La revocabilità della scissione societaria

31 Ottobre 2016

In assenza di norme espresse e di indicazioni della Suprema Corte, l'ammissibilità dell'azione revocatoria (tanto ordinaria quanto fallimentare) contro l'atto di scissione societaria è molto dibattuta, sia in dottrina sia nella giurisprudenza di merito, come dimostrano alcune recenti pronunce aventi ad oggetto domande revocatorie ex art. 2901 c.c. e art. 66 l. fall. contro atti di scissione. L'attualità del dibattito è testimoniata da alcune recenti pronunce aventi ad oggetto domande revocatorie ex art. 2901 c.c. e art. 66 l. fall. contro atti di scissione societaria: per l'accoglimento della domanda, si è pronunciato il Tribunale di Venezia nella sentenza del 5 febbraio 2016; per l'inammissibilità delle stesse, si sono invece espressi il Tribunale di Forlì e quello di Bologna, nelle sentenze rispettivamente del 4 febbraio 2016 e del 1° aprile 2016.
Premessa

In assenza di norme espresse e di indicazioni della Suprema Corte, l'ammissibilità dell'azione revocatoria (tanto ordinaria quanto fallimentare) control'atto di scissione societaria è molto dibattuta, sia in dottrina sia nella giurisprudenza di merito.

L'attualità del dibattito è testimoniata da alcune recenti pronunce aventi ad oggetto domande revocatorie ex art. 2901 c.c. e art. 66 l. fall. contro atti di scissione societaria: per l'accoglimento della domanda, si è pronunciato il Tribunale di Venezia nella sentenza del 5 febbraio 2016; per l'inammissibilità delle stesse, si sono invece espressi il Tribunale di Forlì e quello di Bologna, nelle sentenze rispettivamente del 4 febbraio 2016 e del 1° aprile 2016.

Il panorama giurisprudenziale non si limita alle pronunce appena citate. Il numero dei provvedimenti che hanno risolto, in un senso o nell'altro, il problema in oggetto comincia anzi ad assumere una certa consistenza. In assenza di pronunce di legittimità, però, la giurisprudenza di merito non è stata finora in grado di raggiungere una posizione sufficientemente condivisa, per non dire definitiva.

Effetti della scissione societaria sulla garanzia patrimoniale e possibili rimedi

Come noto, la scissione consiste nell'operazione a seguito della quale una società assegna tutto o parte del proprio patrimonio ad altre società, preesistenti o di nuova costituzione, le quali contestualmente assegneranno le proprie azioni o quote ai soci della società scissa. L'effetto proprio dell'operazione di scissione, dunque, è quello c.d. “divisionale”, consistente nella ripartizione dell'originario patrimonio della società scindenda in favore della (o delle) società beneficiarie, siano esse preesistenti o di nuova costituzione. Da tale essenziale notazione emerge il tratto caratteristico della scissione, il fatto cioè che a tale operazione è strutturalmente connaturata la “oggettiva riduzione del patrimonio della società che resta direttamente debitrice”, con l'effetto che “la riduzione della garanzia non è una mera eventualità ma un effetto naturale dell'operazione” (così, F. Fimmanò, Scissione e responsabilità «sussidiaria» per i debiti sociali non soddisfatti, in Soc., 2002, 1379). In altre parole, la scissione è per sua natura atto in grado di incidere sulla consistenza della garanzia patrimoniale rappresentata dal patrimonio del debitore che attua una scissione e, conseguentemente, di arrecare pregiudizio ai creditori del medesimo soggetto.

A ciò si aggiunge, nel caso di scissioni c.d. “aggregative” (cioè quelle in favore di società preesistenti), l'eventuale pregiudizio derivante dalla confusione della quota di patrimonio assegnata in sede di scissione con il patrimonio della società preesistente, pregiudizio che può riguardare tanto i creditori della società scissa “assegnati” alla beneficiaria, quanto i creditori propri della società beneficiaria preesistente il cui credito sia sorto prima della scissione.

Proprio alla luce di tali considerazioni il legislatore ha predisposto degli strumenti di tutela del ceto creditorio del soggetto interessato da una scissione (e cioè sia della scissa che della beneficiaria): la possibilità di opporsi all'operazione ex artt. 2503 e 2506-quater, ultimo comma, c.c.; il regime di responsabilità solidale di ciascuna delle società interessate dalla scissione in relazione ai debiti della società scissa ed entro i limiti del valore effettivo del patrimonio netto assegnato o rimasto, ex artt. 2506-quater, comma 3, c.c. (per i debiti espressamente assegnati nel progetto di scissione) e 2506-bis, comma 3, c.c. (per le passività la cui destinazione non sia desumibile dal progetto); infine, il diritto, previsto dall'art. 2504-quater, comma 2, richiamato dall'art. 2506-ter, ultimo comma, c.c. dei soci e dei terzi danneggiati dalla scissione al risarcimento dei danni cagionati dal compimento dell'operazione.

Ai fini che qui interessano si tratta pertanto di verificare, da un lato, se tale apparato normativo sia tale da coprire efficacemente ogni esigenza di tutela del ceto creditorio dei soggetti interessati da una scissione, oppure se residuino spazi applicativi per l'azione revocatoria (ordinaria o fallimentare); dall'altro, se vi siano ragioni per escludere in radice l'ammissibilità di tale azione avverso l'atto di scissione.

Gli argomenti contrari alla revocabilità: la natura della scissione

La tesi secondo cui l'atto di scissione non sarebbe in nessun caso soggetto al rimedio revocatorio trova fondamento, essenzialmente, su tre argomenti.

Il primo riguarda la natura stessa dell'atto di scissione, affermandosi che detta operazione costituirebbe una vicenda meramente riorganizzativa, incidente solo sull'assetto contrattuale e statutario dei soggetti coinvolti, ma senza alcun effetto traslativo di beni o diritti. Secondo tale tesi, dunque, la scissione non potrebbe essere inclusa tra gli “atti di disposizione” in grado di ledere la garanzia patrimoniale del debitore e quindi idonei ad essere assoggettati alle azioni revocatorie. In questo senso si è espresso, tra gli altri, il Tribunale di Roma, nella sentenza del 19 ottobre 2015: “ritiene il Collegio che la mera natura riorganizzativa dell'atto di scissione non consenta di far rientrare lo stesso nell'ambito del concetto di atto dispositivo revocabile ai sensi dell'art. 2901 c.c., […] e legittimare, di conseguenza, il ricorso allo strumento dell'azione revocatoria. Tale ultima opzione interpretativa cozza, viceversa, contro la nozione di atto dispositivo, quale atto di reale depauperamento del patrimonio del debitore che renda più difficile la soddisfazione delle proprie ragioni creditorie”.

L'argomento, richiamato da ultimo anche dal Tribunale di Bologna nella sentenza del 1° aprile 2016, appare debole. L'affermazione secondo cui la scissione non comporterebbe per la società scissa alcun “reale depauperamento del patrimonio” si pone chiaramente in contrasto con la natura stessa dell'atto di scissione. Si potrebbe semmai discutere se il regime di responsabilità solidale degli altri soggetti interessati dalla scissione sia in grado di compensare la riduzione patrimoniale della scissa e neutralizzare il pregiudizio alle ragioni creditorie (sul punto si tornerà di seguito), ma negare che vi sia un effettivo depauperamento del patrimonio della scissa sembra, come detto, errato.

Né pare avere qualche rilevanza l'osservazione secondo cui “ogni spostamento patrimoniale dipendente dall'operazione trova corrispondenza nella sola sfera giuridica dei soci della società scissa, mentre quest'ultima nulla ottiene a fronte della riallocazione degli assets aziendali” (l'osservazione è di L. Rivieccio, Tutela dei creditori sociali tra azione revocatoria e scissione societaria, in Giur. comm., 2014, II, 1045, e ripresa dal Tribunale di Roma nella citata sentenza; sembra invocare tale argomento anche, F. Magliulo, L'inammissibilità dell'esercizio dell'azione revocatoria nei confronti della scissione, in Nuovo dir. soc., 2014, 19). Che la scissione incida anche sulla sfera giuridica dei soci della scissa (ai quali, come visto, verranno attribuite le quote o azioni della società beneficiaria), infatti, non sembra possa far venire meno il fatto che dalla scissione scaturisca uno “spostamento patrimoniale” ed una “riallocazione degli assets aziendali”..

In realtà, il dibattito in ordine alla natura della scissione societaria è molto più complesso di quanto si possa desumere dalle osservazioni della dottrina e della giurisprudenza appena citate. Senza ripercorrere per intero tale dibattito, si può però affermare che la tesi ad oggi più convincente sembra quella secondo cui è impossibile, oltre che inutile, ricercare una rigida collocazione dogmatica dell'istituto della scissione, atteso che “né la tesi del trasferimento patrimoniale né quella della modificazione statutaria si rivelano in grado di coglierne appieno le peculiarità”; la scissione, secondo tale orientamento, “si rivela espressione di una volontà di riordino di società, dunque di attività d'impresa, attuato con un amalgama di «trasferimenti» di parti di patrimonio, di attribuzione e redistribuzione di partecipazioni e di (eventuale) «estinzione» di una società e di (eventuale) «costituzione» di altre” (così, da ultimo, A. Bertolotti, Scissione delle società, Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2015, 95; nello stesso senso, M. Sarale, Le scissioni, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, vol. 5, t. 2, Le operazioni societarie straordinarie, Padova, 2011, 669).

Si tratta, quindi, sempre secondo la dottrina appena citata, di una “fattispecie sui generis, convenzionalmente delineata dal legislatore nei suoi vari aspetti”, che incide indubbiamente sugli aspetti organizzativi e statutari dei soggetti coinvolti ma che, altrettanto certamente, incide anche sugli aspetti patrimoniali degli stessi, dando luogo a trasferimenti di beni ed a mutamenti nella titolarità soggettiva di posizioni giuridiche tanto attive quanto passive, cioè ad atti di vera e propria disposizione patrimoniale rilevanti ai fini della lesione della garanzia patrimoniale del debitore.

Peraltro, che nell'operazione di scissione sia riscontrabile la coesistenza di effetti traslativi e riorganizzativi è posizione ormai da tempo condivisa anche dalla giurisprudenza della Suprema Corte, secondo la quale “la scissione parziale di una società, consistente nel trasferimento di parte del suo patrimonio a una o più società, preesistenti o di nuova costituzione, contro l'assegnazione delle azioni o delle quote di queste ultime ai soci della società scissa, si traduca [traduce] in una fattispecie effettivamente traslativa, che comporta l'acquisizione da parte della nuova società di valori patrimoniali prima non esistenti nel suo patrimonio, non risultando una siffatta vicenda incompatibile con la configurabilità di una modificazione statutaria (cfr. Cass. - Sez. lav., 6 ottobre 1998, n. 9897)” (così, Cass. Civ. - Sez. I, sent. 13 aprile 2012, n. 5874).

Merita di essere segnalato l'esplicito riferimento contenuto nella sentenza citata alla scissione parziale. In realtà, l'effetto traslativo del patrimonio si verifica sia in caso di scissione parziale che di scissione totale (ciò è quanto testualmente affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 9897 del 1998, richiamata nelle motivazioni della pronuncia del 2012).

Come noto, la differenza tra le due tipologie di scissione è comunemente individuata (salvo alcune posizioni discordanti, che non si ritiene di poter condividere; cfr. ad esempio, F. Magliulo, L'inammissibilità dell'esercizio dell'azione revocatoria nei confronti della scissione, cit., 21) nel fatto che nella scissione totale al trasferimento patrimoniale segue l'estinzione della scissa, mentre nella scissione parziale la scissa sopravvive. Come si vedrà, tale differenza sembra avere una certa rilevanza ai fini della revocabilità delle attribuzioni patrimoniali conseguenti ad un atto di scissione; sul punto, tuttavia, si tornerà di seguito.

(Segue): la c.d. irregredibilità degli effetti della scissione

Un altro argomento a sostegno della tesi della non revocabilità è individuato nella c.d. irregredibilità degli effetti della (fusione) scissione sancita dall'art. 2504-quater, comma 1, c.c. (richiamato per la scissione dall'art. 2506-ter, comma 5, c.c.), ai sensi del quale, “eseguite le iscrizioni dell'atto di fusione [da leggersi: scissione] a norma del secondo comma dell'art. 2504, l'invalidità dell'atto di fusione [scissione] non può più essere pronunciata”.

La ratio di tale norma è stata individuata nell'esigenza di preservare la stabilità dell'organizzazione societaria scaturita dal completamento dell'operazione di scissione. Proprio questa considerazione ha portato il Tribunale di Bologna, nella sopra richiamata sentenza del 1° aprile 2016, ad affermare che “pare ragionevole ritenere che per tutelare tali interessi di carattere generale, gli effetti della scissione diventino “irregredibili”, e che la tutela offerta ai creditori anteriori della società scissa si concreti nei rimedi specificamente previsti”; pertanto, continua il Tribunale, “la diversità qualitativa dei vizi non può comportare che tali effetti possano essere, in ogni caso messi in discussione (vuoi con la dichiarazione di nullità vuoi con la dichiarazione di inefficacia), una volta eseguite le prescritte formalità pubblicitarie” (nello stesso senso, cfr., Trib. Roma, sent. 19 ottobre 2015; Trib. Napoli, sent. 18 febbraio 2013; in dottrina, cfr., G. Scognamiglio, Le scissioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G..B. Portale, vol. 7, t. 2, parte seconda, Torino, 2004, 294).

Contro detto argomento è stato replicato che l'impossibilità di dichiarare l'invalidità dell'atto non preclude affatto, in assenza di una esplicita previsione in tal senso, di dichiararne l'inefficacia, posto che “detta norma (l'art. 2504-quater c.c.; n.d.a.) ha pacificamente natura eccezionale e, come tale, non consente interpretazioni estensive e/o analogiche” e che “non vi è dubbio che l'invalidità è categoria giuridica differente dalla inefficacia dell'atto” (così, Trib. Palermo, ord. 24 gennaio 2004).

È noto, infatti, che lo strumento revocatorio (sia quello ordinario che quello fallimentare) non opera sul piano dell'invalidità dell'atto pregiudizievole bensì su quello dell'inefficacia, peraltro relativa; l'impossibilità di dichiarare l'invalidità di un atto, quindi, non dovrebbe pregiudicare la revocabilità dello stesso. É vero, anzi, il contrario, e cioè che la validità dell'atto da revocare costituisce un presupposto dell'azione revocatoria, giacché l'invalidità dell'atto farebbe venir meno qualunque interesse a chiederne la declaratoria di inefficacia (così, C. Cossu, voce: Revocatoria ordinaria (azione), in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1998, 461; S. D'Ercole, L'azione revocatoria, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 20, t. 2, Torino, 1998, 173; cfr., anche, T. Di Marcello, La revoca ordinaria e fallimentare della scissione di società, in Dir. fall., 2006, I, 68).

Ciò detto, è in effetti innegabile che un sistema che vieti la declaratoria di nullità o l'annullamento di un atto ma ne consenta la declaratoria di inefficacia potrebbe sembrare a prima vista poco coerente: se l'obiettivo dell'art. 2504-quater c.c. è quello di garantire la stabilità degli effetti della complessa operazione societaria, sarebbe logico dedurre che detti effetti non possano in nessun caso essere messi in discussione, vuoi con la dichiarazione di invalidità vuoi con la dichiarazione di inefficacia (in tal senso, Trib. Bologna, sent. 1° aprile 2016; Trib. Napoli, sent. 18 febbraio 2013; in dottrina, L. Rivieccio, Tutela dei creditori sociali tra azione revocatoria e scissione societaria, cit., 1052; F. Magliulo, L'inammissibilità dell'esercizio dell'azione revocatoria nei confronti della scissione, cit., 34; D. Davigo, Brevi spunti su alcune questioni relative alla ammissibilità dell'azione revocatoria fallimentare dell'atto di scissione, in Giur. comm., 2007, II, 266).

In realtà, appare incontestabile che la ratio della norma in esame consista nella tutela della stabilità giuridica degli effetti della scissione e che tale ratio imponga di interpretare la norma nel senso di ritenerla preclusiva anche della dichiarazione di inefficacia, oltre che di quella di invalidità. D'altro canto, come giustamente messo in luce dalla dottrina e dalla giurisprudenza più attente, sembra altrettanto evidente che “tale ratio attiene esclusivamente a quel contenuto dell'atto di fusione [scissione] che è essenziale ai fini dell'adozione del nuovo tipo organizzativo” (così, M. Pasquini, commento all'art. 2504-quater c.c., in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle società; dell'azienda; della concorrenza, artt. 2452-2510, a cura di D. U. Santosuosso, cit., 1575 ss.).

Pertanto, come affermato dal Tribunale di Palermo nella sentenza del 25 maggio 2012, affermare il principio di irregredibilità degli effetti della scissione di cui all'art. 2504-quater c.c. “non significa, però, che fermi restando gli effetti della scissione, non possa essere riconosciuta ai creditori (e quindi al curatore fallimentare) la possibilità di esperire i mezzi di tutela generale di conservazione della garanzia patrimoniale, al sol fine, non di far venir meno il “nuovo assetto” societario, ma di aggredire i beni oggetto dell'operazione per il soddisfacimento di un credito precedente alla scissione” (in senso sostanzialmente simile si era già espresso, T. Di Marcello, La revoca ordinaria e fallimentare della scissione di società, cit., 68); sempre secondo il Tribunale di Palermo, infatti, “la revocatoria non solo non inficia la struttura dell'operazione posta in essere, ma non colpisce nemmeno l'intero atto di disposizione: il vero oggetto della dichiarazione di inopponibilità è costituito dall'acquisto; la revocatoria è diretta a far rientrare nell'area della responsabilità patrimoniale della società fallita i beni assegnati alla società convenuta e non a cancellare la complessiva operazione”. La posizione sembra chiara e, sulla base di quanto sin qui detto in ordine alla natura della scissione, condivisibile.

Riprendendo la risalente contrapposizione tra natura traslativa e natura riorganizzativa della scissione ed avendo appurato che la scissione è una operazione “polimorfa” che produce effetti sia dell'uno che dell'altro tipo, sembra infatti sostenibile la tesi secondo cui l'irregredibilità degli effetti della scissione sancita dall'art. 2504-quater c.c. riguardi soltanto gli effetti riorganizzativi, incidenti sulla scomposizione e ricomposizione degli assetti contrattuali e statutari delle società coinvolte nell'operazione, e non anche quelli meramente patrimoniali, consistenti nell'assegnazione di porzioni del patrimonio da un soggetto ad un altro. Sulla base di tali considerazioni, l'azione revocatoria (sia quella ordinaria che quella revocatoria) potrebbe ritenersi ammissibile anche ove diretta contro un atto di scissione (rectius: contro gli effetti patrimoniali scaturenti dall'atto di scissione), proprio perché mediante tale azione non si mira a ricostituire l'assetto societario preesistente all'atto di scissione, ma solo alla reintegrazione della garanzia patrimoniale del debitore inciso da tale operazione mediante la declaratoria di inefficacia relativa dei trasferimenti patrimoniali scaturiti dalla stessa.

(Segue): la previsione di un sistema di tutele tipico ed autosufficiente

L'ultimo argomento ricorrente a sostegno dell'inammissibilità della revocatoria dell'atto di scissione è stato individuato nell'esistenza di un “compendio normativo a tutela dei creditori sociali per le ipotesi di scissione, che sembra assumere carattere “assorbente” rispetto all'istituto civilistico dell'azione revocatoria, in quanto idoneo a coprire ogni possibile ipotesi di pregiudizio della posizione creditoria” (così, L. Rivieccio, Tutela dei creditori sociali tra azione revocatoria e scissione societaria, cit, 1050; nello stesso senso, A. Picchione, L'incompatibilità dell'azione revocatoria con la scissione di società, in Gazz. for., 2014, 18).

Il compendio normativo al quale si fa riferimento è quello sopra brevemente illustrato: il diritto di opposizione dei creditori ex art. 2503 c.c.; il regime di responsabilità solidale di ciascuna delle società interessate dalla scissione per i debiti della società scissa, previsto dagli artt. 2506-quater, comma 3 e 2506-bis, comma 3, c.c.; infine, il diritto dei soci e dei terzi danneggiati dalla scissione al risarcimento dei danni cagionati dal compimento dell'operazione, fatto salvo dall'art. 2504-quater, comma 2, c.c.

Ebbene, secondo l'orientamento contrario all'ammissibilità della revocatoria, il ricorso a tale strumento sarebbe precluso dall'esistenza di una “specifica disciplina della scissione che ha delineato un “tipico” sistema di tutela dei creditori, come per le altre operazioni straordinarie societarie” (così il Tribunale di Roma nella sentenza del 19 ottobre 2015; in dottrina, anche, F. Magliulo, L'inammissibilità dell'esercizio dell'azione revocatoria nei confronti della scissione, cit., 33); in particolare, continua la sentenza citata: “il legislatore, nella consapevolezza delle particolari caratteristiche dell'istituto, appresta, infatti, peculiari e autosufficienti strumenti di tutela dei terzi, bilanciandoli, nel contempo, con le esigenze di certezza dei traffici giuridici, particolarmente sentite in ambito societario”.

L'esistenza di tale sistema di tutele “tipico ed autosufficiente” comporterebbe quindi l'impossibilità di ricorrere ad altri rimedi, posto che “la tutela offerta ai creditori anteriori della società scissa si concreti [concreta] nei rimedi specificamente previsti, che sono tra l'altro oggettivamente estesi ed apprezzabili” (così il Tribunale di Bologna, nella sentenza del 1° aprile 2016).

Anche tale argomento è stato sottoposto a critica. In giurisprudenza è stato così affermato che “gli strumenti dell'opposizione dei creditori (art. 2503 c.c.), del risarcimento del danno (art. 2504-quater, comma 2, c.c.) e della responsabilità solidale delle societarie beneficiarie (art. 2506-bis c.c.), non appaiono pienamente soddisfacenti rispetto alle esigenze di tutela sottese all'azione revocatoria fallimentare”; ed ancora, che: “non si può, infatti, affermare che con le suindicate norme abbiano delineato un microsistema di tutela dei creditori in grado di soddisfare anche le (residuali) esigenze sottese all'azione revocatoria fallimentare e ciò per due ordini di ragioni: nessuna disposizione si esprime espressamente in tal senso; i particolari strumenti di tutela previsti o hanno un oggetto diverso o producono effetti “più limitati” rispetto a quello della revocatoria fallimentare” (così, il Tribunale di Palermo nella più volte citata sentenza del 25 maggio 2012).

La stessa giurisprudenza ha anche ben chiarito quali sono le esigenze di tutela lasciate sguarnite dagli strumenti “endosocietari” e la cui sussistenza rende necessario il ricorso al rimedio generale dell'azione revocatoria (ordinaria o fallimentare).

In primo luogo, sia il rimedio dell'opposizione sia il regime di responsabilità solidale delle società coinvolte nella scissione operano con esclusivo riguardo ai creditori anteriori alla scissione; al contrario, l'azione revocatoria è strumento messo a disposizione anche dei creditori posteriori all'atto pregiudizievole, tanto nel caso di revocatoria fallimentare (posta strutturalmente a tutela di tutti i creditori concorsuali), quanto nel caso di revocatoria ordinaria (seppure nelle sole ipotesi di dolosa preordinazione dell'atto pregiudizievole, ex art. 2901, comma 1, n. 1, c.c.; sul punto, cfr., Trib. Venezia, sent. 5 febbraio 2016; Trib. Catania, sent. 9 maggio 2012).

Ai creditori posteriori all'atto di scissione, dunque, resterebbe l'unica tutela rappresentata dalla domanda risarcitoria ex art. 2504-quater, comma 2, c.c., rispetto alla quale sarebbero legittimati tutti i creditori danneggiati, senza alcun discrimen tra creditori anteriori e creditori posteriori (in tal senso, cfr., P.D. Beltrami, La legittimazione attiva dei creditori all'azione risarcitoria ex art. 2504 quater c.c., in Riv. soc., 2002, 1123). Tuttavia, com'è stato puntualmente rilevato, “il “danno revocatorio” ed il danno ex art. 2504-quater c.c. non sono concetti omogenei, in quanto definiscono entità sostanzialmente diverse: il primo (indiretto) deriva dalla lesione della garanzia patrimoniale, il secondo dalla lesione diretta del patrimonio del creditore” (così, Trib. Palermo, sent. 25 maggio 2012; di avviso in parte diverso sembra, C. Angelici, La revocatoria della scissione nella giurisprudenza, in Riv. dir. comm., 2014, II, 130, secondo il quale l'azione revocatoria e quella risarcitoria hanno sostanzialmente gli stessi presupposti, differenziandosi soltanto per il contenuto della pronuncia chiesta al giudice).

D'altro canto, nemmeno con riguardo ai creditori anteriori si può dire che le tutele “endosocietarie” abbiano la stessa portata di quelle generali.

In primo luogo, gli effetti della revocatoria (ordinaria o fallimentare che sia) sono ben diversi da quelli assicurati dal regime di responsabilità solidale della società scissa e delle beneficiarie ai sensi degli artt. 2506-quater, comma 3, c.c. (per i debiti espressamente assegnati nel progetto di scissione) e 2506-bis, comma 3, c.c. (per quelli non espressamente assegnati), posto che tale responsabilità è in ogni caso limitata al valore effettivo del patrimonio netto assegnato o rimasto a ciascuna delle società interessate dalla scissione; tale limite non opera, invece, nel caso di esperimento dell'azione revocatoria (cfr., sul punto, Trib. Palermo, sent. 9 maggio 2012; Trib. Benevento, sent. 17 settembre 2012).

Si potrebbe peraltro sostenere che il limite del patrimonio netto assegnato o rimasto non possa recare alcun pregiudizio sostanziale per il creditore, poiché il patrimonio complessivamente posto a garanzia dei propri crediti dovrebbe restare invariato, ancorché ripartito tra diversi soggetti.

Tale osservazione non sembra però considerare che già la mera ripartizione del patrimonio costituisce pregiudizio ai fini della revocatoria (ma sul punto si tornerà di seguito). In ogni caso, si deve anche ricordare che la declaratoria di inefficacia di un atto dispositivo (quando il bene o il diritto oggetto di disposizione sia ancora nella titolarità dell'acquirente, oppure sia stato trasferito a terzi non in buona fede, ipotesi nella quale la declaratoria di inefficacia è opponibile anche ai subacquirenti), consente al creditore di compiere le azioni esecutive o conservative direttamente sui beni e diritti oggetto di revocatoria con preferenza rispetto agli altri creditori del debitore. Tale preferenza non sussiste, invece, nel caso di azione diretta a far valere la responsabilità solidale delle altre società, che consente al creditore di agire sul patrimonio del debitore solidale (entro i limiti di cui si è detto in precedenza), soltanto in posizione di parità rispetto a tutti gli altri suoi creditori (la differenza è evidenziata da C. Angelici, La revocatoria della scissione nella giurisprudenza, cit. p. 131). Insomma, nel caso prospettato la revocatoria garantisce una tutela più forte alle ragioni del creditore di quanto non faccia la sola previsione della responsabilità solidale (e lo stesso vale, ovviamente, per quella risarcitoria).

Infine, laddove i richiamati profili di maggiore tutela garantiti dalla revocatoria risultassero concretamente irrilevanti (perché, in ipotesi, il patrimonio netto trasferito alla beneficiaria sia in grado di assicurare la piena soddisfazione tanto del creditore della scissa quanto dei creditori propri della beneficiaria), nemmeno sembra corretto affermare che “la solidarietà ex lege prevista sterilizza sostanzialmente il profilo dell'evenuts damni” richiesto per l'esperibilità dell'azione revocatoria (così, Trib. Modena, sent. del 22 gennaio 2010). Come già anticipato e come correttamente messo in luce dal Tribunale di Benevento nella citata sentenza del 17 settembre 2012, infatti, l'eventus damni rilevante ai fini della revocatoria ordinaria non può essere limitato alla sola riduzione quantitativa della garanzia patrimoniale, ma può consistere anche nella “mera maggiore difficoltà della riscossione del credito”, di modo che possa costituire pregiudizio alle ragioni del creditore rilevante agli effetti della domanda revocatoria anche “la sottoposizione delle ragioni del creditore al beneficium ordinis, o, addirittura, al molto oneroso beneficium excussionis […] che la legge pone a favore della società assegnataria dei beni” (nel senso che la maggiore difficoltà di riscossione del credito costituisca di per sé pregiudizio ai fini della revocatoria, cfr., in dottrina, S. D'Ercole, L'azione revocatoria, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 20, t. 2, cit., 170).

Tanto detto con riguardo alla revocatoria in generale, occorre infine ricordare che (almeno secondo l'orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente, favorevole alla teoria c.d. “antindennitaria”) la revocatoria fallimentare risponde ad esigenze ulteriori rispetto a quelle presidiate dall'azione ordinaria e connesse alla tutela della par condicio creditorum, che potrebbe essere lesa da un'operazione di scissione erispetto alle quali gli strumenti di tutela endosocietaria si rivelano del tutto inefficaci (in tal senso, Trib. Benevento, sent. 17 settembre 2012; mostra consapevolezza di tale aspetto anche Trib. Modena, sent. 22 gennaio 2010, che riguarda però un caso di revocatoria ordinaria proposta al di fuori della procedura concorsuale).

Concludendo sul punto, sembra insomma che i rimedi endosocietari siano in realtà ben lontani dal coprire ogni possibile ipotesi di pregiudizio della posizione creditoria derivante dall'effettuazione della scissione. In mancanza di una norma espressa in tal senso, dunque, sembra che la previsione di tali rimedi non sia di per sé in grado di precludere il ricorso ai rimedi generali di tipo revocatorio.

La revocatoria della scissione totale

Da quanto sin qui detto emerge come, in assenza di espresse previsioni normative, non vi siano reali impedimenti all'esperibilità dell'azione revocatoria (tanto ordinaria quanto fallimentare) contro l'atto di scissione. Più in particolare, emerge che l'azione revocatoria contro la scissione possa ritenersi ammissibile tutte le volte in cui sia diretta ad ottenere la declaratoria di inefficacia degli effetti patrimoniali di tale atto senza intaccarne gli effetti riorganizzativi. A tal proposito viene in rilievo una delle distinzioni fondamentali nell'ampio genus delle scissioni, cioè quella tra scissione totale e scissione parziale.

Nella scissione totale, come detto, alla ripartizione del patrimonio tra le società beneficiarie fa seguito l'estinzione della società scissa. In questo caso è evidente come abbia poco senso discorrere di conservazione o ricostituzione della garanzia patrimoniale del debitore che ha compiuto atti pregiudizievoli per i propri creditori. Ed infatti, atteso che l'azione revocatoria (tanto ordinaria quanto fallimentare) ha come scopo quello di conservare (o estendere, nel caso di crediti posteriori all'atto) la garanzia patrimoniale assicurata dal patrimonio del debitore contro atti pregiudizievoli da questo posti in essere, l'ammissibilità di tale azione richiede l'attuale esistenza del debitore e del suo patrimonio da reintegrare e conservare; pertanto, nei casi in cui l'atto pregiudizievole si accompagna strutturalmente all'estinzione del debitore, potrebbe sorgere il dubbio che l'azione revocatoria non sia nemmeno astrattamente prospettabile, venendo contestualmente meno sia il soggetto contro cui l'azione è diretta sia lo scopo al quale è finalizzata.

In realtà, è chiaro che l'estinzione della società scissa non fa venir meno né i debiti assunti dalla stessa né il patrimonio che costituisce la garanzia patrimoniale per tali debiti, né, infine il soggetto tenuto ad adempiere i debiti medesimi. Semplicemente, di tali debiti risponderanno le società beneficiarie, con il patrimonio a loro trasferito proprio per effetto della scissione

Si potrebbe dunque ritenere, come in effetti affermato in una ormai risalente pronuncia del Tribunale di Livorno (sent. 2 novembre 2003, in Fall., 2004, 1138, con commento critico di F. Montaldo, Scissione societaria e revocatoria fallimentare), che in caso di scissione totale i creditori della società “pregiudicata” dalla scissione (o il curatore fallimentare della stessa, com'era nel caso deciso dalla pronuncia citata) possano agire in revocatoria contro la società beneficiaria avvantaggiata dalla scissione per ottenere la declaratoria di inefficacia nei loro confronti delle disposizioni patrimoniali scaturite dalla scissione.

Contro tale ipotesi è stato invero obiettato che tra società pregiudicata e società avvantaggiata non è mai sorto alcun rapporto giuridico al quale addebitare causalmente il pregiudizio e che debba perciò essere dichiarato inefficace nei confronti dei creditori della società pregiudicata, con l'effetto che la domanda diretta a tale scopo dovrebbe ritenersi inammissibile (in tal senso, commentando la citata pronuncia del Tribunale di Livorno, G. Rago, Manuale della revocatoria fallimentare, Profili sistematici di dottrina e giurisprudenza, Padova, 2006, 217). Detta obiezione potrebbe, però, essere superata considerando che, se da un lato è vero che tra le società risultanti dalla scissione non è mai intercorso alcun atto dispositivo da dover dichiarare inefficace, dall'altro è vero anche che tale atto è intercorso tra la scissa e la società beneficiaria avvantaggiatasi della scissione e che tale ultima società debba rispondere degli effetti patrimoniali degli atti posti in essere dalla scissa prima della sua estinzione. In definitiva, se vi è stato un atto dispositivo pregiudizievole, la sua declaratoria di inefficacia non dovrebbe essere preclusa dall'estinzione dell'ente che lo ha posto in essere così come, mutatis mutandis, la morte della persona fisica debitrice non comporta certamente l'inammissibilità o l'improcedibilità della domanda revocatoria diretta contro un atto inter vivos posto in essere prima della sua morte.

Dunque, seguendo tale impostazione, si potrebbe ritenere che in caso di scissione totale il creditore (o per esso il curatore fallimentare) di una delle società risultanti dalla scissione ben potrebbe chiedere la declaratoria di inefficacia degli effetti patrimoniali della scissione, convenendo in giudizio la società avvantaggiata dalla scissione (nella sua qualità destinatario dell'atto dispositivo) e, in luogo della ormai estinta società scissa, le società beneficiarie della scissione nella loro qualità di “successori” della società scissa.

Ciò detto, non si può comunque nascondere che, dinanzi ad una scissione totale, lo scopo al quale sembrerebbe tendere la domanda revocatoria (sia essa ordinaria o fallimentare) proposta dai creditori di una delle società beneficiarie (o, per essi, dal curatore) è la ricostituzione del patrimonio inizialmente facente capo alla scissa e poi ripartito tra le beneficiarie, e che tale intento si avvicini molto all'obiettivo di far “rivivere” la società scissa, o almeno il suo patrimonio; potrebbe dunque ritenersi che si sia in presenza di un'azione tendente a mettere in discussione non soltanto gli effetti patrimoniali della scissione ma anche quelli di carattere riorganizzativo e che tale azione sia, quindi, difficilmente compatibile con il principio di irregredibilità di tali effetti.

Se così fosse, si dovrebbe affermare che nel caso di scissione totale non sarebbe proponibile alcuna domanda revocatoria. Contro l'eventuale pregiudizio scaturente dalla scissione totale i creditori potrebbero dunque tutelarsi unicamente con i rimedi endosocietari previsti dalla disciplina in materia di fusione e scissione, pur con tutti i limiti che, come visto, caratterizzano tali rimedi.

Ad ogni modo, è bene tener presente che anche nel caso di scissione totale il dubbio circa l'ammissibilità o meno dell'azione revocatoria non dipende dalle caratteristiche strutturali dell'operazione societaria, bensì unicamente dalla presenza di una norma (quella che dispone l'irregredibilità degli effetti organizzativi della scissione) e dalla valenza che si intende attribuire ad essa. Se si ritiene che il principio di irregredibilità degli effetti della scissione sia così forte da prevalere sulle esigenze di tutela del ceto creditorio, anche nel caso in cui l'operazione sia posta in essere con evidenti finalità fraudolente, il dubbio potrebbe avere una ragion d'essere; in caso contrario, ritenendo che tale principio debba cedere dinanzi alle esigenze di tutela dei creditori, la revocabilità dovrebbe essere riconosciuta secondo lo schema sopra illustrato.

La proponibilità dell'azione da parte dei creditori delle società beneficiarie

La prassi giurisprudenziale sin qui esaminata riguarda casi in cui l'attore in revocatoria era un creditore della società scissa (o, più spesso, il curatore del fallimento della stessa). Lo schema tipico comune a quasi tutti i precedenti vede infatti una società che, al fine di sottrarre il suo patrimonio alla garanzia dei propri creditori, pone in essere una scissione solitamente caratterizzata da una sottovalutazione dell'attivo assegnato (in modo da rendere più difficoltosa l'attivazione della responsabilità solidale delle beneficiarie) o, comunque, da una sproporzione tra attivo e passivo assegnato.

Non si può comunque escludere che siano interessati alla revocatoria della scissione anche i creditori di una società beneficiaria e, tra questi, sia quelli che vengono “assegnati” alla beneficiaria proprio all'esito della scissione sia quelli precedenti la scissione stessa (ovviamente, soltanto nel caso in cui la beneficiaria sia preesistente).

I creditori che vengono “assegnati” in sede di scissione potrebbero essere pregiudicati sia nel caso di beneficiaria di nuova costituzione, laddove a quest'ultima non fossero contestualmente assegnati elementi attivi sufficienti a soddisfare i relativi crediti (cioè nelle ipotesi in cui fosse posta in essere una scissione c.d. “negativa”, che peraltro la giurisprudenza della Suprema Corte ritiene illegittima; sul punto, cfr., Cass. Civ. - Sez. I, sent. 20 novembre 2013, n. 26043, in questo portale con nota di Galletti, Scissione negativa e valutazione dell'insolvenza; in dottrina, M. Sarale, Le scissioni, cit., 614), sia nel caso di beneficiaria preesistente, allorquando detta società fosse già gravata da altri debiti e si realizzasse la confusione tra le due masse patrimoniali (quella propria della beneficiaria e quella assegnata in sede di scissione).

Parimenti pregiudicati dalla scissione potrebbero essere anche i creditori della beneficiaria anteriori alla scissione, sempre nel caso in cui in sede di scissione venissero attribuiti elementi passivi superiori a quelli attivi.

Pur in assenza di precedenti su tali ipotesi, alla luce di quanto esposto in precedenza sembra che la revocatoria debba ritenersi ammissibile anche in questi i casi.

Nel primo caso, la declaratoria di inefficacia degli effetti patrimoniali della scissione comporterebbe l'inopponibilità nei confronti del creditore della sua “assegnazione” alla beneficiaria, con la conseguenza che quest'ultimo potrà soddisfare il proprio credito anche sul patrimonio della società scissa senza i limiti previsti dalla disciplina endosocietaria per l'attivazione della responsabilità solidale delle altre società coinvolte nella scissione.

Nel caso dei creditori della beneficiaria anteriori alla scissione, invece, l'accoglimento della domanda revocatoria comporterebbe l'inopponibilità nei confronti del creditore anteriore dell'assegnazione patrimoniale disposta con la scissione; ne conseguirebbe il diritto di quest'ultimo di agire contro il proprio debitore (la società beneficiaria preesistente) con preferenza rispetto ai “nuovi creditori”, al pari di quanto avviene in tutti i casi in cui oggetto di revocatoria sia l'assunzione da parte del debitore di un debito ulteriore.

Riguardo a tale ultima ipotesi occorre precisare che, ai fini dell'esperibilità dell'azione revocatoria, sembra non avere rilevanza alcuna che la società scissa sopravviva o meno alla scissione (cioè che si tratti di scissione parziale o totale). L'atto di cui si chiede la revocatoria, infatti, è soltanto la volontaria assunzione del debito da parte della beneficiaria e la declaratoria di inopponibilità di tale atto al creditore preesistente appare del tutto insensibile alle sorti del precedente debitore.

La qualificabilità della scissione come atto oneroso o gratuito

Avendo attribuito alla scissione (rectius: agli effetti patrimoniali della scissione) natura di atto di disposizione patrimoniale revocabile, seppure nei limiti sopra indicati, ai fini della concreta operatività dello strumento revocatorio occorre stabilire se tale atto debba ritenersi a titolo gratuito o oneroso poiché tale qualificazione, come noto, assume rilievo sia per la revocatoria ordinaria (ex art. 2901, comma 1, n. 2, c.c.), sia per la revocatoria fallimentare.

In proposito è opportuno ricordare che, ai fini dell'azione revocatoria, il concetto di onerosità è più ampio di quello di corrispettività e comprende tutti quegli atti dai quali discenda anche per il debitore un vantaggio patrimoniale (così, per revocatoria ordinaria, S. D'Ercole, cit., p. 181; nello stesso senso, con riguardo alla revocatoria fallimentare, Cass. Civ. -Sez. I, 5 novembre 1999, n. 12317, sent.); specularmente deve ritenersi gratuito qualunque atto che comporti una volontaria attribuzione patrimoniale in favore di un altro soggetto che non sia bilanciata da alcun vantaggio, sia pure indiretto o mediato, per il soggetto disponente.

Alla luce di tali osservazioni, per stabilire se l'assegnazione patrimoniale contenuta nell'atto di scissione debba ritenersi atto oneroso o gratuito, sembra necessario avere riguardo al contenuto di tale assegnazione.

Se, come avverrà nella normalità dei casi, alla beneficiaria vengono contestualmente assegnati elementi patrimoniali attivi e passivi l'atto dovrà essere qualificato oneroso, salvo verificare l'eventuale sproporzione tra attivo e passivo per determinare il regime normativo cui sarà soggetta l'azione nel caso di revocatoria fallimentare (in tal senso, Trib. Palermo, sent. 25 maggio 2012).

Nel caso in cui in sede di scissione vengano attribuiti alla beneficiaria soltanto elementi patrimoniali attivi, l'atto dovrebbe ritenersi gratuito (tanto ai fini della revocatoria ordinaria, quanto ai fini dell'inefficacia ex lege prevista dall'art. 64 l. fall.), poiché il depauperamento patrimoniale della società scissa non può ritenersi bilanciato dall'assegnazione ai soci della scissa delle partecipazioni nella beneficiaria. Detta assegnazione, infatti, per la società scissa è priva di risvolti patrimoniali e sembra rientrare tra gli aspetti inerenti gli effetti di riorganizzazione e rimodulazione del contratto sociale di cui la società costituisce l'emanazione (in tal senso si è espresso anche il Tribunale di Napoli nella sentenza del 18 febbraio 2013, salvo poi respingere la domanda sul presupposto, non condiviso, della radicale inammissibilità dell'azione revocatoria contro la scissione).

Infine, nel caso (teorico) in cui alla società beneficiaria venissero attribuiti soltanto elementi patrimoniali negativi, con riguardo ai creditori della società beneficiaria (che in tale ipotesi dovrebbe essere necessariamente preesistente, non potendosi nemmeno astrattamente prefigurare la costituzione di una società con conferimento di soli elementi patrimoniali negativi) l'atto dovrebbe essere configurato come atto gratuito, al pari di qualunque atto che comporti la mera assunzione di un'obbligazione non giustificata dalla contestuale attribuzione di un qualche vantaggio economico.

Conclusioni

All'esito della trattazione che precede è opportuno formulare alcune considerazioni conclusive.

In primo luogo, nessuno degli argomenti comunemente addotti a sostegno dell'inammissibilità della revocatoria (ordinaria o fallimentare) dell'atto di scissione sembra, in realtà, decisivo in tal senso.

È vero che la legge tende alla conservazione degli effetti dell'operazione impedendone la declaratoria di invalidità dopo il suo perfezionamento ed è altresì vero che sono stati previsti specifici strumenti di tutela dei creditori delle società interessate dalla scissione.

Tuttavia, con riguardo al primo punto, sembra che la c.d. “irregredibilità” della scissione abbia ragione di essere così fortemente tutelata soltanto con riguardo agli effetti di riorganizzazione delle società interessate dalla scissione; non anche, invece, con riguardo agli effetti meramente patrimoniali, in relazione ai quali non si ravvede alcuna ragione per una loro tutela maggiore rispetto a qualsiasi altra vicenda di disposizione patrimoniale.

Passando alla seconda questione, in assenza di una espressa previsione normativa, non si spiega invero perché la previsione di alcuni rimedi specifici dovrebbe comportare l'inammissibilità del ricorso ai rimedi generali, soprattutto laddove sia accertato (come nel caso che ci occupa) che detti rimedi specifici non tutelano tutti i soggetti che possono ricevere pregiudizio dalla scissione e che, in ogni caso, la tutela assicurata è comunque meno intensa ed efficace di quella garantita dai rimedi generali. Sembra invece più corretto ritenere che la disciplina endosocietaria abbia inteso offrire ai creditori strumenti di tutela ulteriori ed aggiuntivi (alcuni dei quali eccezionalmente operanti in via preventiva), senza però privarli di quelli già concessi in via generale dall'ordinamento.

Alla luce di quanto appena ricordato si deve quindi ritenere che la scissione societaria (o meglio, gli effetti patrimoniali scaturenti dalla scissione societaria) sia revocabile poiché la struttura dell'operazione consente la declaratoria di inefficacia del trasferimento patrimoniale che ne scaturisce senza incidere sugli aspetti soggettivi e organizzativi delle società interessate.

L'unica ipotesi in cui la revocabilità della scissione potrebbe essere messa in dubbio è, forse, quella della revocabilità della scissione totale (e, peraltro, soltanto nei confronti dei creditori della scissa, e non anche dei creditori propri della eventuale società beneficiaria preesistente). Anche in questo caso, però, è legittimo il dubbio che al principio di irregredibilità degli effetti della scissione possa attribuirsi una valenza tale da poter comprimere le esigenze di tutela del ceto creditorio già pregiudicato dall'atto dispositivo rappresentato dalla scissione.

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