità di proposte (di concordato) che, in considerazione del loro contenuto sostanziale, abbiano natura essenzialmente liquidatoria”, in ciò dando manforte ad un'altra previsione dell'art. 2, secondo cui occorre “dare priorità di trattazione, salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale”.

Tali obiettivi investono, nella sostanza, tutte le quattro sopraindicate criticità, che il disegno riformatore dovrebbe mirare a superare.

Alla luce di esse va dunque testata la funzionalità dei più qualificanti criteri indicati dal legislatore delegante nelle varie disposizioni di cui consta il disegno di legge delega.

Valutazione del rapporto funzionale tra criticità oggi esistenti ed obiettivi da realizzare, da un lato, e criteri direttivi delineati nel disegno di legge delega, dall'altro. Eccessività dei costi dei procedimenti concorsuali

A) L'obiettivo della riduzione

A1) Il citato art. 2 prospetta la riduzione dei costi dei procedimenti concorsuali mediante contenimento delle ipotesi di prededuzione, anche con riguardo ai compensi dei professionisti, al fine di evitare che il pagamento dei crediti prededucibili assorba in misura rilevante l'attivo delle procedure.

  • Aspetti positivi

Superfluo riconoscere la piena condivisibilità di tale obiettivo, che mira al superamento di uno dei problemi più spinosi dell'attuale sistema concorsuale, paradossalmente determinato, soprattutto in materia di concordato preventivo, da alcune recenti riforme. Ed anzi, in tale ambito, si riscontra un vero e proprio circolo vizioso, che dall'esterno, soprattutto da parte dei non addetti ai lavori, è di difficile decifrazione. Cercherò di semplificare al massimo la descrizione della problematica.

Fino alla prima delle più recenti riforme che hanno ridefinito la disciplina del concordato preventivo, quella del 2005 (D.L. n. 35/2005), il concordato preventivo era una procedura volta a favorire (come beneficio) solo l'imprenditore che fosse, come soleva dirsi, onesto ma sfortunato, ossia vittima incolpevole dell'insolvenza, e comunque meritevole.

Nel beneficare il debitore, la legge non trascurava però di garantire, almeno in linea di principio, un adeguato livello di soddisfazione per i creditori, ponendo soglie di accesso al concordato alquanto serie (doveva pagarsi per intero e subito il totale dei crediti privilegiati ed almeno il 40% dei crediti chirografari; analoga soglia si rinviene ancora in altri ordinamenti; cfr. ad es. l'Austria). Inoltre, si prevedeva comunque la minusvalenza della tutela del debitore rispetto a quella dei creditori, poiché si affidava al Tribunale non solo il compito di valutare già ex ante se il debitore fosse in grado di realizzare in concreto la promessa di pagare i creditori in tali misure, ma anche quello di valutare comparativamente (sempre ex ante) se il concordato preventivo fosse in concreto più conveniente per i creditori rispetto all'alternativa fallimentare, consentendogli così di bocciare le proposte non convenienti.

I primi interventi di riforma, almeno per come essi sono stati interpretati nella loro impostazione di fondo, soprattutto dalla S. Corte di cassazione, sembrano avere in parte capovolto tale impostazione, trasformando, come spesso si afferma, il sistema precedente, che era maggiormente creditor oriented, cioè fondato su un principio di prevalenza della tutela dei creditori, in un sistema debtor oriented, in cui la preferenza dovrebbe intendersi piuttosto accordata al debitore.

Tuttavia, si sono poi succeduti altri interventi del legislatore non tutti caratterizzati da tale ratio, ed anzi alcuni sono stati di segno esattamente opposto (v. ad es. il cd. decreto correttivo del 2007, D.Lgs. n. 169/2007, nonché il decreto del Fare, D.L. n. 69/2013, e la cd. mini-riforma di cui al D.L. n. 83/2015), mentre poi occorre anche evidenziare che dietro disposizioni apparentemente orientate a favorire il debitore vi era e vi è una finalità, se non alternativa, quanto meno ulteriore e concorrente, quella cioè di favorire occasioni di lavoro e guadagni per alcune categorie professionali attraverso l'introduzione ex novo di attività ed incombenti da devolversi necessariamente ad esperti in materie giuridiche ed economico-commerciali. Tale connotazione, a mio avviso, ha reso ormai il concordato preventivo, nella stragrande maggioranza dei casi, soluzione meno conveniente per i creditori rispetto al fallimento.

Nel concordato preventivo, infatti, sono solitamente presenti tutte le seguenti figure professionali:

  1. almeno un ADVISOR per la predisposizione del piano,
  2. un ESPERTO ATTESTATORE per l'attestazione di fattibilità del piano, il quale talora si avvale, per poter certificare la veridicità dei dati aziendali, anche di un revisore contabile o di una società di revisione,
  3. almeno un LEGALE per la presentazione della domanda e la consulenza giuridica,
  4. due o più PERITI (per la stima immobiliare/mobiliare/aziendale, oltre che per rendere attestazioni speciali: ex art. 160, secondo comma, 182-quinquies, 182-septies l. fall.),
  5. un PRECOMMISSARIO,
  6. un COMMISSARIO GIUDIZIALE,
  7. altri PERITI (periti stimatori endoconcordatari nominati dal giudice delegato),
  8. un LIQUIDATORE GIUDIZIALE (salvi i casi di concordato per garanzia o con continuità aziendale pura).

Ebbene, tutti questi professionisti determinano il sorgere di costi (prededucibili) ingentissimi, che sottraggono notevoli risorse attive altrimenti destinate ai creditori.

Ma si tratta di una caratteristica che ha solo il concordato preventivo, non invece il fallimento, nel quale i costi da prevedere riguardano nella normalità dei casi solo il compenso del curatore e di uno/due periti (a parte il costo eventuale per il compenso di legali ove si decida l'esercizio di varie azioni revocatorie/recuperatorie, costo che però andrebbe ugualmente a gravare anche un qualunque concordato in fase esecutiva per l'accertamento di crediti o il recupero di beni, senza poi considerare il caso – alquanto frequente - in cui i processi finiscono vittoriosamente con il rimborso integrale delle spese).

Anche nell'ANALISI DELL'IMPATTO DELLA REGOLAMENTAZIONE (AIR) allegata alla Relazione ministeriale sul disegno di legge si legge del resto che il concordato preventivo comporta costi e spese legali prededucibili che assorbono in media il 30% dell'attivo, mentre nel fallimento i costi sono pari in media al 5%, con una conseguente dispersione di risorse – pari circa al 25% dell'attivo, ossia ad ¼! - altrimenti destinate o da destinare, quoad naturam, ai creditori anteriori.

Ne consegue che, di norma, anche senza considerare l'ulteriore vantaggio, che ha solo il fallimento, di poter esercitare azioni revocatorie per incrementare l'attivo da distribuire, oltre che, di fatto, con analoga finalità, azioni di responsabilità (che quasi mai invece vengono esperite nei concordati), il fallimento sarà sempre più conveniente e vantaggioso – per i creditori – di un qualunque concordato (anche volendosi fare salvi casi eccezionali, in cui vi siano vantaggi speciali per apporti finanziari di terzi nel concordato). Oggi, peraltro, il concordato non presenta in concreto neppure il vantaggio di un pagamento più rapido, se si considera che non vi sono limiti al differimento del pagamento dei crediti chirografari, e che la S. Corte di cassazione ha anche mutato un'interpretazione più che secolare consentendo il differimento – con tempistiche anche assai lunghe - del pagamento relativo ai crediti privilegiati.

Ma sta di fatto, appunto, che sono già i costi prededucibili per compensi professionali a fare la differenza. Tali costi, però, non sono certo un vantaggio per il debitore, e quindi non sono in senso proprio il segnacolo di un sistema debtor oriented. Bisogna piuttosto francamente ammettere che tali costi sono semmai il sintomo del sotteso operare della volontà di avvantaggiare alcuni ceti professionali, per i quali i concordati rappresentano ormai una lucrosa occasione di lavoro e guadagno. Ma si tratta di un beneficio che non può più continuare ad essere riconosciuto, poiché determina l'ingiustificabile sottrazione di ingenti risorse che dovrebbero essere destinate ai creditori concorsuali, cioè a coloro che hanno effettivamente sopportato il rischio d'impresa, a vantaggio invece di professionisti che tale rischio non hanno mai prima affrontato, atteso che appaiono sulla scena concorsuale per la prima volta solo in occasione dell'instaurarsi di ogni singola procedura, e che sono chiamati a svolgere perdippiù attività in gran parte superflue o meramente duplicative.

Il caso emblematico è rappresentato dalla figura dell'esperto attestatore, chiamato a certificare sia la veridicità dei dati aziendali, che, soprattutto, la fattibilità del concordato, fattibilità che poi è comunque oggetto di un nuovo apprezzamento da parte sia del commissario giudiziale che del Tribunale, ciascuno secondo le proprie competenze.

Si ha dunque una sostanziale duplicazione, la cui inutilità è poi attestata da un'analisi recentemente condotta dall'OCI su 700 procedure di concordato preventivo (su cui cfr. G.Negri, Concordati ad alto “prezzo”, in Il Sole 24 Ore del 18 giugno 2016, 25 ove in particolare il consumo dei costi della procedura viene considerato pari al 60% delle disponibilità liquide), all'esito della quale è risultato, tra l'altro, che l'attività di controllo del commissario giudiziale è stata comunque molto più incisiva di quella esercitata dal professionista attestatore.

Non si può sottacere che l'invenzione di tale figura è servita più che altro come mezzo per sottrarre al Tribunale il monopolio del potere/dovere di controllo sulla fattibilità del piano concordatario, potere che prima gli apparteneva in via esclusiva e che veniva esercitato controllando ex art. 160 l. fall. se fosse verosimile che il debitore sarebbe riuscito a pagare integralmente i creditori privilegiati e almeno il 40% dei creditori chirografari.

La S. Corte ha infatti avallato in via interpretativa la tesi secondo cui il potere di verificare la fattibilità sarebbe stato attribuito al solo attestatore, salvo poi ritagliare al Tribunale una funzione di controllo più limitata. Ha infatti da ultimo ritenuto che il Tribunale possa esercitare solo un limitato potere di sindacato sulla cd. fattibilità giuridica, mentre all'esperto attestatore in prima battuta, e ai creditori al momento del voto, sarebbe rimesso il potere di valutare la cd. fattibilità economica.

Non entro nel merito di tale alquanto artificiosa distinzione. Noto però che l'esperto attestatore viene nominato proprio dal debitore e percepisce da questi il suo compenso. Ragione che ha reso evidentemente inimmaginabile – o in ogni caso tanto eccentrico quanto raro - il verificarsi di casi in cui l'esperto possa per avventura rilasciare un'attestazione negativa di fattibilità (attestazione negativa che, peraltro, non sarebbe quasi mai conoscibile all'esterno, poiché il debitore proponente non la produrrebbe certo al Tribunale, presentando semmai una diversa relazione attestativa, questa volta positiva, che verosimilmente riuscirebbe ad ottenere compulsando un diverso professionista meno “rigoroso” del primo). Di conseguenza, ogni concordato che viene presentato risulta, alla stregua dell'attestazione positiva rilasciata volta a volta da un esperto, pienamente fattibile, anche se poi si rivelerà – frequentemente - del tutto disastroso.

La sottile operazione di ingegneria procedimentale ha così fatto in modo da eliminare un controllo effettivo che prima veniva esercitato dal Tribunale nell'interesse dei creditori (oltre che della collettività più in generale), rendendo ammissibili le proposte di concordato più improbabili e rovinose (non a caso da qualcuno definite, icasticamente, proposte “indecenti”).

A questo serve, in definitiva, la figura dell'attestatore e a realizzare questo risultato è finalizzata di conserva la tesi che gli attribuisce una sorta di monopolio esclusivo sul giudizio di fattibilità.

Se, dunque, il concordato appare per un verso una procedura debtor oriented, esso è però divenuto ormai ancor di più una procedura professions (ovvero professionals) oriented, con quelle conseguenze negative in termini di esorbitante proliferare di costi per attività professionali spesso inutili o duplicative che sottraggono importanti risorse ai creditori.

Quale sarebbe la soluzione preferibile, dunque, in sede di riforma?

Essa andrebbe individuata a mio avviso – in modo congruente - anche in rapporto all'altro e concorrente obiettivo del disegno di legge delega, quello – cui si è fatto cenno più sopra - di contenimento delle ipotesi di prededuzione, poiché tale beneficio invariabilmente va a tutelare proprio i suddetti crediti professionali sorti in funzione o in occasione del concordato.

A2) Si tratta anche in tal caso di un obiettivo da considerare essenziale, e da realizzare senza dubbio nel quadro soprattutto della eccessiva incidenza delle prededuzioni relative a compensi professionali, ma non si comprende perché realizzarlo semplicemente incidendo o sul quantum dei compensi (come sembrerebbe indicare il disegno di legge) o forse (ma non è precisato dal disegno di legge) sulle ipotesi in cui la prededuzione può scattare (prima dell'inizio del concorso, o solo dopo? se la procedura ha buon esito o anche se l'esito è negativo? ecc.) e non riducendo invece in radice le stesse cause dell'intervento sempre più variegato, pletorico ed enfatico delle figure professionali, che, come si è appena osservato, è alla base dell'esorbitante proliferare dei costi legali nel concordato preventivo.

Occorrerebbe pertanto recidere il nodo gordiano e ridurre le ragioni dell'intervento professionale, eliminando tout court soprattutto l'ambigua e superflua figura dell'attestatore, in tutte le sue varie forme e funzioni (ben potendo essere sostituto dall'attività che viene svolta dal commissario giudiziale) e rendendo superflua anche la nomina di periti stimatori da parte del debitore in epoca ante-concordataria, ben potendo essi venir nominati, all'occorrenza, una volta sola, dal Giudice delegato, a procedura già avviata, per supportare gli accertamenti del commissario giudiziale. Andrebbe poi contestualmente eliminata anche la necessità di valersi di legali ai fini della presentazione della domanda di concordato (da nominarsi a sola discrezione del debitore, quando ritenga di non poterlo fare da sé).

Evidenzio che l'eliminazione della figura dell'attestatore sembra ora quasi essere implicitamente imposta dall'art. 6, lettera f), del disegno di legge delega, laddove si pone, come direttiva, “l'esplicitazione dei poteri del tribunale, con particolare riguardo alla valutazione della fattibilità del piano, attribuendo anche poteri di verifica in ordine alla realizzabilità economica dello stesso” (si legge peraltro nella Relazione: “E' dubbio se, nel rinnovato quadro normativo che s'intende disegnare, conservi reale utilità la figura del professionista indipendente – ma pur sempre designato dallo stesso debitore – chiamato ad attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano concordatario (oltre alle altre numerose ma eventuali funzioni attribuitegli nell'ambito della procedura di concordato dalla normativa vigente). Quanto meno nelle ipotesi in cui la domanda di concordato sia lo sbocco di una precedente procedura stragiudiziale di composizione assistita della crisi o di allerta, è ragionevole ipotizzare che la suddetta funzione attestatrice possa essere stata già adeguatamente assolta dal professionista designato a seguire tale procedura. Più in generale, del resto, l'esperienza di questi ultimi anni – specialmente dopo le modifiche introdotte nel testo dell'art. 161 del r.d. n. 267 del 1942 dall'art. 82, comma, 1, lett. b), del d.l. n. 69 del 2013, convertito nella legge n. 98 del 2013, che ha consentito la nomina del commissario giudiziale anche nella fase di presentazione della domanda di concordato con riserva – sembra suggerire che le attestazioni del professionista sono quasi sempre destinate a successiva revisione ad opera del commissario giudiziale, col concreto rischio di una sostanziale duplicazione di attività e di conseguente spreco di tempo ed aumento finale dei costi per l'impresa. Siffatti dubbi hanno indotto a lasciare aperta la possibilità che il futuro legislatore delegato riveda l'attuale sistema di accertamento della veridicità dei dati aziendali e di attestazione di fattibilità del piano concordatario e, più in generale, chiarisca il contenuto dei poteri del tribunale, con particolare riguardo proprio alla valutazione di fattibilità del piano, attribuendo, in ogni caso, al giudice il potere di verificare, sin dalla fase di ammissione alla procedura, la realizzabilità economica dello stesso”).

Tale disposizione è stata inserita dal Governo ad integrazione/correzione del testo originariamente partorito – in modo molto più timido a questo riguardo - dalla Commissione Rordorf.

Si tratta di un'innovazione senz'altro molto apprezzabile, e da confermare assolutamente.

È infatti uno dei pochi casi in cui emerge con chiarezza la volontà legislativa di conferire finalmente maggior serietà all'istituto concordatario, ripristinando una funzione di controllo tipica ed ineliminabile degli organi della giurisdizione.

Di conseguenza, recuperata al Tribunale la funzione di controllo sulla fattibilità (anche economica) del concordato, non dovrebbe avere più ragione di esistere la figura dell'attestatore, venendo meno l'unico scopo per cui era stata creata (sostituire appunto il Tribunale nell'espressione del giudizio di fattibilità).

In sostanza, tale figura ben può essere ormai eliminata (espressamente), o ne andrebbe quantomeno ridotta la funzione, precisandosi che è limitata solo ad attestare la veridicità dei dati aziendali.

D'altra parte l'art. 24, ult.co., del disegno di legge partorito qualche anno fa dalla Commissione Trevisanato prevedeva, non senza ragione, che fosse il commissario giudiziale a depositare una relazione di fattibilità (i.e.: attuabilità) e non un terzo attestatore (“Il commissario giudiziale deposita una relazione, consultabile dai creditori, sulla attuabilità del piano entro il termine di sessanta giorni dall'apertura della procedura”).

Al professionista attestatore sarebbe comunque più ragionevole chiedere solo un parre tecnico sulla correttezza della contabilità, parere che ha più marcato carattere oggettivo, e può essere poi a sua volta reso oggetto di controllo da parte del Tribunale e del commissario giudiziale, e non un giudizio prognostico, che ha un carattere valutativo più spiccato, e come tale può essere affidato solo ad organi effettivamente ed assolutamente indipendenti ed imparziali.

Può da questo punto di vista forse conservarsi la figura dell'esperto attestatore solo per quella serie di attestazioni, che la legge attuale attribuisce sempre al medesimo esperto, che hanno carattere più circoscritto e tecnico (come in tema di finanziamenti interinali e di pagamenti relativi a prestazioni essenziali).

In via ulteriormente subordinata, se mi si consente, segnalo che, ove volesse nondimeno conservarsi la figura dell'attestatore, ad onta delle considerazioni critiche fin qui svolte, bisognerebbe quantomeno prevederne la nomina ante causam da parte del Tribunale, perché solo in tal modo potrebbe garantirsi una maggiore imparzialità, in termini reali (e non solo formali), di tale figura.

Che del resto, come dimostra la realtà concreta, imparziale è assai difficile che sia, al di là delle intenzioni, almeno nella maggior parte dei casi, proprio per il fatto di svolgere un'attività professionale retribuita dal proprio mandante.

A3) L'art. 6, lettera m), del disegno di legge prevede anche il riordino della disciplina della revoca, dell'annullamento e della risoluzione del concordato preventivo, prevedendo la legittimazione del commissario giudiziale a richiedere, su istanza di un creditore, la risoluzione del concordato per inadempimento.

Benchè tale previsione sembri dislocata rispetto alla problematica dei costi legali, in realtà vi è comunque connessa. Infatti la più concreta e realistica possibilità che si pervenga ad una risoluzione del concordato per inadempimento in ragione della legittimazione conferita al commissario giudiziale renderà meno frequenti – ex ante - le proposte improbabili o non fattibili, facendo anche risparmiare ai creditori, ex post, il costo di tali azioni risolutive.

Un rafforzamento dei poteri del commissario giudiziale ai fini della risoluzione è peraltro più che mai consigliabile al cospetto della eliminazione della figura del concordato meramente liquidatorio programmata con il disegno di legge delega.

Solo tale figura di concordato, infatti, con la mini-riforma del 2015 (D.L. n. 83/2015), è stata sottoposta alla condizione di ammissibilità costituita dall'obbligo di pagamento minimo di almeno il 20% dei crediti chirografari.

Tale innovazione ha prodotto, come aveva pronosticato la Presidente Ferranti, effetti virtuosi.

Infatti, da un lato, il concordato preventivo non è affatto scomparso dai Tribunali, come attestano ad es. i dati statistici del Tribunale di Milano, da cui si evince che il numero delle domande, anche se ha subito una prevedibile riduzione, è rimasto comunque consistente nel primo anno di applicazione della nuova normativa; ma la riduzione che c'è stata ha evidentemente riguardato solo le domande di concordato cd. farlocche, quelle cioè con cui si prospettavano pagamenti nell'ordine della zero virgola percentuale o altre simili cifre indecenti.

Sta di fatto che se si elimina la figura del concordato liquidatorio, non vi è nemmeno più ragione per preoccuparsi di calmierare le procedure di questo tipo con specifiche soglie d'accesso.

Per i concordati con continuità aziendale nessuna soglia d'accesso è invece prevista.

Di conseguenza, almeno per questo tipo di concordati, ha ancora senso rafforzare un sistema di controllo quantomeno ex post, attraverso il regime della risoluzione per inadempimento, rendendolo di più agevole attuazione quando si accerti che la proposta – al di là delle promesse – non può essere attuata in fase esecutiva.

In quest'ordine d'idee la legittimazione del commissario giudiziale alla richiesta di risoluzione s'imponeva ormai come scelta necessitata.

L'aver consentito con le recenti riforme che tale potere spettasse solo ai creditori ha concorso infatti a determinare un vero e proprio blocco perpetuo di attivi patrimoniali immobilizzati per miliardi di euro relativamente a concordati rivelatisi ex post non fattibili, benchè considerati tali ex ante a causa di attestazioni fittizie rese da poco imparziali esperti attestatori, concordati che sono rimasti però non risolubili per la mancanza di convenienza dei creditori ad accollarsi i costi ed i rischi di un'azione di risoluzione che può sfociare, a concordato post-omologa ed in avanzata fase esecutiva, solo in un fallimento, ossia in una procedura che, a quel punto (ma solo a quel punto), certo non è più un'alternativa migliore rispetto al concordato, ma al più un'alternativa che produrrebbe un'uguale insoddisfazione.

Non si comprende però per quale motivo il disegno di legge resti, per così dire, in mezzo al guado, creando una sorta di legittimazione ripartita o di secondo livello (occorre prima l'istanza di un creditore al commissario giudiziale e solo dopo questi può agire). Sembra quasi che il commissario giudiziale non possa accorgersi da solo dell'inadempimento agli obblighi concordatari, avendo necessità che un creditore glielo dica, o che solo se un creditore glielo dica egli possa rinvenire una giustificazione formale all'azione.

Ma si tratta di ragioni prive di senso.

Andrebbe dunque conferito al commissario giudiziale il potere immediato e diretto di chiedere la risoluzione non appena ravvisi i segni di un grave inadempimento.

Infine, non può tacersi che sarebbe opportuno precisare anche espressamente (mentre ora è solo il portato di un'interpretazione giurisprudenziale) che il mancato pagamento dei creditori chirografari in una sia pur minima percentuale (d'ora innanzi nel concordato con continuità aziendale, unica figura che sembrerebbe destinata a restare regolata, ma per qualunque concordato ove dovesse consentirsi il permanere anche dei concordati meramente liquidativi/dissolutori), non è possibile/ammissibile, conseguendone sia la risoluzione ex post, quando tale effetto si verifichi nonostante le contrarie più ottimistiche previsioni, sia la declaratoria d'inammissibilità ex ante in sede di valutazione della proposta e della sua fattibilità (quindi affermandosi l'inammissibilità sia dei concordati a zero, sia delle zero-classi).

Eccessiva sproporzione ed iniquità nel trattamento dei creditori

B) L'obiettivo di una par condicio effettiva

B1) Sembra finalizzata a ridurre le sperequazioni tra creditori la norma del disegno di legge (art. 10) che invita il legislatore delegato a ridurre i privilegi.

  • Aspetti positivi

In effetti l'attuale sistema è caratterizzato da una quantità incredibile di privilegi di fonte legale (un sistema quasi da ancien régime, si direbbe, una sorta di ricorso storico della situazione prerivoluzionaria francese), che rendono, da un lato, del tutto iniquo il trattamento dei creditori ad onta dell'assunzione a sistema del principio di par condicio (art. 2740 c.c.), e, dall'altro, praticamente estranea a qualunque possibilità di concreta soddisfazione la categoria dei crediti chirografari.

Che questa assurda quantità di privilegi venga ridotta non può che salutarsi, dunque, come una soluzione assolutamente positiva.

  • Aspetti negativi

Purtroppo, però, la norma sembra formulata in modo troppo timido ed insufficientemente preciso.

Occorrerebbe invece specificare con maggiore dettaglio il criterio cui il Governo deve attenersi nell'opera di riduzione, perché non è la stessa cosa limitarsi a togliere qualche privilegio qua e là, oppure incidere significativamente su alcuni settori ove i privilegi abbondano a dismisura (ad esempio quello bancario: privilegi per credito industriale, fondiario, peschereccio e così via) anziché su altri settori ancorchè parimenti densi di stratificazioni privilegiate (ad esempio il settore dei crediti fiscali), o attribuire una certa posizione nella graduazione anziché un'altra (al primo posto piuttosto che al 18°), o una certa tipologia di prelazione (mobiliare piuttosto che immobiliare).

La timidezza della previsione normativa va poi ravvisata nella limitata portata della prevista riduzione.

Forse in Italia è utopico sperarlo, ma l'optimum sarebbe seguire l'esempio di quei Paesi (come già fece l'Austria anni fa) che hanno di fatto abolito la gran parte dei privilegi legali prima esistenti o comunque limitato la loro estensione applicativa.

Se nessuno può seriamente dubitare dell'utilità di prevedere un privilegio di massimo grado per i crediti di natura retributiva pura (come il privilegio oggi previsto per i crediti da lavoro subordinato ex art. 2751-bis, n. 1, c.c.), crediti che di solito sono anche di limitata entità nel quantum, può invece apparire discutibile trattare allo stesso modo o con una tutela similare, anche se non identica, crediti che, pur attenendo a prestazioni di lavoro (autonomo o d'impresa), potrebbero – come spesso accade – raggiungere in concreto cifre elevatissime se non anche milionarie (crediti per onorari di avvocato, per le prestazioni delle imprese artigiane, ecc.) assorbendo gran parte degli attivi concorsuali e sottraendoli in modo ingiustificato ad altre categorie di creditori non meno meritevoli, oltre che, sempre, al ceto chirografario.

In una situazione economica di crisi, in cui la “coperta è sempre più corta”, tali sperequazioni sono particolarmente avvertite e creano un diffuso senso di protesta e ripulsa. Una tale reazione si è ad esempio avuta, e ancora continua nei suoi effetti, con riferimento ai privilegi per crediti fiscali, che, pur tradizionalmente molteplici e forti, hanno registrato un picco di massima tutela a seguito del noto intervento normativo del 2011, motivato, come suol dirsi, da ragioni di “cassa”, durante il ministero Tremonti (cfr. l'art. 23, commi 37-38-39-40, D.L. n. 98/2011).

D'altra parte, come ha sottolineato più volte la dottrina, allo stesso modo di tutti i privilegi anche quello tributario grava soprattutto ed in ultima analisi in danno dei creditori “chirografari”, privi di qualsiasi forma di garanzia o di privilegio legale, sì che, “in presenza di un privilegio del fisco imposto dalla legge, in pratica, le tasse del fallito vengono pagate da questi creditori più deboli. Il privilegio tributario, quindi, non è difendibile sul piano della ‘giustizia' distributiva, ma è motivato solo da esigenze di cassa. Inoltre, il privilegio tributario è venato da una sottile incostituzionalità, perché viola il principio di progressività dell'imposizione. I creditori chirografari, infatti, pagano parte delle tasse non pagate dal fallito, e lo fanno in una misura che non ha alcun rapporto con la loro capacità contributiva”.

Secondo tale dottrina, “La soluzione al problema è semplice: eliminare i privilegi tributari, senza i quali il peso economico dei fallimenti verrebbe distribuito più equamente tra gli operatori del mercato e più risorse rimarrebbero nelle loro tasche. Gli effetti macroeconomici delle insolvenze ne risulterebbero attenuati e, forse, verrebbero incentivati concordati e ristrutturazioni” (così Mucciarelli, Quell'ingiusto privilegio del fisco nei fallimenti, in lavoce.info, 04.06.13).

Senza necessariamente concordare con una soluzione così radicale, almeno se limitata a far scomparire i soli privilegi fiscali, sembra comunque il caso di prevedere non solo riduzioni nel numero dei privilegi, ma anche di introdurre variegati correttivi finalizzati a calmierare l'entità della soddisfazione garantita dalla prelazione legale quando essa sia prevista e debba in concreto trovare applicazione, ad es. stabilendosi che un certo privilegio (o qualunque privilegio) può farsi valere fino e non oltre un certo limite quantitativo (un importo in assoluto del credito che ne sia oggetto, oppure, in senso relativistico, per una determinata percentuale del credito garantito, ecc.).

B2) Merita di essere segnalata, nel quadro di una tendenza a ridurre l'incidenza dei privilegi, la previsione del disegno di legge (contenuta nell'art. 6, lettera h) che propone di disciplinare il diritto di voto dei creditori con diritto di prelazione il cui pagamento sia dilazionato, e dei creditori soddisfatti con utilità diverse dal denaro.

Tale previsione fa sua una recente interpretazione della S. Corte che, infrangendo un indirizzo più che secolare, ha affermato come possibile il pagamento dilazionato dei creditori privilegiati nel concordato preventivo, e, siccome è previsto per legge che essi non possano votare se non rinunciando alla prelazione, ha soggiunto che, in caso di prevista dilazione, debba l'attestatore indicare volta a volta quale sia il sacrificio che ne consegue per i creditori privilegiati commisurando ad esso, nel quantum, la misura in cui i creditori possono esprimere il proprio voto come se, in parte de qua, fossero chirografari.

Si tratta di un'interpretazione che, per quanto legittima, è motivata da finalità quantomeno opinabili nel merito (mirando a consentire l'accesso di debitori a concordati “al limite”), e presenta comunque varie controindicazioni, anzitutto perché apre a soluzioni arbitrarie (è difficile infatti proporre criteri di quantificazione certi e di comune/uniforme attuazione sul valore economico del sacrificio causato da una dilazione), a concordati di lunghissima durata (consta ad es. a chi scrive che in un recente e noto concordato sia stata prevista una dilazione di ben 15 anni dei crediti privilegiati …) e al rischio che si faccia gravare il risanamento finanche sui crediti concorsuali retributivi dei lavoratovi, che, pur avendo natura alimentare, potrebbero essere pagati a distanza di anni, così creando serie difficoltà di sopravvivenza a questa categoria di creditori.

Anche a voler conservare (ma a mio avviso sarebbe meglio eliminarla) la prevista possibilità di dilazione ultrannuale (essendo nei limiti dell'anno già consentita dall'art. 186-bis per il concordato con continuità aziendale, unica figura cui la dilazione potrebbe essere applicata una volta eliminata la tipologia del concordato meramente liquidatorio), dovrebbe essere quantomeno posto un limite temporale massimo alla possibile dilazione e a questa andrebbero comunque sottratti i crediti privilegiati retributivi dei lavoratori subordinati.

Quanto ai creditori di cui è prevista la soddisfazione con mezzi diversi dal denaro, bisognerebbe precisare che può trattarsi dei soli creditori chirografari, non apparendo conforme alla stessa natura del privilegio – una volta che se ne ammetta la perdurante previsione legale - la possibile nullificazione con il meccanismo della soddisfazione con mezzi diversi dal denaro riveniente dalla liquidazione dei beni oggetto della prelazione. In ogni caso andrebbero sottratti a tale possibilità, ancora una volta, quantomeno i crediti retributivi dei lavoratori subordinati.

Eccessiva durata e complessità dei procedimenti concorsuali

C) L'obiettivo della riduzione

C1) L'art. 2 del disegno di legge delega prevede l'adozione di un unico modello processuale per l'accertamento dello stato di crisi o di insolvenza.

Precisa inoltre che tale modello dovrebbe ispirarsi al vigente articolo 15 l. fall., con caratteristiche di particolare celerità, anche in fase di reclamo.

Dovrebbe altresì prevedersi la legittimazione ad agire dei soggetti con funzioni di controllo e vigilanza sull'impresa, ammettendo l'iniziativa del pubblico ministero in ogni caso in cui egli abbia notizia dell'esistenza di uno stato di insolvenza.

  • Aspetti positivi

Si tratta di misure condivisibili in linea di principio.

Non è il caso di soffermarsi sull'adozione di un modello unitario per l'accertamento dello stato di crisi, che mira a semplificare i procedimenti, ma non ha una rilevanza davvero sensibile.

Più interessanti sono due particolari profili connessi a tale modello unitario.

Il primo non emerge dall'articolato, ma piuttosto dalla Relazione, ove si legge che: “Il procedimento sarà suscettibile di diversi possibili esiti, a seconda del tipo di provvedimento richiesto al giudice e dell'accertamento positivo o negativo della sussistenza delle relative condizioni; ed appare coerente con questa logica il prevedere che un iniziale percorso concordatario, ove rivelatosi impraticabile, possa convertirsi automaticamente in un esito di tipo liquidatorio (corrispondente all'attuale fallimento), senza necessità di una nuova domanda – e dunque con risparmio di tempi e di costi – poiché l'iniziale domanda di regolazione della crisi sussume in sé tutti i prevedibili esiti del percorso giudiziale”.

Sarebbe in effetti opportuno che si disciplinasse il percorso processuale anche quanto al suo esito nel modo indicato nella Relazione, solo che, siccome mi pare che non ve ne sia traccia nel disegno di legge delega (a meno che mi sia sfuggito qualche importante dettaglio), è assai dubbio che poi questo divenga anche l'approdo cui pervenire in sede delegata.

Andrebbe dunque specificato meglio il testo della delega in tale parte.

Il secondo profilo riguarda la prevista legittimazione ad agire (anche) dei soggetti con funzioni di controllo e di vigilanza sull'impresa.

L'innovazione è senz'altro utile, perché è una garanzia in più contro la possibile inerzia degli organi amministrativi, che sono quasi sempre i principali responsabili (anche se non necessariamente gli unici) del dissesto dell'impresa.

E proprio in ragione di tale funzione suppletivo/integrativa (che – si potrebbe dire - naturalmente è chiamato a svolgere l'organo sindacale) é apprezzabile che il riferimento sembri fatto proprio ed in primo luogo a tale organo, più che (o non solo) agli organi di mera revisione contabile, che tale funzione suppletiva normalmente non hanno (questi vengono invece espressamente evocati – ma solo in via aggiuntiva – nell'art. 4, che, rispondendo ad una finalità analoga, prevede la disciplina di meccanismi di allerta per far emergere la crisi).

Ed anche la previsione del potere di iniziativa - con caratteri di maggiore generalizzazione - da parte del pubblico ministero è appezzabile, poiché risponde alla necessità di coprire in modo confacente l'area dell'intervento pubblico (indubbiamente essenziale ed ineliminabile) nelle procedure di crisi in luogo dell'abrogata e pregressa competenza officiosa del Tribunale.

  • Aspetti negativi

Non si chiarisce tuttavia abbastanza, benchè l'obiettivo sia stato reso oggetto di uno specifico criterio direttivo, il modo e la misura in cui dovrebbe realizzarsi la particolare celerità del procedimento per l'accertamento dello stato di crisi o di insolvenza.

L'obiettivo è certamente condivisibile, poiché mira a superare, in questa parte, la criticità sopra indicata (eccessiva durata e complessità dei procedimenti); ma occorre senza dubbio una maggiore specificazione, tanto più se si considera che il procedimento prefallimentare attuale è già alquanto celere (o in concreto può esserlo).

In ogni caso sembra necessario che il Parlamento indichi al Governo con maggiore specificità il criterio da seguire per realizzare la maggiore celerità, atteso che ogni accelerazione inevitabilmente implica, ex altero latere, un aggiustamento, un bilanciamento che incide su qualcosa o su qualcuno, e quindi è opportuno controllare che la soluzione non sia poi asimmetricamente penalizzante, colpendo sempre e solo la giurisdizione.

Bisognerebbe dunque evitare, in particolare, di adottare misure che si risolvano in un aggravio di lavoro per i Tribunali, già fin troppo oberati, a meno che non si prevedano rinforzi di personale.

È da segnalare inoltre come nulla si dica sul procedimento di reclamo e sul relativo regime delle prove, benchè quest'ultimo abbia un rilievo essenziale.

L'attuale sistema, che, secondo l'interpretazione della S. Corte, consente al debitore di provare ex novo, pur non avendolo fatto prima innanzi al Tribunale nel corso della istruttoria prefallimentare, la ricorrenza delle soglie di non fallibilità, produce infatti un irrazionale spreco di giurisdizione, visto che consente di stravolgere la decisione (di fallimento) che pure è stata assunta del tutto legittimamente in primo grado nella puntuale e rituale applicazione di uno specifico criterio probatorio previsto dalla legge.

Se, infatti, si consente al Tribunale di dichiarare il fallimento presumendo inesistenti le soglie di non fallibilità in difetto di prova contraria, che al riguardo il debitore è onerato a fornire, non appare affatto congruente che la decisione fondata su detta presunzione sia del tutto irrilevante in appello, al punto da essere ribaltata sic et simpliciter con un postumo repechage dei poteri probatori da parte del debitore rimasto inerte in prima istanza.

Una limitata possibilità di contro-prova in tale fase dovrebbe quindi essere circoscritta ai soli casi in cui il debitore si sia difeso, per quanto inefficacemente, in prima istanza, o non abbia potuto difendersi incolpevolmente, senza alcuna possibilità di repechage, invece, nei casi in cui egli sia rimasto del tutto e liberamente contumace innanzi al Tribunale.

C2) L'art. 2 propone poi di uniformare e semplificare, in raccordo con il processo civile telematico, la disciplina dei diversi riti speciali previsti dalle disposizioni in materia concorsuale.

  • Aspetti positivi

Anche tale obiettivo è pienamente condivisibile, per le ragioni medesime appena riferite.

  • Aspetti negativi

Anche in tal caso non si specifica però abbastanza con quale criterio deve procedersi all'unificazione e semplificazione dei riti speciali, laddove sarebbe stato molto più utile, invece, fare subito una scelta radicale, ad esempio facendo riferimento ad un solo rito di tipo camerale semplificato, ad istruttoria sommaria, con durata predeterminata e (soprattutto) che si svolga al massimo in due gradi (due gradi di merito, senza ricorribilità in cassazione, o, alternativamente, se si reputasse irrinunciabile la possibilità di ricorrere in cassazione, un solo grado di merito ed un grado di legittimità).

Tutti i procedimenti concorsuali, del resto, mirano ad accertamenti esclusivamente funzionali ad un risultato relativo, e non assoluto. Quando ad es. si vuole accertare un credito, almeno alla luce dell'attuale sistematica, è solo per consentire la partecipazione al concorso, non perché esista un interesse assoluto ad avere un giudicato esterno sulla sussistenza del credito. L'accertamento ha, cioè, valenza tendenzialmente solo interna al concorso, non già efficacia esterna (anche se ora il disegno di legge vuole giustamente dare un rilievo extraconcorsuale agli accertamenti riguardanti i diritti reali sui beni). Idem per gli accertamenti eventuali che si svolgono in materia di graduazione, finalizzati solo al riparto. Ciò rende ragione del perché può rinunciarsi a realizzare una tutela di massimo grado, accontentandosi di una tutela più sommaria e rapida (eventualmente con qualche facoltà processuale in più se e laddove, trattandosi di diritti reali, si preveda l'effetto di giudicato esterno).

L'unicità e semplicità del rito potrebbe poi incidere – riducendoli – sui costi legali, prevedendosi all'uopo uno specifico parametro di calcolo dei compensi (legali, periti ecc.) in misura adeguatamente contenuta.

Deve aggiungersi peraltro che, attualmente, risulta incongrua la disciplina fiscale dell'imposta di registro con riferimento ai procedimenti di accertamento dei crediti nel fallimento quando vi sia impugnazione/opposizione allo stato passivo, almeno per come viene di solito interpretata ed applicata. In tal caso, infatti, gli uffici tributari applicano spesso l'imposta proporzionale di registro come se i decreti di ammissione al passivo fossero sentenze idonee al giudicato esterno, anziché decreti con mera efficacia endofallimentare. La distorsione andrebbe corretta, poiché penalizza con costi incongrui e spesso elevatissimi (quando l'accertamento acceda a crediti di importo consistente) i riparti fallimentari, a danno dei creditori (mentre potrà applicarsi il regime ordinario nel sopraricordato caso in cui gli accertamenti abbiano ad oggetto diritti reali con efficacia di giudicato esterno).

C3) La norma suddetta propone, in generale, di ridurre la durata (ed i costi) delle procedure concorsuali anche attraverso misure di responsabilizzazione degli organi di gestione.

  • Aspetti positivi

Superfluo riconoscere la piena condivisibilità di tale obiettivo, che mira al superamento della criticità in esame.

  • Aspetti negativi

Viene indicata, come criterio da seguire, una maggiore responsabilizzazione degli organi di gestione. Sembra di capire che responsabilizzando di più un curatore si potrebbe ridurre la durata di un fallimento.

Può darsi. E ben venga tale misura, se è capace di realizzare il risulto divisato.

Ma ci si consenta di pensare che a questo scopo siano indispensabili ben altre misure, di carattere più oggettivo e strutturale, che rendano quindi più agevoli le vendite, più rapidi i procedimenti che gemmano all'interno del concorso, che eliminino il surplus di adempimenti inutili.

A questo riguardo, tra i tanti possibili interventi che potrebbero essere adottati (ma che qui sarebbe assurdo elencare con pretese di completezza), credo ad es. che, stante l'attuale crisi immobiliare e l'incapacità del mercato di assorbire i cespiti immobiliari, sarebbe opportuno affiancare al programmato sistema del common, superando alcune remore teorico/ideologiche del passato, la possibilità di assegnazione dei beni immobili ai creditori ipotecari, conformemente a quanto previsto dall'art. 589 c.p.c. per l'esecuzione ordinaria. L'assegnazione potrebbe effettuarsi a valore di perizia e fino a concorrenza del proprio credito, salvo conguaglio. Da puntualizzare che, essendo di solito le banche i creditori ipotecari, questo consentirebbe loro di eliminare dai bilanci crediti incagliati o svalutati, incrementando l'attivo per il valore dei beni materiali acquisiti, ma ovviamente lasciando alle banche stesse di valutare se vi sia convenienza all'assegnazione anche in relazione alla necessità di non superare i parametri relativi al patrimonio di vigilanza. Infatti l'assegnazione potrebbe e dovrebbe disciplinarsi come facoltativa, e non obbligatoria.

C4) Altro criterio che la norma indica è quello della specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale, con adeguamento degli organici degli uffici giudiziari la cui competenza risulti ampliata. Si indicano tre direttive, la prima delle quali prevede di attribuire ai tribunali sede delle sezioni specializzate in materia di impresa la competenza sulle procedure di amministrazione straordinaria e relative ai gruppi di imprese di rilevante dimensione.

Mi soffermo solo su questa direttiva.

  • Aspetti negativi

Sarebbe il caso di tenere assolutamente separate le sezioni fallimentari, dei cui giudici si intende programmare la specializzazione, dalle sezioni specializzate in materia di impresa, che altrimenti diventerebbero esasperatamente enfatiche e super-numerose, e vedrebbero sovrapporsi in modo promiscuo competenze del tutto diverse (in materia industriale, societaria e ora anche fallimentare) con un risultato esattamente opposto a quello della ipotizzata specializzazione. Tra l'altro occorre evitare anche che una sola sezione accumuli in sé non solo un enorme carico di attività, ma anche un enorme potere che potrebbe avere effetti distorsivi nel tessuto economico se non gestito con oculatezza e buon senso.

Quindi può certo restar fermo il criterio di competenza territoriale con riferimento ai Tribunali ove è presente la sezione specializzata dell'impresa, ma a condizione di tenere comunque distinta ed autonoma la sezione fallimentare, con le sue proprie competenze.

Rilevo inoltre che, mentre il riferimento alle procedure di amministrazione straordinaria è in sé di facile applicazione ai fini del radicamento della competenza, possono creare invece problemi il radicamento della competenza (al di fuori delle procedure suddette di amministrazione straordinaria) le procedure riferibili a gruppi di imprese di rilevanti dimensioni. Tale ipotesi di competenza andrebbe quindi quantomeno rafforzata con criteri solidissimi e semplicissimi di individuazione del Tribunale, da indicare già in sede di delega.

C5) L'art. 2, lett. n), prevede anche l'istituzione presso il Ministero della giustizia di un albo dei soggetti destinati a svolgere, su incarico del tribunale, funzioni di gestione o di controllo nell'ambito delle procedure concorsuali.

  • Aspetti positivi

L'istituzione dell'albo va vista in astratto con favore, poiché potrebbe aggiungere trasparenza, rendendo chiaro il numero (e la tipologia) degli incarichi ricevuti dai professionisti, in qualche misura controllando anche la qualità professionale dei nominandi.

  • Aspetti negativi

Non è chiaro però chi avrà la competenza a decidere i nominativi che andranno ad alimentare tale albo.

Una soluzione che affidasse alla sola sede amministrativa la selezione dei professionisti andrebbe evitata. Potrebbero infatti riprodursi le condizioni di discrezionalità che hanno alimentato nel recente passato nomine clientelari nelle procedure di amministrazione straordinaria, con gravi ripercussioni sull'efficienza delle stesse.

A mio avviso o dovrebbe semplicemente attribuirsi ai Tribunali – che sono peraltro gli organi che poi decideranno le nomine nelle singole procedure - la competenza a decidere dell'inserimento nell'albo sulla base dei requisiti che verranno indicati in sede delegata, o al più dovrebbe ipotizzarsi un concerto: ad es. i singoli Tribunali potrebbero raccogliere le candidature e selezionare quelle ritenute idonee, e poi trasmettere queste ultime al Ministero per un parere conclusivo finale (anche eventualmente di carattere vincolante).

Mancanza di adeguate misure finalizzate ad incentivare l'emersione anticipata della crisi ed a conservare e riattivare le imprese effettivamente risanabili

D) L'obiettivo dell'introduzione di strumenti idonei a realizzare tale emersione e conservazione/risanamento

D1) Quanto alle misure d'allerta previste dall'art. 4 del disegno di legge delega, la loro introduzione – propiziata già fin dall'epoca della “Commissione Trevisanato” nel 2004 - è senza dubbio tra le novità in astratto più positive e segue gli auspici più volte manifestati anche da chi scrive.

La scelta, che sembra ormai imposta anche dalle direttive europee (la Raccomandazione della Commissione dell'Unione del 12 marzo 2014, 2014/135/UE (cfr. il Considerando n. 1) vuole infatti che sia garantito “alle imprese sane in difficoltà finanziaria, ovunque siano stabilite nell'Unione, l'accesso a un quadro nazionale in materia di insolvenza che permetta loro di ristrutturarsi in una fase precoce in modo da evitare l'insolvenza, massimizzandone pertanto il valore totale per creditori, dipendenti, proprietari e per l'economia in generale”), è spiegabile anche in correlazione con la soluzione – che esaminerò fra poco – dell'inammissibilità di un concordato meramente liquidatorio: infatti, se la crisi emerge tempestivamente ha senso conservare l'impresa, non certo dissolverla con un'attività meramente liquidativo/estintiva.

  • Aspetti positivi

La novità può colmare la lacuna riguardante la c.d. twilight zone, ossia quella fase del dissesto, prodromica allo stato di crisi, che, se tempestivamente denunciata, potrebbe consentire soluzioni di salvataggio e conservazione dell'impresa.

Va visto inoltre con favore, come già detto, l'obbligo di segnalazione posto a carico dell'organo di controllo sindacale oltre che degli organi di revisione, in via cumulativa.

Del resto, un obbligo del collegio sindacale è espressamente previsto nella corrispondente disciplina delle misure d'allerta dell'ordinamento concorsuale francese, ove l'istituto in concreto funziona.

Inoltre, l'obbligo sembra perfettamente in linea con quanto previsto dall'art. 2406 c.c., a tenore del quale quando il collegio sindacale “ravvisi fatti censurabili di rilevante gravità e vi sia urgente necessità di provvedere”, deve convocare l'assemblea, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione. Che fatti gravi idonei a far scattare tale potere/obbligo di attivazione possano attenere al prodursi di una crisi/insolvenza è di tutta evidenza.

Ma oneri di attivazione ai fini della prevenzione della crisi/insolvenza sembrano desumibili anche dalla previsione secondo cui i soci possono denunciare ai sindaci “fatti censurabili” e “se la denunzia è fatta da tanti soci che rappresentino un ventesimo del capitale sociale o un cinquantesimo nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, il collegio sindacale deve indagare senza ritardo sui fatti denunziati e presentare le sue conclusioni ed eventuali proposte all'assemblea; deve altresì, nelle ipotesi previste dal secondo comma dell'art. 2406 c.c., convocare l'assemblea”.

Non può tacersi che solo imponendo obblighi specifici di segnalazione può abbattersi il muro di omertà che spesso, al presentarsi della crisi, lega l'imprenditore e gli organi di controllo, omertà chiaramente dipendente dal fatto che questi ultimi sono scelti e nominati da lui stesso.

Infine, non può che salutarsi con favore l'obbligo di segnalazione imposto ai creditori qualificati, quali Fisco ed INPS.

Troppo spesso, infatti, questi enti restano inerti pur dinanzi all'accumularsi di debiti fiscali e contributivi elevatissimi, come tali segno inequivocabile di uno stato di crisi/insolvenza. Solo a titolo esemplificativo, allego in calce una sentenza del Tribunale di Milano, con la quale fu dichiarato su iniziativa di Equitali il fallimento di una S.r.l. del tutto sconosciuta alle cronache, che, pur di fatto completamente priva di patrimonio sin dall'inizio della sua esistenza, e con un amministratore resosi ormai uccel di bosco all'estero, aveva accumulato un debito fiscale pari all'astronomica cifra di euro 2.094.495.324,53. È chiaro che, per arrivare a tale cifra, occorrono vari anni anche per i truffatori più esperti, ma il tempo era tranquillamente passato senza che il Fisco avesse ritenuto di attivarsi in qualche modo per una più prematura segnalazione dell'insolvenza.

  • Aspetti negativi

Andrebbero forse specificamente indicati, per maggior garanzia preventiva, gli incentivi premiali per il debitore che si attivi in modo solerte, e che però non dovrebbero ridondare in danno dei creditori comuni (vanno bene ad es. i benefici fiscali, o l'esonero da sanzioni civili/penali, ecc.; non sono consigliabili invece moratorie nel pagamento dei creditori o riduzione di interessi e così via), ed al contempo andrebbero meglio chiarite in via preventiva le possibili sanzioni. Tenuta ad es. presente la programmata introduzione di un'ulteriore fattispecie di bancarotta semplice ai sensi degli articoli 217 e 224 l. fall., si potrebbe prevedere la revisione delle pene accessorie di cui all'ultimo comma dell'articolo 217, estendendo la durata dell'inabilitazione all'esercizio dell'impresa commerciale e all'esercizio di uffici direttivi dagli attuali due anni, ad un periodo variabile tra un minino di 5 ed un massimo di 10 anni.

Quanto alle sanzioni verso i soggetti tenuti alle segnalazioni, tra queste si prevede già la perdita di privilegi per i crediti vantati, ma andrebbe anzitutto precisato se la sanzione si applica solo laddove venga poi dichiarato un fallimento o anche quando venga aperto un concordato, e poi se essa sia applicabile o meno d'ufficio, quesiti a cui suggerirei di rispondere positivamente in entrambi i casi.

Non è chiaro, peraltro, il rapporto che sussiste tra l'obbligo di segnalare lo stato di crisi e quello di segnalare l'insolvenza, e sarebbe invece il caso di precisarlo.

Se, ad es., l'organo di controllo omette di segnalare lo stato di crisi e si ricorda di fare una segnalazione solo quando ormai vi è un'insolvenza conclamata, il fatto che comunque abbia fatto tale ultima segnalazione esclude o non esclude le sanzioni per l'omessa comunicazione antecedente dello stato di crisi?

Si tratta di un aspetto problematico – quello del rapporto tra obbligo di segnalazione della crisi e obbligo di segnalazione dell'insolvenza - che ha un rilievo peraltro più generale nell'ambito delle misure di allerta.

Vediamole dunque più da vicino.

è stato previsto di affidare lo svolgimento di una prima fase extragiudiziale e riservata di “sondaggio” per la verifica dello stato di crisi e di monitoraggio delle attività che l'imprenditore dovrebbe porre in essere per superarlo ad una sezione specializzata dell'Organismo di composizione della crisi, che poi, solo su eventuale richiesta del debitore, dovrebbe affidare ad un soggetto di adeguata professionalità nella gestione della crisi d'impresa, iscritto presso l'organismo stesso, l'incarico di addivenire ad una soluzione concordata della crisi tra debitore e creditori.

Non vi è però, anzitutto, alcuna precisazione sul modo in cui dovrebbero selezionarsi i soggetti di adeguata professionalità da inserire negli organismi, lacuna da colmare assolutamente, per evitare che il meccanismo di allerta cada proprio sul difetto di autorevolezza e credibilità di chi deve fornire supporto consulenziale in questa fase.

Si prevede, peraltro, alle successive lettere h) e i) dell'art. 4, che l'OCC, effettuata la verifica della situazione patrimoniale, economica e finanziaria in essere ai sensi della precedente lettera d) con l'individuazione concomitante delle misure idonee a porre rimedio allo stato di crisi, rilasci una conclusiva attestazione, certificando se l'imprenditore ha posto in essere tali misure. In caso negativo, l'OCC ne dà comunicazione al presidente della sezione specializzata in materia di impresa del tribunale del luogo in cui l'imprenditore ha sede. Si soggiunge che a tale comunicazione l'OCC provvede anche quando l'imprenditore non partecipa, senza giustificato motivo, al procedimento innanzi all'organismo. Quindi il presidente della sezione specializzata convoca immediatamente l'imprenditore e, quando occorre, affida ad un professionista in possesso dei requisiti di cui all'art. 67, secondo comma, l. fall. l'incarico di verificare la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell'impresa. Se dalla relazione depositata dal predetto professionista risulta che l'impresa versa in stato di crisi, il presidente assegna un termine per intraprendere le misure idonee a porvi rimedio, decorso inutilmente il quale dispone la pubblicazione della relazione medesima nel registro delle imprese.

L'art. 4 però non chiarisce dunque a chi debba pervenire l'attestazione positiva che, in via alternativa, può essere rilasciata dall'OCC, e a quale eventuale regime pubblicitario sia soggetta, limitandosi a specificare solo a chi debba pervenire quella negativa.

Non viene inoltre chiarito quali misure siano idonee a superare la crisi, ammesso che si tratti di crisi superabile, lasciandosi forse troppo spazio alle opinioni che al riguardo andrà ad esprimere l'Organismo di composizione della crisi.

Resta dubbio inoltre che rapporto vi sia tra la procedura di allerta e il vero e proprio procedimento concorsuale unitario di superamento della crisi, tenuto conto che l'una e l'altro sembrano avere lo stesso presupposto oggettivo minimale, la crisi appunto, e che entrambi i procedimenti possono essere attivati dai medesimi soggetti.

Vero è che la procedura di allerta sembra destinata a coprire, stante il regime di riservatezza, una fase temporale tendenzialmente sempre anteriore e prodromica al procedimento concorsuale vero e proprio, ma tale caratteristica sembra venir meno, insieme al venire meno della riservatezza, quando il debitore autorizzi l'Organismo di composizione della crisi a far esperire una sondaggio tra i creditori o il debitore chieda misure protettive.

In queste ipotesi, infatti, la situazione di crisi non solo risulta segnalata, ma anche esteriorizzata pubblicamente, e di fatto ciò avviene attraverso la messa in atto di misure coincidenti o comunque compatibili con quelle che accompagnano il procedimento concorsuale unitario.

Nulla il disegno di legge dice poi sull'ipotesi in cui il professionista qualifichi la crisi come vera e propria insolvenza. Ci si chiede: l'Organismo di composizione della crisi prima, o il presidente dopo, hanno o non hanno il potere/dovere di inviare comunque la notitia decoctionis al PM, a prescindere dalla pubblicazione della relazione nel registro delle imprese?

Credo che la risposta non possa che essere positiva, ma anche in questo caso sarebbe forse meglio precisarlo subito.

Infine, mi pare che l'intera fase procedimentale innanzi al presidente sia un vero e proprio doppione del procedimento già promosso presso l'Organismo di composizione della crisi, con un'esorbitante rischio di burocratizzazione e di eccessiva durata del procedimento.

Infatti l'Organismo di composizione della crisi fa un primo accertamento sulla esistenza della crisi e, se la reputa sussistente, individua le misure per superarla; quando poi invia al presidente della sezione specializzata la certificazione negativa, attestando che l'imprenditore non ha posto in essere tali misure (o, si deve ritenere, che le ha poste in essere in modo insufficiente), il presidente può nominare a sua volta un esperto per accertare ex novo se la crisi esiste.

Sebbene quella del presidente sia una nomina facoltativa, e non obbligatoria o automatica, quando essa viene fatta si verifica dunque una pura e semplice ripetizione della fase di accertamento della crisi già svolta innanzi all'OCC.

Si può di conseguenza avere non solo uno spreco di risorse, ma anche il rischio – poco augurabile - di contraddittorietà tra le conclusioni cui potrebbe pervenire l'Organismo di composizione della crisi, negando ad es. che la crisi sia stata adeguatamente affrontata, e quello nominato dal presidente, che ben potrebbe affermare il contrario; o quando l'uno affermi e l'altro neghi che sussista vera e propria insolvenza, con complicazioni ancora maggiori

Inoltre non si comprende quando il presidente possa reputare inutile nominare l'esperto, né che cosa debba o possa fare in tal caso. È dubbio, in particolare, se possa disporre l'immediata pubblicazione sul registro delle imprese della attestazione negativa rilasciata dall'OCC, poiché la lettera i) sembra far dipendere tale pubblicazione solo dall'inutile decorso del termine assegnato dal presidente all'imprenditore affinchè intraprenda le misure idonee a porre rimedio alla crisi. Si tratta di lacuna che sarebbe meglio colmare in anticipo, per evitare che il difetto di criterio direttivo o impedisca in sede di delega di poterla colmare, o porti ad una soluzione non controllata ed inadeguata.

A mio avviso, prendendosi spunto dalla ormai collaudata normativa francese, si potrebbe più semplicemente affidare subito al Presidente (ma, si badi, al Presidente della sezione fallimentare, non al Presidente della sezione specializzata in materia d'impresa) la funzione che la norma affida preliminarmente all'OCC, lasciandolo libero di decidere sull'esito che può avere il monitoraggio, così eliminando anche la duplicità dei costi che la doppia fase – amministrativa e giudiziale - inevitabilmente implica.

Quanto a tale aspetto, nulla si dice nemmeno su chi deve sopportare tali costi, ma sia l'OCC che il professionista nominato dal Tribunale da qualcuno devono pur essere pagati, e ritengo che non si possa sfuggire alla necessità di imporre un obbligo di rimborso in capo al debitore, salvi forse i casi in cui questo si attivi di sua iniziativa tempestivamente, fermo restando che potrebbe apparire esagerato scaricare comunque i costi sulla collettività anche laddove il debitore si sia attivato per primo per segnalare la crisi, ma poi abbia chiesto la nomina di un esperto per sondare con i creditori la possibilità di pervenire ad una soluzione della crisi, attività che sembra coincidere con quella che qualunque debitore fa di norma effettuare a sue spese quando propone un concordato o un preconcordato o un accordo di ristrutturazione dei debiti.

È forse il caso di segnalare anche che il disegno di legge delega prevede conseguenze negative per l'imprenditore quando l'ipotesi di soluzione della crisi non abbia buon esito per sua colpa, mentre nulla prevede nel caso in cui tale esito dipenda da un'attività inadeguata dell'Organismo di composizione della crisi, ciò che appare tutt'altro che impossibile, tanto più in difetto di una specificazione analitica e certa dei requisiti attitudinali e di esperienza dei soggetti che dovranno svolgere attività mediatoria/consulenziale. Dal che segue anche la necessità di predisporre un meccanismo di tutela del debitore contro una mala gestio del procedimento (anche quanto all'eventuale violazione degli obblighi di riservatezza) da parte dell'Organismo di composizione della crisi.

Se poi si dovesse reputare che la gestione immediata in sede giudiziale della procedura d'allerta (che personalmente credo più efficace) possa creare diffidenze nelle imprese debitrici o comunque resistenze diffuse nel ceto imprenditoriale, dovrebbe quanto meno snellirsi il procedimento attualmente proposto, che, nei termini in cui risulta delineato nel disegno di legge delega, sembra eccessivamente lungo e farraginoso, specie con riguardo all'appena criticata previsione di una doppia fase.

Si potrebbe così eventualmente concentrare tutta l'attività di verifica e monitoraggio presso l'OCC con vincolo di riservatezza, ma rendendo poi il presidente libero di valutare (de plano, senza altro spreco di tempo e risorse) se disporre o meno la pubblicazione nel registro delle imprese della negativa segnalazione che gli venga inviata dall'OCC (a sua volta causata dalla mancata adozione in termini delle misure di superamento della crisi suggerite da tale Organismo in persona dell'esperto nominato ad hoc), a seconda della situazione concreta (tenendo conto degli sforzi fatti dal debitore, delle dimensioni dell'impresa, della eventuale opinabilità delle valutazioni circa il possibile superamento della crisi, ecc.), ovvero – quando ne ricorra il caso - di fare un'immediata segnalazione al PM in caso di ritenuta esistenza di uno stato d'insolvenza.

D2) È stata prevista dall'art. 6 del disegno di legge l'inammissibilità di proposte di concordato preventivo che, in considerazione del loro contenuto sostanziale, abbiano natura essenzialmente liquidatoria.

  • Aspetti positivi

Va salutata con favore la soluzione contraria ad accordare il beneficio del concordato preventivo ad imprese la cui sorte è la mera dissoluzione/estinzione, per le quali, dunque, il concordato avrebbe solo la finalità di liquidare gli attivi, come in un ordinario fallimento, ma con costi – secondo quanto già detto – enormemente superiori.

In sostanza, sembrerebbe destinata all'obsolescenza la figura del concordato (liquidatorio semplice) con cessione dei beni, ferma restando invece la perdurante possibilità di presentare concordati con continuità aziendale comprese le varianti liquidatorie ammesse dall'art. 186-bis l. fall. in cui si conferisca o ceda un'azienda in esercizio (con le precisazioni che seguiranno fra poco) o concordati conformati sullo schema del vecchio concordato per garanzia (o promissorio), nei quali il debitore non faccia cenno alcuno alla prosecuzione dell'impresa, che probabilmente resterebbe un dato di mero fatto, e non invece una connotazione formale del piano o della proposta.

  • Aspetti negativi

Una prima criticità va però ravvisata nell'equivocità del concetto “natura essenzialmente liquidatoria” che, a seguito della attuale presenza di una nozione sui generis di concordato con continuità aziendale, appare assai equivoca.

Nell'attuale disciplina, infatti, la continuità dell'impresa viene predicata dall'art. 186-bis l. fall. sub specie di “continuità aziendale”.

Sennonchè tale norma, proprio in ragione del riferimento all'azienda (per distaccare e oggettivizzare ciò che si intende salvare, ossia l'azienda in esercizio, senza necessariamente che la finalità conservativa presupponga la continuazione dell'impresa da parte dello stesso debitore anche dopo l'omologa), include tra le 3 possibili forme che può assumere il concordato con continuità aziendale 2 forme tipicamente liquidatorie (cessione dell'azienda in esercizio e conferimento della stessa in una società), a loro volta compatibili con la figura del concordato con cessio bonorum.

Andrebbe dunque chiarito se anche queste due forme saranno o meno escluse in forza della limitazione prevista dal disegno di legge, o se, invece, pur in presenza del carattere liquidatorio, la presenza di un'azienda ancora vitale, per quanto da trasferire a terzi, consenta di includervele.

In quest'ultima ipotesi, andrebbe peraltro stabilito se applicare o meno la soglia del 20% oggi prevista (solo) per l'accesso al concordato liquidatorio.

Sotto quest'ultimo aspetto deve osservarsi che, a ben vedere, non vi sarebbe alcuna adeguata ragione per non applicare tale soglia alle due suddette forme di concordato, visto che esse hanno appunto natura liquidatoria, laddove l'esenzione dal rispetto della soglia può avere una giustificazione solo se l'impresa permane in capo al titolare che progetta di proseguirla.

Una soluzione equa ed intermedia potrebbe essere quella di stabilire che, fermo restando l'obbligo di attivare la procedura competitiva di cui all'art 163-bis l. fall. quando il piano già contempli l'offerta di un soggetto terzo per l'acquisto dell'azienda, in caso di offerta cauzionata la soglia di ammissibilità di cui all'art. 160 u.c. l. fall. si riduca (dal 20%) ad es. ad un 10-15% dell'ammontare complessivo dei creditori chirografari.

Vale però un warning: qualora fosse reintrodotta durante l'iter parlamentare l'ammissibilità del concordato liquidatorio, andrebbe confermata come essenziale la necessità di rispetto di una soglia minima d'accesso, quale è oggi prevista nella misura minima del 20% ed in tal caso andrebbe ulteriormente precisato che, quando il debitore proponga una pagamento per importo maggiore della soglia minima, deve poi intendersi impegnato ad onorare tale più elevata promessa (ossia nella misura maggiore indicata dallo stesso proponente, e non nel solo minimo di legge), pena la risoluzione del concordato (quando – beninteso - l'inadempimento sia comunque grave in concreto).

Infine, andrebbe precisato che la soglia minima d'accesso del 20% deve applicarsi anche ai concordati per garanzia non conformati come concordati in continuità aziendale in senso stretto.

Ho già rilevato sopra che in questi casi il debitore può non fare cenno alcuno alla prosecuzione dell'impresa, che probabilmente resta un dato di mero fatto, non invece una connotazione formale del piano o della proposta. Ma siccome in tali fattispecie la continuità non viene dedotta come elemento di connotazione del concordato, non vi è ragione per non imporre una soglia minima d'accesso, beneficio che sembra giustificabile solo quando ciò che si intende tutelare sia, appunto, la continuità dell'impresa/azienda.

Eliminazione della cd. passerella

Com'è noto, l'attuale disciplina, legittimando il debitore a presentare un concordato in bianco, non obbliga l'imprenditore ad indicare subito, in modo impegnativo, se intende presentare un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. o invece un concordato preventivo, e, in questa seconda ipotesi, se di tipo liquidatorio o invece risanatorio/in continuità.

Ciò ha determinato in concreto effetti deleteri.

In primo luogo, questo spazio bianco e vuoto facilita il puro e semplice rinvio delle decisioni sulle strategie da assumere per la soluzione della crisi, lasciando l'imprenditore libero nel frattempo di aumentare le passività, ma fruendo del beneficio costituito dalla paralisi delle iniziative esecutive e cautelari.

Quando invece l'impresa è, e per di più si auto-dichiara, in crisi, esigere che si assuma subito la responsabilità di una scelta strategica, pur con il diritto di avvalersi di un certo tempo per coltivarla adeguatamente, dovrebbe considerarsi il “minimo sindacale”.

In difetto, si producono anche quei vari aspetti critici che la prassi ha segnalato: ad es., l'incertezza sulla possibilità o meno di autorizzare in fase di preconcordato lo scioglimento dei contratti pendenti, essendovi il rischio che poi il debitore non proponga un concordato preventivo nel termine assegnatogli dal Tribunale, ma un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall., procedimento che, avendo natura contrattuale, non sembra compatibile con la possibilità di scioglimento unilaterale dei rapporti. Ciò ha spesso consigliato di autorizzare solo la mera sospensione dei contratti e non lo scioglimento.

Ma non è questa l'unica criticità causata dalla previsione legale che attribuisce la possibilità di variare in corso d'opera il tipo di procedimento, da concordato ad accordo di ristrutturazione e viceversa, possibilità di variazione altrimenti detta “passerella”, essendo tale possibilità foriera di un'incertezza che si riverbera su tutto il regime autorizzatorio, come ad es. in materia di nuovi finanziamenti, di atti di straordinaria amministrazione, di pagamenti di debiti anteriori per prestazioni essenziali, depotenziando l'intero novero dei tentativi di superamento concordato della crisi.

Ebbene: il disegno di legge nulla dice sul se resterà o meno la disciplina del preconcordato, né, qualora essa dovesse permanere, se sia o meno da eliminare la possibilità di presentare una proposta prenotativa in bianco in cui l'imprenditore non prenda posizione netta e già definitiva sul tipo di procedimento da proporre, eliminandosi dunque, per l'appunto, la possibilità di passerella da un procedimento all'altro.

Di fatto, l'unico accenno alla problematica si rinviene nell'art. 6, lett. i), laddove si programma: “l'integrazione della disciplina dei provvedimenti che riguardano i rapporti pendenti, con particolare riferimento: ai presupposti della sospensione e, dopo la presentazione del piano, anche dello scioglimento”. Viene cioè fatto cenno alla presentazione di un piano che può verificarsi dopo qualcosa, ma non si capisce se questo qualcosa sia l'inizio della fase procedimentale unitaria da cui può poi gemmare una proposta di concordato con contestuale deposito del piano, o invece sia una domanda di concordato in bianco, come nell'attuale sistema. L'unico dato certo è che fino a quando non viene depositato il piano non può autorizzarsi lo scioglimento dei contratti pendenti, il che però non sembra implicare né una cancellazione necessaria della figura del preconcordato, né della passerella di cui discorrevo poc'anzi.

Il che mi induce a ritenere che su questi aspetti la scelta del legislatore delegante dovrebbe essere più chiara ed esplicita.

Vero è che più esplicita è stata la relazione, ove si legge: “La possibilità che l'accesso alla procedura concordataria sia preceduto dallo svolgimento di una procedura non giudiziale di allerta e composizione assistita della crisi, nei termini già prima descritti, potrebbe in molti casi far venire meno le condizioni che oggi giustificano la proposizione di domande di concordato con riserva di successiva presentazione della proposta e del piano. Non si è però reputato di dover espungere tale possibilità dal sistema, non foss'altro perché non v'è una necessaria propedeuticità della procedura di allerta e composizione assistita della crisi rispetto a quella concordataria e parrebbe eccessivo precludere i benefici dalla proposizione della domanda di concordato con riserva a chi, per le più svariate ragioni, non abbia potuto avvalersi dell'anzidetta procedura stragiudiziale”.

Secondo la Relazione, dunque, il preconcordato ancora permarrebbe.

Tuttavia, come osservavo, il silenzio del disegno di legge rende ambigua la soluzione, ed occorrerebbe un chiarimento esplicito di carattere normativo – preferibilmente, a mio giudizio, di segno contrario al permanere del preconcordato e/o della passerella -, non bastando a risolvere il problema quanto riferito nella relazione, che mostra anzi un difetto oggettivo del disegno di legge delega laddove esso appare sostanzialmente “in bianco” lasciando al Governo il potere di normare senza limiti preventivamente fissati la materia de qua.

D3) Nel sistema attuale la recente introduzione, con il D.L. n. 83/2015, della possibilità di presentare proposte di concordato alternative da parte dei creditori dovrebbe garantire maggiore competitività e quindi concorrere a conservare e riattivare le imprese effettivamente risanabili.

Sui questo aspetto però il D.L. n. 83/2015 non ha registrato alcun utile risultato, né quanto alle proposte alternative di concordato liquidatorio, né quanto a quelle in continuità.

Paradossalmente, anzi, la nuova disciplina sembra destinata a non operare proprio e soprattutto quando il concordato proposto dal debitore sia un concordato con continuità aziendale, che, alla luce della abrogazione del concordato liquidatorio prospettata dal disegno di legge, sembra l'unica in futuro possibile (eccettuato il già detto caso in cui il debitore si limiti a proporre un concordato per garanzia senza far cenno alcuno alla prosecuzione dell'impresa, che probabilmente resta un dato di fatto, e non una connotazione formale del piano o della proposta).

Infatti, come ho già avuto modo di rilevare in un'altra anteriore audizione e ho poi ulteriormente argomentato in un articolo, dal tenore dell'art. 186-bis si evince che, quando il concordato sia in continuità diretta, l'impresa dev'essere gestita dal debitore proponente sin dall'inizio del procedimento (oltre che nella fase post-omologa), laddove il creditore competitor invece non può gestire sin da subito l'impresa del debitore al posto di costui; quindi da questo punto di vista egli non può proporre un concordato con continuità aziendale (diretta) in senso proprio.

Quanto alla continuità indiretta, in cui l'impresa in esercizio può essere oggetto di cessione a terzi o di conferimento in una diversa società, anche in tal caso l'orientamento che appare prevalente – pur in un perdurante contrasto di opinioni - è nel senso di considerare configurabile la fattispecie solo quando e se, durante la fase ante-cessione, ante-conferimento, o ante-omologa, l'impresa sia comunque interinalmente gestita dal debitore. Sta comunque di fatto che, nel caso del proponente “competitor”, costui né in proprio, né per interposta persona gestisce o può gestire l'impresa in fase ante-omologa, ed anzi le norme che disciplinano l'attuazione coattiva della proposta concorrente che risulti poi vittoriosa (nomina di un amministratore giudiziario, nomina del commissario giudiziale come commissario ad acta ai fini dell'“ottemperanza”, possibilità di aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione) sembrano necessariamente presupporre che la proposta concorrente (vittoriosa in sede di voto) possa avere attuazione solo dopo la sua omologazione.

Sembra dunque di poterne concludere che il creditore “competitor” mai possa proporre un concordato con continuità aziendale che sia tale in senso stretto sin d'inizio e che quindi non possa nemmeno fruire dei benefici previsti per il concordato con continuità aziendale a favore del debitore.

Invece la legge delega dovrebbe prevedere tale possibilità, estendendo al terzo i benefici previsti per il debitore, e non solo quelli specifici del concordato con continuità aziendale, ma anche altri benefici generali, a partire - sia pure condizionatamente all'omologa - dalla possibilità di accedere alla transazione fiscale.

In difetto, la conseguenza è che, anche in forza della abrogazione del concordato liquidatorio prospettata dal disegno di legge, il terzo potrà di fatto proporre solo un concordato per garanzia, nel quale l'eventuale prosecuzione dell'impresa resterà un dato meramente effettuale e senza alcuna connotazione qualificatoria. Ciò anche perché egli non potrà proporre né un concordato liquidatorio semplice (ossia non in continuità), in quanto da ritenersi figura abrogata dal disegno di legge, né un concordato liquidatorio in continuità indiretta, proprio perché anch'esso presuppone che l'esercizio dell'impresa sia svolto dal proponente anche prima dell'omologa (e non solo dopo di essa).

Questo certamente non impedisce che perduri l'interesse a concorrere del creditore “competitor” quando egli voglia comunque proseguire in futuro nell'attività d'impresa, ma per lui tale interesse resterà un interesse di mero fatto, inidoneo a colorare la forma tipologica del concordato con continuità aziendale, potendo l'impresa essere condotta in esercizio direttamente dal “competitor” vittorioso solo dopo l'omologa.

Si tratta in definitiva di unaforte limitazione della posizione (anche troppo asimmetrica e penalizzata per più versi) del creditore “competitor”, che va ad aggiungersi a quegli altri limiti connaturati al fatto di inserirsi, la proposta concorrente, in un procedimento già radicato prima dal debitore: come ad es. il fatto che solo il debitore possa influire con atti - anche di straordinaria amministrazione - sull'integrità del patrimonio e dell'azienda nelle more del procedimento; solo lui potendo ottenere autorizzazioni del Tribunale o del Giudice delegato ex artt. 161, comma 7 e 167 l. fall., in tal modo anche eventualmente erodendo l'integrità del patrimonio aziendale verso cui si muove l'intento acquisitivo del concorrente; del pari solo lui potendo proporre concordati con offerte preconfezionate d'acquisto suscettibili di dar luogo a gare competitive prima della votazione (e quindi dell'omologa) con il rischio di sottrarre al “competitor” quell'azienda che dovrebbe essere appunto l'oggetto principale del suo interesse acquisitivo; solo lui potendo concordare prima con dipendenti ed organizzazioni sindacali le modalità di reimpiego a seguito di cessioni aziendali, e così via.

Tali limiti, uniti alle varie incertezze circa la sorte delle proposte concorrenti in caso di revoca della proposta del debitore e circa gli effetti di eventuali successive risoluzioni, imporrebbero una presa di posizione netta e chiara in sede di delega.

Segnalo inoltre che, ai sensi dell'art. 6, lett. b), è prevista la legittimazione del terzo a promuovere il procedimento nei confronti del debitore solo quando costui versi in stato di insolvenza, mentre attualmente la possibilità di effettuare proposte concorrenti sussiste anche in caso di semplice situazione di crisi. Ma andrebbe conservata preferibilmente la soluzione già vigente, anche perché non è chiaro da che cosa dovrebbe desumersi l'insolvenza, tenuto conto che, in caso di proposte di concordato, il Tribunale non è tenuto a fare tale accertamento specifico, potendo limitarsi a prendere atto dell'auto-ammissione che fa usualmente il debitore circa la sussistenza di un semplice stato di crisi. Mancando dunque un obbligo di accertamento preventivo e specifico dell'insolvenza, non si vede (anche perché non è previsto dal disegno di legge) come possa il terzo proporre domande di concordato alternative la cui ammissibilità è condizionata ad un già accertato stato di insolvenza del debitore.

D4) Diversamente dall'esito negativo che hanno avuto nella pratica le proposte concorrenti di concordato, ha avuto invece successo la nuova disciplina delle offerte concorrenti di acquisto d'azienda e di altri beni concordatari come disegnata dal D.L. n. 83/2015.

Infatti è stato possibile rimettere in corso proposte preconfezionate che non avrebbero consentito realizzi efficienti.

L'unica controindicazione che si può segnalare, al riguardo, e sulla quale anche il disegno di legge in esame meriterebbe di essere integrato, riguarda la forse eccessiva rigidità costituita dall'automatismo che costringe il Tribunale a fissare sempre una gara competitiva in presenza di qualunque proposta antecedente, anche laddove si tratti di beni di modesto valore o l'offerta antecedente pur sia palesemente conveniente ed insuscettibile di essere superata in sede di apertura al mercato.

Il Tribunale andrebbe lasciato dunque più libero di valutare i singoli casi.

Inoltre, non si prevede nell'attuale normativa che analoga apertura al mercato vi sia quando le proposte pervengano dopo che il concordato sia stato già ammesso e prima dell'omologa. Andrebbe allargata la disciplina anche a tale evenienza.

Mi fermo qui.

Ringrazio per l'attenzione.

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