La valutazione dell’azione di responsabilità da parte del curatore

18 Ottobre 2016

Il tema della responsabilità degli organi amministrativi e di controllo delle società fallite ha assunto negli ultimi anni una rilevanza via via crescente, e questo alla luce di fattori quali: - la crisi finanziaria ed economica, nelle sue distinte ondate seguite rispettivamente al crack Lehman Brothers e all'esplosione del problema dei debiti degli stati sovrani, che ha portato a una crescita quasi esponenziale dei fallimenti societari; - il correlato incremento dei casi di amministratori, liquidatori e sindaci chiamati a rispondere in sede civile (ma anche penale) di eventuali fatti di mala gestio ovvero di omesso controllo.
Premessa

Il tema della responsabilità degli organi amministrativi e di controllo delle società fallite ha assunto negli ultimi anni una rilevanza via via crescente, e questo alla luce di fattori quali:

  • la crisi finanziaria ed economica, nelle sue distinte ondate seguite rispettivamente al crack Lehman Brothers e all'esplosione del problema dei debiti degli stati sovrani, che ha portato a una crescita quasi esponenziale dei fallimenti societari;
  • il correlato incremento dei casi di amministratori, liquidatori e sindaci chiamati a rispondere in sede civile (ma anche penale) di eventuali fatti di mala gestio ovvero di omesso controllo.

Parallelamente, e con ogni probabilità proprio a causa delle dimensioni assunte dal problema, si è sviluppata e affinata un'approfondita analisi delle cause e delle circostanze delle crisi aziendali, le quali sono generalmente riconducibili a un mix di fattori interni ed esterni, di mercato e di governance, di eventi imprevedibili e di errori in sede decisionale (strategici, tattici ovvero relativi a specifiche operazioni), ma sono spesso causate anche da condotte contrarie agli obblighi di sana e prudente gestione, se non da vere e proprie violazioni di legge: è ormai assodato come risulti fondamentale distinguere in modo chiaro e preciso i fattori legati al normale rischio d'impresa da quelli direttamente riconducibili a comportamenti illegittimi e/o illeciti.

A questo percorso non è stata estranea la giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, la quale, partendo inizialmente da un atteggiamento sostanzialmente “punitivo” nei confronti di amministratori e sindaci, ha con il tempo assunto, rispetto alle curatele attrici, posizioni assai rigorose con riferimento sia alla qualificazione dei fatti di mala gestio (che vanno individuati e provati), sia alla quantificazione dei danni (che deve avvenire secondo elementi obiettivi nonché sulla base di una ricostruzione logica e coerente sul piano aziendalistico), sia infine al nesso di causalità tra fatti e danni (che deve essere accuratamente dimostrato).

Anche alla luce di un rigore giurisprudenziale che oggi può definirsi consolidato, il curatore fallimentare che ritiene di aver individuato responsabilità a carico degli organi gestorio e di controllo e intende agire nei loro confronti non può quindi, nel redigere le proprie relazioni ex art. 33 l. fall., esimersi da un puntuale esame delle cause e delle circostanze del dissesto, avendo cura di separare quelle “fisiologiche” (legate al business) da quelle “patologiche” (riconducibili a comportamenti censurabili) e misurare secondo un preciso rapporto di “causa – effetto” l'impatto che queste ultime hanno avuto sul dissesto aziendale.

Ovviamente il compito del curatore è tutt'altro che facile: non è quindi un caso che il D.D.L. n. 3671/2016 che prevede la delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza, all'art. 13, comma 1, lett. e), abbia delegato l'Esecutivo alla definizione dei criteri di quantificazione del danno risarcibile.

Quadro normativo

Le azioni di responsabilità nelle società di capitali sono in primis disciplinate dal codice civile, con distinte previsioni in merito alle società per azioni e alle società a responsabilità limitata (disposizioni estese al consiglio di gestione e al consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico e al consiglio di amministrazione, nonché al comitato per il controllo della gestione costituito al suo interno, nel sistema monistico, che tuttavia non vengono trattate nel presente lavoro).

Con riferimento alle s.p.a. (in bonis) sono previste le seguenti disposizioni:

  • gli artt. 2393 e 2393-bis c.c., che disciplinano l'azione sociale (promossa a seguito di deliberazione dell'assemblea ovvero da soci che rappresentino una determinata percentuale del capitale, diversa tra società quotate e non);
  • l'art. 2394 c.c., che dispone in ordine all'azione promossa dai creditori sociali;
  • l'art. 2395 c.c., che disciplina l'azione individuale promossa dal socio e dal terzo;
  • l'art. 2396 c.c., che indica i casi in cui le azioni contro gli amministratori possano essere promosse anche nei confronti dei direttori generali;
  • l'art. 2407 c.c., che nel disciplinare la responsabilità dei sindaci prevede come ad essi si applichino, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis e 2395 del codice civile.

Quanto alle s.r.l. (in bonis), il codice civile dedica alla responsabilità degli amministratori un solo articolo, il 2476, prevedendo quanto segue:

  • la responsabilità degli amministratori verso la società, il socio e il terzo, disciplinando le modalità di esercizio dell'azione giudiziale;
  • l'estensione della responsabilità ai soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi verso la società, i soci o i terzi.

Manca invece nelle s.r.l. una specifica previsione di responsabilità verso i creditori sociali, fatto che ha scatenato un vivace dibattito, sia in dottrina sia in giurisprudenza, tra chi vede in ciò l'impossibilità di esercitare tale azione e chi invece la ritiene ugualmente esercitabile (si veda oltre).

Il successivo art. 2477, con riferimento alla responsabilità dell'organo di controllo nelle s.r.l. (quando previsto), rimanda alle disposizioni relative alle società per azioni.

Il codice civile prevede poi alcune norme comuni alle diverse forme di società di capitali:

  • l'art. 2486, che dopo aver disciplinato i doveri degli amministratori al manifestarsi di una causa di scioglimento ne prevede la responsabilità verso la società, i soci e i creditori in caso di inadempimento;
  • l'art. 2489, comma 2, c.c., che estende ai liquidatori gli obblighi di diligenza e le responsabilità previste per gli amministratori;
  • l'art. 2497 c.c., che dispone come, in caso di società in bonis, il socio ed il creditore sociale possano agire contro la società o l'ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento (solo se non sono stati soddisfatti dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento).

Venendo quindi al caso delle società fallite (non vengono trattati qui i casi di società sottoposte a l.c.a. ovvero amministrazione straordinaria), in tema di azione di responsabilità sono previste specifiche disposizioni, contenute sia nel codice civile sia nella legge fallimentare:

  • l'art. 2394-bis c.c., che con riferimento alle società di capitali dispone come in caso di fallimento le azioni di responsabilità ex art. 2393 e 2394 c.c. spettino al curatore;
  • l'art. 2497, comma 4, c.c., secondo il quale nel caso di fallimento di società soggetta ad altrui direzione e coordinamento, l'azione spettante ai creditori è esercitata dal curatore;
  • l'art. 146, comma 2, l. fall., che prevede che siano esercitate dal curatore, previa autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori: (i) le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori; (ii) l'azione di responsabilità contro i soci delle società a responsabilità limitata, nei casi previsti dall'art. 2476, comma 7, c.c.

Con riferimento alla figura del revisore legale, si evidenzia come, con l'introduzione del D. Lgs. n. 39/2010, siano state abrogate le disposizioni del codice civile introdotte con la riforma del 2003 e tra esse anche l'art. 2409-sexies, che rinviava in tema di responsabilità del revisore all'art. 2407 c.c. e quindi disponeva la possibilità di esercizio nei suoi confronti di tutte le azioni previste per amministratori e sindaci. Il tema della responsabilità dei revisori è ora trattato dall'art. 15 del citato D. Lgs. n. 39/2010, che sancisce la responsabilità degli stessi verso la società, i soci e i terzi, ma al di fuori delle specifiche disposizioni civilistiche tra le quali, si badi bene, era indicato anche l'art. 2394-bis relativo alle azioni in caso di fallimento.

Alla luce dell'abrogazione dell'art. 2409-sexies e del mancato richiamo nell'art. 146 l. fall. della figura del revisore, appare chiaro come quest'ultimo non figuri tra coloro contro i quali le curatele possono esercitare le tipiche azioni di responsabilità: si tratta, a dire il vero, di una scelta condivisibile, visto che, pur svolgendo una funzione obbligatoria nelle s.p.a. e (ove previsto) nelle s.r.l., il revisore non rappresenta un organo sociale. Resta la possibilità dell'azione risarcitoria secondo i generali principi civilistici, concretamente esercitabile laddove l'inadempimento del revisore abbia cagionato danno al patrimonio sociale, che tuttavia, come si argomenta di seguito, comporta problematiche tutt'altro che irrilevanti in tema di determinazione del danno risarcibile.

Le azioni di responsabilità promosse dal curatore

Nelle società per azioni

L'art. 2394-bis c.c., disponendo che in caso di fallimento le azioni di cui ai precedenti artt. 2393 e 2394 spettano al curatore, conferisce a quest'ultimo legittimazione attiva per l'esperimento sia dell'azione sociale sia di quella dei creditori sociali; come visto, la legittimazione del curatore è altresì sancita dall'art. 146 l. fall. che, senza citare le specifiche disposizioni del codice civile, prevede semplicemente che sono esercitate dal curatore le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori.

Quanto all'azione sociale di responsabilità, è lo stesso codice civile a chiarirne la natura contrattuale, alla luce del fatto che l'art. 2392 c.c., nel qualificare la responsabilità degli amministratori verso la società, richiede ad essi di adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e in relazione alle loro specifiche competenze; la legittimazione del curatore di società fallita altro non sarebbe che la diretta applicazione del generale principio previsto dagli art. 42 e 43 l. fall., derivando l'azione sociale da rapporti patrimoniali presenti nel patrimonio del fallito.

Con riferimento invece all'azione dei creditori sociali, non si rinvengono all'interno del codice civile precise disposizioni che ne qualifichino la natura: è tuttavia prevalente, in dottrina e in giurisprudenza, la tesi che individua in tale azione una fonte extracontrattuale. Per tale ragione, i più ritengono come solo le esplicite previsioni degli artt. 2494-bis c.c. e 146 l. fall. legittimino l'esercizio da parte del curatore, non trovando l'azione dei creditori sociali fonte in quei rapporti giuridici che fanno parte del patrimonio del fallito e conseguentemente vengono acquisiti dal curatore ai sensi dei citati artt. 42 e 43 l. fall.

La diversa natura dell'azione può avere rilevanti riflessi sia in ordine all'onere della prova sia con riferimento alla decorrenza dei termini di prescrizione.

Quanto all'onere della prova, si ritiene ormai pacificamente che il creditore di una prestazione contrattualmente dovuta non sia tenuto a provare l'imputabilità dell'inadempimento al debitore, sul quale grava l'onere della prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che l'inadempimento è dipeso da una causa a lui non imputabile; il creditore ha tuttavia l'onere di allegare l'altrui comportamento non conforme al contratto o alla legge, oltre che di allegare e provare il danno e il nesso di causalità. Al contrario, chi agisce per responsabilità extracontrattuale ha l'obbligo non solo di allegare ma altresì di provare il comportamento del convenuto in violazione del dovere di non ledere l'altrui sfera giuridica (Cass. S.U. n. 9100/2015).

Quanto, invece, alla decorrenza dei termini di prescrizione, in caso di azione sociale (contrattuale) decorrono dalla cessazione della carica (che per le società fallite coincide generalmente con la data del fallimento), mentre in caso di azione dei creditori sociali (aquiliana) decorrono dal momento in cui il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei crediti, momento che può essere anteriore alla data di fallimento sempre che i creditori abbiano la possibilità di esserne edotti (per esempio quando dal bilancio depositato risulta una perdita integrale del capitale).

Il problema della diversa natura delle due azioni in ambito fallimentare parrebbe superato da un ripetuto orientamento giurisprudenziale secondo il quale l'azione di responsabilità esercitata dal curatore del fallimento compendia in sé le azioni contemplate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. e lascia al curatore la facoltà di scegliere quale delle due azioni promuovere ovvero decidere di esercitarle entrambe (Cass. n. 24715/2015).

Resta tuttavia aperto il tema tra chi sostiene che l'azione del curatore rappresenta una specie a sé stante, nella quale si fondono le fattispecie ex artt. 2393 e 2394 c.c. e chi invece (la maggioranza) ritiene come nell'azione ex art. 146 l. fall. il curatore, laddove agisca sia a tutela della società sia dei creditori sociali, intraprenda due distinte azioni. La questione non è di poco conto in quanto, come in precedenza evidenziato, a seconda delle due ipotesi, possono derivare diverse conseguenze in tema di prova e di decorrenza dei termini di prescrizione. Ma non solo, visto che a una differente azione può altresì corrispondere una diversa configurazione del danno risarcibile.

Ma qual è in concreto la differenza tra le due azioni nel fallimento? Quali sono gli interessi che ciascuna azione tutela? E quali sono i diversi profili di danno risarcibile?

Si è detto, alla luce dei prevalenti orientamenti, della diversa fonte di responsabilità dalla quale ognuna delle due azioni trae origine: contrattuale l'azione sociale; aquiliana l'azione dei creditori sociali.

Quanto agli interessi tutelati, si può dire che entrambe le azioni esercitate dal curatore sono qualificabili come “di massa”, cioè finalizzate alla ricostituzione del patrimonio sociale nella sua accezione di generica garanzia ed aventi carattere indistinto circa ai possibili beneficiari: se, però, è evidente come l'azione dei creditori non possa che tutelare indistintamente i creditori, maggiori dubbi vi sono in ordine all'azione sociale.

È vero che l'azione ex art. 2393 c.c. è proposta a tutela della società e quindi del suo patrimonio, ma il punto fondamentale è chiarire cosa si intenda per patrimonio sociale oggetto di tutela: quello riconducibile ai soci (che è rilevante solo quando assume valori positivi)? Oppure l'insieme dei rapporti giuridici attivi e passivi dell'impresa (che può assumere anche valori negativi)?

Si ritiene come la corretta qualificazione del patrimonio sociale ai fini delle azioni di responsabilità nel fallimento non possa che essere la seconda: innanzitutto perché la definizione di patrimonio è proprio quella di insieme dei rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo alla società; in secondo luogo perché sono sicuramente nell'interesse della società, oltre che dei creditori, gli obblighi di conservazione del patrimonio sussistenti a carico degli amministratori (e dei liquidatori) quando il valore di questo risulta azzerato o addirittura negativo. A nulla dovrebbe rilevare che, nella sostanza, i soggetti che beneficiano della corretta conservazione di un patrimonio in deficit siano i creditori, posto che la tutela di questi ultimi rappresenta semplicemente l'effetto mediato di una gestione finalizzata al conseguimento dei generali interessi della società: in altre parole, l'interesse generale dei creditori viene indirettamente perseguito attraverso quello della società.

Che l'interesse sociale rispetto a un'impresa in dissesto non coincida con la sola esigenza di tutela dei creditori lo si può ben vedere nelle società che, grazie alla detenzione di importanti elementi immateriali (marchi, brevetti, know how, ecc.), sono potenzialmente in grado di mantenere una continuità aziendale anche in corso di fallimento (attraverso l'affitto di azienda o l'esercizio provvisorio) e infine approdare alla cessione del complesso aziendale, con conseguente favore per i livelli occupazionali e salvaguardia delle ragioni dello Stato (in termini di incasso di contributi e imposte): quante volte si è assistito da parte degli amministratori a cattive gestioni del patrimonio (pur già negativo anche in termini di valore economico e non solo di bilancio) tali da cagionare la distruzione dei valori immateriali quando invece era possibile, anche con il ricorso alla procedura fallimentare, trovare soluzioni che salvaguardassero la continuità aziendale? E quante volte i curatori si sono trovati ad effettuare vendite atomistiche dagli asset aziendali quando invece un intervento tempestivo avrebbe permesso di mettere all'asta i complessi aziendali? Ebbene, appare assai evidente come tali comportamenti non abbiano arrecato pregiudizio ai soli creditori, ma a tutto il patrimonio aziendale, ledendo l'interesse di altri stakeholders.

Si può obiettare, ed è certamente vero, come il pregiudizio subito da categorie quali i lavoratori (per la perdita del posto di lavoro) e lo Stato (per perdita della chance di incassare imposte e contributi dalla continuità aziendale) sia sostanzialmente impossibile da riconoscere, e questo sia perché il danno da aggravamento del dissesto, una volta risarcito, non può che essere destinato a favore dei creditori, sia in quanto le norme sull'amministrazione dei fallimenti non prevedono beneficiari diversi dai creditori (per effetto dei riparti) e dai soci (nel caso di chiusura del fallimento in bonis).

Posto pertanto come non vi siano ragionevoli dubbi circa il fatto che il danno sul patrimonio sociale possa prodursi anche quando questo già abbia assunto un valore negativo, per chiarire se tale pregiudizio possa altresì configurare il danno risarcibile di un'azione sociale di responsabilità esercitata dalla curatela fallimentare va sciolto quello che appare il nodo centrale, e cioè se l'azione sociale di responsabilità possa o meno tutelare gli interessi dei creditori.

A questo proposito, autorevole giurisprudenza di merito ha affermato che “poiché il patrimonio sociale costituisce anche la garanzia dei creditori, è evidente che l'azione dei creditori, che mira alla conservazione o alla reintegrazione di quella garanzia, persegue un obiettivo che risulta perfettamente soddisfatto anche dall'esercizio della sola azione della società” (Trib. Milano n. 11713/2014). Se ciò è vero, non si vede perché l'aggravamento del dissesto cagionato da fatti di mala gestio (una volta che tali fatti siano puntualmente allegati e che sia dimostrato il nesso tra i medesimi e il suddetto aggravamento), non possa rappresentare il danno risarcibile dell'azione sociale di responsabilità esercitata dal curatore.

Tale principio non pare però confermato dai giudici di merito, i quali, trovatisi a decidere di un'azione sociale nella quale veniva richiesto un danno da aggravamento del dissesto, hanno sancito che “… un eventuale aumento del patrimonio netto negativo a seguito di prosecuzione illecita dell'attività sociale si traduce bensì in una lesione alle ragioni dei terzi creditori e non a quelle della società, atteso che, sin dall'iniziale momento rilevante, tutta la parte attiva del patrimonio era appunto vincolata alla soddisfazione delle ragioni di quelli” (Trib. Milano, ord. 14/07/2015, ripresa in sent. n. 2575/2016). Una posizione che appare in contraddizione con quanto correttamente affermato nella precedente pronuncia e che determina un'ingiustificata distinzione tra il “danno sopra zero” (risarcibile solo con l'azione sociale) e il “danno sotto zero” (risarcibile solo con l'azione dei creditori sociali): vero è che il danno risarcibile nell'azione dei creditori non può andare oltre il deficit patrimoniale; non altrettanto vero è che il danno risarcibile nell'azione sociale debba escludere il pregiudizio subito dai creditori.

Nelle società a responsabilità limitata

A seguito della riforma ex D. Lgs. n. 6/2003 si è molto dibattuto in dottrina e in giurisprudenza sulla sopravvivenza o meno delle azioni di responsabilità contro gli organi sociali delle s.r.l. fallite, e questo per i seguenti motivi:

  • l'introduzione di due distinti corpi di norme per le s.p.a. e per le s.r.l.;
  • l'eliminazione di ogni richiamo all'interno della disciplina sulle s.r.l., in merito alla responsabilità degli organi sociali, alle previsioni per le s.p.a.;
  • la previsione all'art. 2476 c.c. della sola responsabilità verso la società, senza quindi alcun riferimento alla responsabilità verso i creditori sociali.

La condizione di forte incertezza era acuita dal fatto che l'art. 146, comma 2, l. fall. ante D. Lgs. n. 5/2006, prevedesse l'azione di responsabilità del curatore a norma degli artt. 2393 e 2394 c.c., senza alcun riferimento alle s.r.l.: riferimento che fino la 2003 non era necessario, proprio perché i cennati articoli del codice civile valevano per entrambe le forme giuridiche di società di capitali.

Una prima “schiarita” si è avuta con la riforma del diritto concorsuale introdotta nel 2006 e con la conseguente modifica dell'art. 146 l. fall., al cui comma 2, è stata riconosciuta la legittimazione del curatore ad agire contro amministratori, componenti degli organi di controllo, direttori generali e liquidatori “di società”, senza più alcun richiamo alle sole norme sulle s.p.a.: ciò ha fatto cadere ogni residuo dubbio circa la possibilità per il curatore di esercitare l'azione sociale nelle s.r.l. fallite e ha accresciuto la platea di coloro i quali ritenevano come nel fallimento l'azione dei creditori sociali fosse pienamente esercitabile. Non si deve infatti sottovalutare che, considerati (dai più) la natura aquiliana dell'azione dei creditori sociali, la previsione “contrattuale” degli artt. 42 e 43 l. fall. e la vigenza di un art. 146 l. fall. che prevedeva le sole azioni previste per le s.p.a., era venuto formalmente a mancare quel supporto normativo che riconoscesse l'esercizio dell'azione dei creditori sociali nelle s.r.l.; ecco che, per molti commentatori e per buona parte della giurisprudenza, il nuovo art. 146 l. fall., nel prevedere per il curatore di società fallite il generico esercizio delle azioni di responsabilità, ha riportato il sistema normativo a quella coerenza che aveva perduto dopo la riforma del diritto societario del 2003 (A. Del moro, A. Mambriani, Appunti in tema di responsabilità degli amministratori di s.p.a. e di s.r.l., sul sito dell'Ordine degli Avvocati di Milano).

In considerazione dell'ormai riconosciuta legittimazione del curatore all'esercizio sia dell'azione sociale sia dell'azione dei creditori sociali, valgono per le s.r.l. le precedenti considerazioni fatte in tema di s.p.a.

Criteri per la determinazione del danno risarcibile e la dimostrazione del nesso di causalità. Profili generali

In sede di determinazione del danno nell'ambito delle azioni di responsabilità, il curatore fallimentare deve tenere conto sia di quelli che sono i fatti addebitati ai convenuti in giudizio sia delle dirette conseguenze, in termini economici, che i suddetti fatti hanno arrecato al patrimonio della società: quella che appare essere una banale considerazione risulta all'atto pratico non del tutto ovvia, anche alla luce delle rilevanti difficoltà che le curatele incontrano quando, una volta riscontrate violazioni anche palesi, si trovano a doverne quantificare l'effetto patrimoniale e a dover dimostrare il diretto collegamento tra violazioni e danni.

Alla luce del fatto che svariate possono essere le condotte contrarie agli interessi degli stakeholders e che ogni singolo comportamento illegittimo si inserisce in un contesto ogni volta diverso sia per il momento in cui viene compiuto sia per la condizioni dell'impresa in quello specifico momento, non è possibile stabilire un unico criterio valido per la determinazione del danno: si può però affermare, e anche questo pare banale ma non lo è, come la “bussola” vada individuata nei generali principi sanciti dall'art. 1223 c.c. e quindi che il danno vada qualificato e quantificato in funzione della perdita subita e del mancato guadagno patiti quale conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento o del fatto illecito.

Applicare questi principi agli specifici casi concreti, come detto, è assai complicato, e ancor più risulta esserlo quando le difficoltà di ordine materiale si sommano a incertezze giuridiche quali la natura delle azioni (contrattuale o extracontrattuale) e gli interessi che queste tutelano (“della massa” o di singoli creditori), posto che solo le azioni risarcitorie avviate nell'interesse generale e indistinto dei soggetti tutelati sono esercitabili dal curatore.

Una prima semplificazione può essere ottenuta distinguendo i danni conseguenti a specifici atti illegittimi imputabili agli amministratori dai pregiudizi arrecati dalla generale violazione degli obblighi previsti dall'art. 2486 c.c. a causa del manifestarsi della causa di scioglimento per perdita del capitale.

(Segue) Danno conseguente a specifici atti compiuti dagli organi sociali

Gli specifici fatti di mala gestio addebitabili agli organi delle società fallite possono essere elencati e raggruppati come segue:

  • operazioni direttamente lesive del patrimonio aziendale, quali distrazioni, dissipazioni, occultamenti di elementi attivi (danaro, beni materiali, immateriali, ecc.) a favore di chi le ha disposte, di parti correlate, di terzi o a prescindere dal vantaggio di alcuno;
  • pagamenti preferenziali;
  • violazioni nella tenuta delle scritture contabili;
  • abusivo ricorso al credito.

Spesso le violazioni compiute da uno stesso organo gestorio sono plurime e di diversa natura: per qualificare e quantificare il pregiudizio in modo chiaro e preciso è quindi necessario che la curatela alleghi (e anche dimostri) ogni singolo fatto, determinando per ciascuno il riflesso in termini di nocumento patrimoniale e rappresenti con elementi obiettivi il rapporto di “causa – effetto” tra i fatti e danni.

Comportamenti direttamente lesivi del patrimonio aziendale

Il danno derivante da un evento distrattivo di natura patrimoniale (assimilando a tale ipotesi i casi di dissipazione, occultamento, ecc.) è pari al valore intrinseco dell'elemento attivo distratto (come il minor prezzo incassato da una vendita di favore effettuata nei confronti di una parte correlata), che misura la diminuzione patrimoniale. In caso di ripetuti atti lesivi del patrimonio, il pregiudizio è dato dalla somma dei singoli danni derivanti da ogni comportamento distrattivo.

Eventi come quelli testé descritti tendono a determinare conseguenze sulla successiva gestione del patrimonio aziendale, per esempio in termini di interessi passivi maturati per effetto di un finanziamento bancario che altrimenti non sarebbe stato necessario richiedere. Va detto che laddove il comportamento distrattivo abbia avuto luogo quando la causa di scioglimento ex art. 2484, comma 1, n. 4, c.c., si era già manifestata, il pregiudizio “successivo” tende ad essere assorbito nel danno cagionato dall'omissione degli obblighi di conservazione ex art. 2486 c.c.; laddove invece l'evento distrattivo si sia manifestato quando la società (poi fallita) era ancora in regolare funzionamento, il curatore potrebbe addebitare agli organi sociali, nell'ambito delle propria legittimazione ad agire ai sensi dell'art. 2493 c.c., anche il danno consistente nei maggiori oneri (nel caso di specie, interessi passivi) maturati per effetto dell'operazione censurata.

Comportamenti preferenziali

Assai attenta deve essere la valutazione del danno conseguente a pagamenti preferenziali, che spesso viene erroneamente quantificato in misura pari ai pagamenti eseguiti e che invece non determina un immediato pregiudizio per la massa bensì solo per i singoli creditori penalizzati dall'illegittimo pagamento; si tratta di un aspetto noto anche alla giurisprudenza, che si è trovata a negare al curatore la legittimazione ad agire per la tutela dell'interesse di singoli, potendo egli promuovere azioni solo se nell'interesse della massa dei creditori (Trib. Milano, sent. n. 501/2011). D'altro canto, è evidente come l'effetto diretto sul patrimonio conseguente a un pagamento preferenziale sia meramente qualitativo, in quanto l'atto illegittimo genera niente altro se non un travaso fra crediti con diverso grado di prelazione, con preferenza per quelli meno protetti dalla legge e pregiudizio per quelli più “tutelati”.

Quanto qui evidenziato dovrebbe però significare che le curatele non possano agire di fronte a fatti come quelli sopra descritti ma semplicemente che debbano (oltre agli inadempimenti) dimostrare l'esistenza di un danno per la massa e un nesso causale tra questo e i fatti censurati: ecco che quindi diviene fondamentale individuare a carico degli amministratori, se presente, il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale e, indirettamente, ai creditori.

Un tipico effetto quantitativo per il patrimonio aziendale conseguente a un pagamento di natura preferenziale è dato dalle sanzioni e dagli interessi maturati a causa del mancato assolvimento di obblighi tributari (o previdenziali), determinatosi proprio per effetto dell'illegittimo pagamento. Si badi bene, però: il danno può dirsi manifestato solo se con il denaro utilizzato per il pagamento preferenziale la società sarebbe stata legittimamente in grado di pagare il debito tributario, considerato che se si fosse comunque trovata in condizioni da non poter assolvere il proprio obbligo verso l'Erario la maturazione di interessi e sanzioni avrebbe avuto ugualmente luogo (A. Del moro, A. Mambriani, op. cit.).

Il tema sulla legittimazione attiva del curatore ad agire in sede civile per fatti di bancarotta preferenziale è tanto controverso e discusso che recentemente, con ordinanza della Cassazione depositata lo scorso 26 luglio, la questione è stata rimessa alla Sezioni Unite della Suprema Corte, che dovrà pronunciarsi definitivamente sulla materia.

Mancata tenuta o sottrazione delle scritture contabili

L'aspetto fondamentale relativo a questa fattispecie, di natura documentale, è dato dal fatto che risulta normalmente assai arduo (per non dire impossibile) quantificare il danno strettamente derivante da tale condotta: pur nella consapevolezza che in linea principio è la curatela a dover fornire prova del danno, ci si è chiesti se in questo particolare caso possa prefigurarsi un'inversione dell'onere della prova, e cioè se siano i convenuti a dover dimostrare che l'illegittima condotta non abbia cagionato un pregiudizio.

A queste domande, la Suprema Corte non ha mancato in alcune occasioni di dare risposta affermativa, evidenziando come la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale: in conseguenza di tale affermazione, la Cassazione ha quindi inizialmente ammesso l'imputazione a carico dei convenuti di un danno pari al deficit fallimentare, che corrisponde al saldo patrimoniale negativo dato dalla somma algebrica fra le attività liquidate dal curatore e l'ammontare dello stato passivo (Cass. n. 5876/2011 e n. 7606/2011).

A risolvere in via definitiva la questione sono tuttavia intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte (sentenza n. 9100/2015, cit.), le quali, pur condividendo che la mancata tenuta delle scritture contabili possa comportare un pregiudizio per il patrimonio sociale, hanno nettamente censurato l'acritico utilizzo del deficit fallimentare quale criterio di determinazione del danno, rilevando come (al di là di considerazioni circa l'eventuale inversione dell'onere della prova) non si possa prescindere da una chiara allegazione degli inadempimenti addebitati ai convenuti in giudizio e da una valutazione dell'astratta idoneità degli stessi a produrre un danno; si tratta dei presupposti minimi che, nell'oggettiva impossibilità per la curatela di produrre altri elementi proprio a causa dell'assenza delle scritture contabili, potrebbero consentire a quest'ultima di domandare la determinazione equitativa del danno. A questo proposito, l'utilizzo del deficit fallimentare quale criterio di determinazione del pregiudizio può avere luogo solo nel caso di circostanze concrete, che la curatela deve allegare, e che facciano ritenere con ragionevolezza che il deficit rappresenti la logica e plausibile conseguenza dell'inadempimento: un caso di utilizzo del deficit fallimentare quale criterio equitativo potrebbe aversi quando il curatore dimostri che l'occultamento delle scritture contabili abbia avuto origine proprio nel momento in cui si sarebbe manifestato l'azzeramento del capitale e la sottrazione della contabilità abbia impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore o addirittura sia stata preordinata proprio a non consentire ai terzi di prendere atto di operazioni dannose che avrebbero poi condotto al dissesto.

Abusivo ricorso al credito

Con tale definizione non si intende operare una precisa sovrapposizione con i fatti e le circostanze indicati all'art. 218 l. fall., visto che il ventaglio ai fini della responsabilità civile degli amministratori appare più ampio. A questo proposito, per esempio, non ricorre la necessità indicata dalla norma penale secondo la quale condizione necessaria per la qualificazione del reato è l'aver dissimulato il dissesto o lo stato di insolvenza, ben potendo rispondere l'organo gestorio anche di condotte perpetrate quando la società non era ancora in dissesto ovvero insolvente.

Condizione necessaria affinché l'operazione sia potenziale fonte di responsabilità civile è che gli amministratori abbiano ingannato l'intermediario finanziario, facendo ottenere alla società un credito di cui altrimenti non avrebbe potuto beneficiare; ovviamente, altra condizione fondamentale è che l'ottenimento del credito abbia determinato un danno al patrimonio aziendale.

Una classica fattispecie di abusivo ricorso al credito è data, in presenza di un precedente affidamento “autoliquidante”, dalla presentazione in banca di portafoglio commerciale (ricevute bancarie, fatture, ecc.) non supportato da alcun rapporto sottostante ovvero dalla contemporanea presentazione presso più istituti di credito dello stesso portafoglio. Si tratta evidentemente di operazioni indotte quanto meno da una grave carenza di liquidità, poste in essere in quanto le banche non avrebbero concesso affidamenti in una forma coerente con l'effettiva necessità dell'impresa (per esempio, un fido a scadenza per “scoperto di cassa”), o comunque lo avrebbero fatto a condizioni economiche e con garanzie ben diverse rispetto a quelle applicate nelle tipologie “autoliquidanti”.

Si ritiene che, ai fini dell'argomento qui trattato, possa rappresentare abusivo ricorso al credito anche il finanziamento ottenuto grazie alla presentazione in banca di documentazione falsa relativa alle conduzioni patrimoniali, finanziarie ed economiche della società: ci si riferisce per esempio a situazioni contabili infrannuali, dati sul fatturato, prospetti sul cash flow, ecc. manipolati appositamente per la consegna ai funzionari dell'istituto di credito.

Quanto ai riflessi in termini di pregiudizio per il patrimonio sociale, va innanzitutto rilevato come, al pari dei pagamenti preferenziali, l'abusivo conseguimento di un finanziamento non cagioni automaticamente al patrimonio sociale un danno pari al debito contratto: ciò in quanto è vero che vi è un incremento del passivo, ma è anche vero che in pari misura, al momento dell'erogazione (ad eccezione delle imposte e delle commissioni), l'impresa aumenta le proprie disponibilità ovvero riduce altre passività. Si badi bene, ciò vale anche nei casi di presentazione di portafoglio inesistente, poiché la sostanziale assenza della garanzia sulla quale la banca aveva fatto affidamento per la concessione del credito non comporta un depauperamento aziendale (la garanzia non è infatti mai esistita): in tal caso si assiste quindi a un semplice incremento del passivo compensato dall'afflusso di liquidità, nell'ambito di un'operazione finanziaria che di fatto è assimilabile a un prestito a scadenza ma privo di garanzia che, ovviamente, la banca non avrebbe mai concesso.

Una tipologia di danno per la “massa” conseguente all'indebito ricorso al credito può ravvisarsi nel pregiudizio cagionato dall'utilizzo, per esempio di matrice distrattiva, della somma ricevuta dalla banca: in tal caso, però, l'evento fonte di responsabilità civile dovrebbe essere ravvisato nell'atto distrattivo stesso.

Si deve quindi ritenere, in linea generale, come il pregiudizio conseguente a condotte di abusivo ricorso al credito vada individuato nelle perdite gestionali prodottesi a seguito del finanziamento ottenuto, posto che normalmente l'illegittima operazione viene conclusa quando lo stato di crisi è evidente e sono rintracciabili i prodromi di un'inesorabile discesa verso l'insolenza. Anche in questo caso (come per i pagamenti preferenziali), le modalità di determinazione del danno sono ragionevolmente assimilabili, e per questo dovrebbero esserne assorbite, a quelle per la quantificazione del pregiudizio per l'omissione degli obblighi ex art. 2486 c.c.

(Segue) Danno derivante dall'omissione degli obblighi di conservazione del patrimonio in presenza di causa di scioglimento per perdita del capitale

Si tratta del pregiudizio cagionato al patrimonio della società da comportamenti posti in essere in violazione dell'art. 2486 c.c., che impone agli amministratori, fino alla nomina dei liquidatori e al conseguente passaggio di consegne, di gestire la società ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale.

L'inadempimento degli amministratori, nella generalità dei casi, consiste nel non aver gestito la società ai soli fini conservativi, ma avere al contrario proseguito la normale attività imprenditoriale, incentrata sull'obiettivo della remunerazione del capitale e pertanto sull'assunzione del cosiddetto rischio d'impresa: il tutto, solitamente, nascondendo la condizione di scioglimento attraverso la redazione di bilanci d'esercizio irregolari.

Laddove la prosecuzione della tipica attività imprenditoriale determina risultati positivi, può avvenire il ritorno in bonis del patrimonio sociale e, di fatto, il successivo venir meno degli obblighi ex art. 2486 c.c.; laddove invece, come spesso accade, l'illegittima prosecuzione dell'attività determina ulteriori perdite fino all'inesorabile fallimento dell'impresa, gli amministratori (e i sindaci che non hanno vigilato) si trovano a dover rispondere del pregiudizio arrecato.

Ma qual è il danno risarcibile? Per rispondere a tale domanda bisogna prima chiarire quali siano le violazioni compiute.

Ebbene, si deve ritenere come, alla luce di quanto disposto dall'art. 2486 c.c., la violazione fonte di responsabilità sia semplicemente quella di non aver gestito l'impresa con la specifica finalità di conservare l'integrità e il valore del patrimonio sociale: l'illecito è quindi costituito dalla prosecuzione dell'attività caratteristica (D. Galletti, Differenza tra attivo e passivo e quantificazione del danno nelle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, in Giur. comm, 2015, II, 651 ss.). L'affermazione può sembrare semplicistica e tale da favorire sommarie ricostruzioni in danno dei convenuti amministratori e sindaci, ma in realtà è al contrario supportata da argomentazioni giuridiche (la lettera dell'art. 2486 c.c. appare piuttosto chiara) e da solide basi aziendalistiche.

La gestione è infatti un sistema coordinato di operazioni (non una semplice sommatoria) ed è normalmente connotata da dinamicità e funzionalità rispetto alle finalità dell'imprenditore (ricerca del profitto). Se la violazione di un obbligo normativo consiste proprio nella conduzione dell'attività imprenditoriale secondo le ordinarie finalità di conseguire un utile, l'eventuale danno non può che essere misurato in funzione delle negative conseguenze, in termini economici, di tale “disubbidienza”.

Un esempio pratico di quelli che dovrebbero essere i processi logici di qualificazione e di quantificazione del danno risarcibile in un'azione di responsabilità per violazione degli obblighi previsti dall'art. 2486 c.c. è fornito dal Tribunale di Milano in un provvedimento già menzionato in precedenza per la chiarezza con la quale definisce il perimetro di tutela dell'azione sociale nel fallimento (Trib. Milano, n. 11713/2014, cit.) e che secondo autorevole dottrina rappresenta una sorta di prontuario operativo per le curatele e i propri legali (Galletti, op. cit.).

Il naturale approdo valutativo conseguente alla constatazione secondo cui le violazioni ex art. 2486 c.c. coincidono semplicemente con lo svolgimento di un'attività che il codice civile vieta a causa delle condizioni di scioglimento per azzeramento del capitale è dato dall'utilizzo di criteri che mirino a quantificare l'ammontare delle perdite prodottesi dall'esercizio dell'impresa, da confrontare poi con il risultato che si sarebbe prodotto se gli amministratori avessero tempestivamente rilevato la causa di scioglimento e conseguentemente gestito la società in ottica di mera conservazione del patrimonio: la differenza tra i due risultati rappresenta il danno risarcibile, che normalmente già assorbe il pregiudizio arrecato da specifici fatti di mala gestio (distrazioni, operazioni illegittime di varia natura, oneri direttamente correlati a comportamenti dilatori come gli interessi passivi) e che pertanto non va ad esso sommato.

La determinazione del danno deve dunque avvenire al termine di tre distinte fasi:

  • la stima delle perdite gestionali conseguite dopo il manifestarsi della causa di scioglimento;
  • la stima del risultato (presumibilmente la perdita) che si sarebbe prodotto nel caso in cui gli amministratori avessero operato osservando le previsioni del codice civile;
  • la quantificazione della differenza tra i due precedenti risultati.

Quanto alle perdite subite dalla società per effetto della prosecuzione dell'attività d'impresa, esse devono innanzitutto avere natura gestionale e quindi non essere influenzate da componenti di reddito che non hanno a che vedere con l'inadempimento degli amministratori. Non vanno pertanto considerate tutte quelle componenti la cui svalutazione ha contribuito a qualificare la perdita del capitale (crediti, magazzino, partecipazioni, ecc.) ma che non sono imputabili all'organo gestorio in quanto effetto del normale rischio d'impresa, così come si ritiene (in linea di principio) che non debba essere considerata la riduzione del valore contabile delle immobilizzazioni a causa dell'imputazione delle quote di ammortamento, posto che l'ammortamento non misura una perdita di valore ma rappresenta un processo contabile di ripartizione su più esercizi del costo precedentemente sostenuto per l'acquisto di beni ad utilità pluriennale.

Un discorso a parte va fatto per i cosiddetti intangibles (avviamento, marchi, brevetti, know how, ecc.) i quali sono talvolta iscritti in bilancio per effetto di operazioni di riorganizzazione aziendale (si pensi all'avviamento acquisito a seguito dell'acquisto dell'azienda), ma che spesso invece non risultano valorizzati (quando cioè sono detenuti a titolo originario): da un lato, è evidente come la causa di scioglimento tenda a “sgonfiare” detti valori (se precedentemente iscritti), comportando una svalutazione che non può essere addebitata agli amministratori; dall'altro, tuttavia, è anche vero come spesso i valori immateriali, benché assenti nei bilanci, siano ben presenti nel patrimonio sociale e possano essere oggetto di successiva perdita di valore proprio a causa dell'inosservanza dei doveri ex art. 2486 c.c.

Come si può ben vedere, la determinazione del danno in questi casi è del tutto svincolata dai criteri di valutazione del bilancio d'esercizio, che sono fondamentali per determinare il momento in cui ha luogo la causa di scioglimento della società, ma divengono fuorvianti se utilizzati per stimare la perdita conseguita da tale momento in avanti.

Come quantificare allora la perdita gestionale successiva al manifestarsi della causa di scioglimento? Tenuto conto delle considerazioni testé formulate, in linea teorica i criteri possono essere essenzialmente due:

  • quello “diretto”, di determinazione del risultato economico come somma algebrica dei componenti negativi e positivi di reddito;
  • quello “indiretto” della “differenza tra i netti patrimoniali”.

Si tratta di criteri non antitetici sul pieno scientifico, posto che il risultato economico di un determinato periodo corrisponde sia alla somma algebrica dei componenti positivi e negativi di reddito sia alla variazione che il patrimonio assume per effetto della gestione nel medesimo arco temporale.

Il criterio “diretto” prevede l'analitica determinazione di un unico conto economico (e conseguentemente di un unico risultato gestionale) per l'intero periodo oggetto di misurazione (per esempio, dalla data della causa di scioglimento a quella di fallimento nel caso in cui non vi sia mai stata la messa in liquidazione della società) oppure, nel caso di avvicendamento tra amministratori o tra sindaci, la redazione di distinti conti economici (e conseguentemente di distinti risultati gestionali) per ambiti temporali coerenti con le diverse permanenze delle varie cariche nel periodo oggetto di osservazione.

Il criterio della “differenza tra i netti patrimoniali” prevede invece la “fotografia” della situazione patrimoniale al momento del manifestarsi della causa di scioglimento e il confronto con quella “scattata” in un momento successivo (per esempio alla data di fallimento, nel caso in cui la società non sia mai stata posta in liquidazione): il risultato del confronto (la differenza) rappresenta la perdita gestionale del periodo. Anche in questo caso, a causa dell'avvicendarsi degli amministratori e/o dei sindaci, i momenti successivi possono essere vari e coincidenti con tali avvicendamenti, con la conseguenza che si avranno tante differenze tra netti patrimoniali.

Nella pratica, vista l'evidente laboriosità e difficoltà di applicazione del metodo cosiddetto “diretto” (soprattutto quando il periodo oggetto di osservazione è piuttosto ampio), il criterio generalmente utilizzato è quello della “differenza tra i netti patrimoniali”: detto metodo, tuttavia, in quanto inevitabilmente di natura equitativa, per superare l'esame dell'organo giudicante deve essere applicato osservando pochi e chiari principi, il primo dei quali impone che le situazioni patrimoniali da confrontare siano redatte secondo criteri omogenei.

Ipotizzando pertanto il momento T1 coincidente con la data di manifestazione della causa di scioglimento e il momento T2 quale data del fallimento, la curatela deve redigere una situazione patrimoniale al momento T1 (SP1) sulla base dei seguenti principi:

  • l'adozione di criteri “di liquidazione” e quindi l'abbandono di quelli di funzionamento;
  • adottare criteri “di liquidazione” non necessariamente comporta la sola svalutazione degli elementi dell'attivo ma potrebbe anche determinare l'iscrizione di valori che non comparivano nei bilanci d'esercizio (eventuali plusvalori latenti di immobilizzazioni materiali ovvero intangibles che non derivano da precedenti acquisizioni a titolo oneroso).

Il valore netto patrimoniale (presumibilmente negativo) alla data TI e risultante da SP1 è qui detto PN1.

Quanto alla situazione patrimoniale al momento T2 (SP2), oltre all'adozione dei criteri di liquidazione, si deve considerare quanto segue:

i debiti vanno assunti in relazione a quanto risulta dallo stato passivo del fallimento, comprendendo ovviamente anche le istanze ammesse in via tardiva;

devono essere valorizzati tutti gli elementi patrimoniali (anche gli intangibiles) presenti alla data del fallimento;

devono essere eliminati (con diretta imputazione a “patrimonio”) tutti i componenti positivi e negativi non attinenti alla prosecuzione dell'attività, come le quote di ammortamento e le svalutazioni di altri elementi dell'attivo iscritte nei periodi successivi alla manifestazione della causa di scioglimento;

devono essere inseriti (anche in questo caso con diretta imputazione a patrimonio) eventuali componenti di reddito che erroneamente (o spesso volutamente) non hanno partecipato alla determinazione del risultato d'esercizio nei periodi successivi alla manifestazione della causa di scioglimento (si pensi a costi sostenuti post scioglimento e indebitamente capitalizzati o comunque non imputati a conto economico).

Il valore netto patrimoniale (ragionevolmente negativo, essendo misurato al momento della dichiarazione di fallimento) alla data T2 e risultante da SP2 è qui detto PN2.

La differenza tra PN1 e PN2, se negativa, costituisce la “perdita incrementale lorda” e rappresenta il risultato gestionale conseguito a seguito della manifestazione della causa di scioglimento: come già detto, tale perdita non coincide con il danno risarcibile e va confrontata con il risultato gestionale che gli amministratori e i liquidatori avrebbero comunque conseguito ottemperando compiutamente alle disposizioni civilistiche.

Quanto alla misurazione del risultato che si sarebbe prodotto nel caso in cui gli amministratori avessero operato osservando le previsioni del codice civile, si tratta di determinare il saldo economico/patrimoniale finale di quella che sarebbe stata la necessaria attività di liquidazione, e ciò in funzione del tempo che sarebbe stato necessario per concludere le operazioni (considerate le dimensioni e la specifica attività esercitata) e gli specifici costi di liquidazione; è evidente che in questa seconda fase (di valutazione del risultato di un'attività che non ha avuto luogo) l'aleatorietà, e conseguentemente la necessità di ricorrere a criteri equitativi, è ben più marcata che nella prima.

Il punto di partenza per la valutazione del “risultato teorico di liquidazione” è dato dalla situazione patrimoniale SP1, predisposta con riferimento al momento T1 e già valorizzata secondo criteri di liquidazione: a questo proposito, visto il criterio utilizzato per la stima degli elementi dell'attivo, si può affermare come il risultato finale di liquidazione non dovrebbe essere influenzato da poste quali minusvalenze e plusvalenze da realizzazione, mentre potrebbero concorrervi tipici componenti negativi di liquidazione quali, per esempio:

  • oneri collegati al licenziamento del personale;
  • penali o altri oneri conseguenti alla disdetta dei contratti;
  • oneri per contenziosi riconducibili alla liquidazione;
  • compenso a favore del liquidatore.

La stima del “risultato teorico di liquidazione” dipende peraltro da molte variabili, ed in particolare dalla situazione e dalle prospettive che la società aveva al momento in cui si era manifestata la causa di scioglimento.

Se questa infatti versava in grave deficit patrimoniale, era priva di plusvalori patrimoniali latenti e non aveva prospettive di continuità (anche con riferimento a singoli rami aziendali), la messa in liquidazione avrebbe rappresentato un veloce passaggio intermedio verso il fallimento, se non addirittura un'inutile e costosa formalità: è evidente che in questo caso il “risultato teorico di liquidazione” debba approssimarsi a “zero”.

Vi possono invece essere situazioni nelle quali, a seguito della tempestiva manifestazione della causa di scioglimento, la liquidazione avrebbe potuto costituire una fase utile e necessaria al fine di verificare soluzioni della crisi alternative al fallimento, nella considerazione (spesso corretta) che questa tipologia di procedura concorsuale (anche se accompagnata da affitto di azienda o esercizio provvisorio) tende inevitabilmente a far evaporare valori aziendali. Ecco che, allora, in tali casi, il risultato economico della liquidazione potrebbe essere gravato altresì da oneri (in particolare professionali) riconducibili allo studio e anche all'esecuzione di interventi nell'ambito di un piano attestato, un accordo di ristrutturazione ovvero un concordato preventivo.

La differenza tra la “perdita incrementale lorda” e il “risultato teorico di liquidazione” costituisce la cosiddetta “perdita incrementale netta” e corrisponde alla configurazione di danno risarcibile addebitabile agli organi amministrativo e di controllo.

Come già anticipato, è difficile che la “perdita incrementale netta” sia unica, riferita a un solo arco temporale e attribuibile a tutti i convenuti in giudizio: ciò non solo per eventuali differenze di responsabilità tra organo di gestione e organo di controllo ma anche a causa dell'avvicendarsi di persone diverse sia tra gli amministratori sia tra i sindaci.

Per ogni diverso convenuto, o meglio per soggetti che hanno ricoperto la stessa carica nel medesimo periodo, andrà quindi individuato uno specifico arco temporale e all'interno di esso misurate le perdite gestionali maturate, dedotta una parte del “risultato teorico di liquidazione” e per differenza calcolata la frazione di perdita incrementale da attribuire come danno. Si tratta di un'attività alquanto complessa, che spesso non porta a esiti convincenti e che pertanto richiede una volta di più l'utilizzo di criteri equitativi, come nel frequente caso in cui si debbano calcolare i risultati economici di periodi non coincidenti con l'esercizio sociale: in presenza di una certa continuità dei risultati gestionali annuali (escludendo ovviamente le realtà imprenditoriali a carattere stagionale), sono accettate metodologie connotate da un approccio “proporzionalistico”, che cioè attribuiscono alla frazione di esercizio una quota dal risultato annuale parametrata alla durata del periodo sotto osservazione.

Come si può vedere, la quantificazione del danno da azioni di responsabilità per inosservanza degli obblighi ex art. 2486 c.c. risulta assai laboriosa, irta di ostacoli e proprio per questo deve seguire precise linee guida basate su logica e buon senso, come le seguenti:

  • partire dalla considerazione secondo cui l'inadempimento rispetto al quale si chiede il risarcimento è conseguenza della manifestata (e comunque dimostrata) causa di scioglimento ed è dato dal non aver gli amministratori gestito la società al solo fine di conservare l'integrità e il valore del patrimonio sociale;
  • il pregiudizio arrecato da tale inadempimento non può che essere pari alle perdite che lo stesso ha provocato, al netto di quelle che si sarebbero comunque manifestate;
  • le perdite per indebita prosecuzione dell'attività imprenditoriale possono essere quantificate attraverso il metodo del “differenziale tra i netti patrimoniali”, in quanto il concetto di risultato economico (e quindi di perdita, se negativo) si riferisce sia alla somma algebrica tra costi e ricavi sia alla variazione del patrimonio per effetto della gestione nel medesimo orizzonte temporale;
  • i netti patrimoniali, nei diversi istanti temporali, devono essere determinati con criteri omogenei, secondo principi di liquidazione;
  • per ciascun convenuto, o meglio per soggetti che hanno ricoperto la stessa carica nel medesimo periodo, va predisposta una diversa configurazione di danno e quindi un autonomo conteggio del differenziale tra i netti patrimoniali.
Conclusioni

L'interpretazione non sempre univoca di questioni dirimenti quali la natura dell'azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. e il suo legame con le azioni “civilistiche” (relative alle società in bonis), il tema della legittimazione attiva e i criteri di determinazione del danno determina importanti elementi di incertezza che le curatele si trovano ad affrontare, trovandosi tra “l'incudine” delle aspettative (e delle pressioni) dei creditori e il “martello” di una giurisprudenza oggi più che mai rigorosa (e in alcuni casi, per la verità, rigida).

Quello dei criteri di determinazione del danno nell'azione sociale pare rappresentare un tema squisitamente teorico, visto che le curatele agiscono generalmente anche ai sensi dell'art. 2394 c.c.: ciò, tuttavia, non è sempre vero, visto che in vari casi l'azione dei creditori non è esercitabile. Va peraltro evidenziato come il problema della presunta inesistenza del danno per aggravamento del dissesto nelle azioni ex art. 2393 c.c. a carico degli organi sociali delle società fallite si riverberi altresì sulle altre azioni risarcitorie di natura contrattuale che il curatore sarebbe legittimato a esercitare ai sensi degli art. 42 e 43 l. fall.: si pensi al caso dei revisori legali (per i quali l'abrogazione dell'art. 2409-sexies c.c. ha sancito la non azionabilità dell'art. 146 l. fall.) e dei consulenti esterni direttamente coinvolti in fatti di mala gestio, che non sarebbero citabili a giudizio allorquando l'inadempimento si fosse prodotto in un epoca in cui il dissesto era già conclamato, anche se con dimensioni ben inferiori a quelle in seguito assunte per effetto del loro intervento.

Si spera pertanto che grazie a interventi chiarificatori della magistratura ovvero con l'approvazione del disegno di legge delega che oggi giace in Parlamento (e poi con l'auspicata emanazione dei conseguenti decreti legislativi) sia data risposta ai tanti interrogativi che oggi attanagliano gli operatori dell'economia e del diritto in ambito concorsuale e generano le rilevanti incertezze in più occasioni qui rappresentate.

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