Concordato liquidatorio e impresa confiscata: primi spunti di riflessione

04 Novembre 2016

Uno dei primi provvedimenti giurisprudenziali aventi ad oggetto l'insidioso tema dei rapporti tra concordato preventivo e misure di prevenzione patrimoniali antimafia è la pronuncia del Tribunale di Marsala, sez. Civile, 10 giugno 2014. Essa, peraltro, offre lo spunto per interrogarsi sulla funzione che una procedura concorsuale liquidatoria (quale è il concordato preventivo con cessione dei beni) potrebbe avere quando l'intero patrimonio dell'imprenditore sia sottoposto ad un provvedimento ablativo di prevenzione.
Premessa

Uno dei primi provvedimenti giurisprudenziali aventi ad oggetto l'insidioso tema dei rapporti tra concordato preventivo e misure di prevenzione patrimoniali antimafia è la pronuncia del Tribunale di Marsala, sez. Civile, 10 giugno 2014. Essa, peraltro, offre lo spunto per interrogarsi sulla funzione che una procedura concorsuale liquidatoria (quale è il concordato preventivo con cessione dei beni) potrebbe avere quando l'intero patrimonio dell'imprenditore sia sottoposto ad un provvedimento ablativo di prevenzione.

La vicenda processuale

Una società a responsabilità limitata depositava regolare domanda di concordato preventivo liquidatorio presso il Tribunale di Marsala. In premessa, dichiarava che l'intero patrimonio aziendale era già stato sottoposto a confisca di prevenzione divenuta definitiva con sentenza passata in giudicato. Nella medesima sede dichiarava, altresì, che l'ANBSC (Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati) si sarebbe avvalsa degli organi societari al fine di perseguire i propri scopi istituzionali, tra i quali quello di evitare il fallimento e garantire il miglior soddisfacimento del ceto creditorio. Il Tribunale adito, con decreto del 10 giugno 2014, rigettava l'istanza di concordato preventivo e, con contestuale sentenza, dichiarava il fallimento della società istante.

Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale ed il suo approdo normativo

Il processo di armonizzazione e coordinamento tra procedure concorsuali e confisca di prevenzione è stato per molto tempo oggetto di un vivo dibattito dottrinale e giurisprudenziale. La querelle mirava: in primo luogo, ad individuare e suggerire posizioni condivise circa la natura della confisca di prevenzione (introdotta con L. n. 646 del 13 settembre 1982); in secondo luogo, a sciogliere i dubbi interpretativi sorti quando la misura preventiva incideva su cespiti sottoposti a fallimento.

Limitando l'approfondimento a quest'ultimo tema, il dibattito vedeva contrapporsi due orientamenti, i quali – a seconda che valorizzassero lo scopo della confisca preventiva ovvero quello della procedura fallimentare – giungevano a conclusioni diametralmente opposte.

Il primo orientamento, sostenuto dalla dottrina maggioritaria, suggeriva di risolvere la predetta questione nel segno della prevalenza della procedura fallimentare sulla confisca di prevenzione. Tale filone di pensiero rilevava come l'interesse perseguito dal fallimento, mirante alla tutela dei creditori, non fosse contrapposto a quello perseguito dalla confisca di prevenzione, avente ad oggetto la repressione dell'economia criminale. Piuttosto, tale orientamento riteneva come il primo assorbisse e si allineasse con il secondo nel senso che la procedura fallimentare, privando il debitore del potere di amministrazione e disposizione dei propri beni, finiva – di fatto – per realizzare gli stessi obiettivi della confisca di prevenzione: la quale pure mirava a privare l'indiziato mafioso della disponibilità dei propri cespiti.

Un secondo orientamento, di matrice giurisprudenziale, risolveva l'interferenza tra le dette procedure nel segno della prevalenza della confisca sul fallimento. In particolare, quest'ultimo riteneva che l'interesse a sottrarre dal circuito economico beni acquisiti in costanza di uno status di pericolosità criminale doveva necessariamente prevalere per esigenze di prevenzione generale. Diversamente, si faceva notare, il fallito sarebbe comunque rimasto titolare del patrimonio oggetto della misura (nonostante la perdita di disponibilità e di amministrazione dei propri beni), col rischio di vanificarne l'effetto ablativo.

L'annosa diatriba è stata regolata solo di recente. Il D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 del, (impropriamente) detto Codice Antimafia, custodisce le norme che disciplinano i rapporti tra la misura di prevenzione e il fallimento, ispirandosi ai principi di razionalizzazione, semplificazione e coordinamento. Nello specifico, il testo di legge de quo detta tali norme agli artt. 63 e 64 i quali regolamentano la materia adottando il criterio logico-temporale dell'atto giuridico. In base a tale criterio, la fonte distingue due fattispecie possibili.

La prima fattispecie, regolata dall'art. 63 D. Lgs. n. 159/2011, contempla la dichiarazione di fallimento successiva al provvedimento ablativo. In questo caso, fatta salva l'iniziativa del debitore o dei creditori, il potere di chiedere il fallimento compete al pubblico ministero. Quest'ultimo può agire anche su segnalazione dell'amministratore giudiziario, al quale non sembra spettare autonoma legittimazione attiva. Ad ogni modo, quanto qui più interessa è che, una volta dichiarato il fallimento, i beni sottoposti a confisca di prevenzione antimafia sono per legge esclusi dalla massa attiva fallimentare (art. 63, comma 4). I beni confiscati vengono così acquisiti al patrimonio dello Stato e i diritti vantati su di essi dai terzi sono soddisfatti a condizione che siano anteriori alla misura e siano stati acquisiti dal creditore estraneo in buona fede (art. 52). In tal modo, i diritti dei terzi in buona fede sono soddisfatti all'interno della procedura di prevenzione (art. 61) e in quella sede sono liquidati attraverso un equo indennizzo pari al 60% del valore stimato dei beni confiscati (art. 53).

La seconda fattispecie, disciplinata dall'art. 64 D. Lgs. n. 159/2011, contempla la dichiarazione di fallimento antecedente al provvedimento ablativo. In tale ipotesi, i beni confiscati vengono separati dalla massa attiva fallimentare e consegnati all'amministratore giudiziario con decreto non reclamabile del giudice delegato, sentito il curatore ed il comitato dei creditori (art. 64, comma 1). I diritti vantati da terzi su tali beni vengono soddisfatti seguendo la regolamentazione già descritta in precedenza, con la peculiarità che l'accertamento della buona fede del terzo è di competenza del giudice delegato.

Da quanto esposto si evince come il legislatore del Codice Antimafia abbia recepito l'orientamento fautore della prevalenza della misura di prevenzione sulla procedura fallimentare. Al contempo, tuttavia, ha sentito l'esigenza di coordinare l'interesse pubblicistico sotteso alla confisca con quello concorsuale di tutela dei creditori, riconoscendo a quanti di loro si dimostrino in buona fede il diritto ad un equo indennizzo.

Il decisum del Tribunale di Marsala: il suo valore aggiunto

Le norme in precedenza analizzate omettono di regolare i rapporti tra la confisca di prevenzione e le procedure concorsuali diverse dal fallimento. La lacuna normativa viene affrontata e superata dal Tribunale di Marsala con specifico riguardo al concordato preventivo liquidatorio.

Nella decisione in commento, il giudice rileva come l'art. 63 D. Lgs. n. 159/2011 abbia sostanzialmente formalizzato un principio già ricavabile dall'ordinamento, ossia la fallibilità dell'imprenditore confiscato e dunque la compatibilità fra le procedure. Egli osserva come tale principio emerga dall'ordinanza della Corte Costituzionale n. 102 del 24 marzo 2011, statuente la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, l. fall. nella parte in cui non esclude la fallibilità dell'imprenditore confiscato. Orbene, il giudice considera il predetto principio di compatibilità come estensibile al concordato preventivo liquidatorio, verosimilmente in ragione del fatto che l'art 1, comma 1, l. fall. individua le imprese assoggettabili tanto al fallimento quanto alla segnata procedura.

Il giudice prosegue interpretando la norma in combinato disposto con l'art. 160 l. fall. in una lettura costituzionalmente orientata e conclude affermando: l'imprenditore confiscato, in quanto soggetto fallibile, può altresì proporre ai creditori un concordato preventivo al fine di giungere alla soluzione della crisi e alla ristrutturazione del debito.

Così dichiarata la compatibilità in astratto fra confisca di prevenzione e concordato preventivo, il giudice passa ad interrogarsi sulla loro compatibilità nel caso concreto. In relazione ad esso, egli osserva: che l'imprenditore ha depositato un'istanza di concordato preventivo liquidatorio avente ad oggetto un patrimonio già interamente confiscato; che, ai sensi dell'art. 45, comma 1, D. Lgs. n. 159/2011, il provvedimento definitivo di confisca implica la stabile devoluzione al patrimonio indisponibile dello Stato dei beni appresi, i quali acquistano lo status di beni non commerciabili; che l'estraneità dei beni sequestrati o confiscati alla liquidazione concorsuale è comunque affermata dall'art. 63 D. Lgs. n. 159/2011, laddove esclude i beni confiscati dalla massa attiva fallimentare (comma 4) e, in caso di confisca dell'intero patrimonio, prevede la chiusura del fallimento per insufficienza dell'attivo (comma 6). Ciò chiarito, il giudice rileva: che proprio la disponibilità di beni da parte del debitore è presupposto necessario per l'accesso ad un concordato preventivo di tipo liquidatorio (art. 160 l. fall.); che, difatti, la finalità di un siffatto concordato è risolvere la crisi mediante la cessione di beni ai creditori o la liquidazione del patrimonio con destinazione del ricavato agli stessi; che tali finalità non sono perseguibili quando oggetto della cessione o liquidazione siano beni non commerciabili, quali i beni confiscati; che una proposta di concordato avente ad oggetto beni non commerciabili è da ritenersi affetta da nullità per illiceità dell'oggetto, rilevabile d'ufficio (Cass. n. 18864 del 15 settembre 2011).

In forza di quanto detto, il giudice afferma l'astratta ammissibilità di una proposta concordataria avanzata dall'imprenditore confiscato, laddove riservi al pagamento dei creditori i soli beni non acquisiti dalla misura patrimoniale. In concreto il giudice, riconoscendo che il concordato ha natura e carattere integralmente liquidatorio e che il patrimonio sociale è interamente e definitivamente confiscato, dichiara l'inammissibilità della proposta e, verificata la ricorrenza dei presupposti, il fallimento della società.

Oltre il decisum

La decisione in commento offre spazio per alcuni spunti di riflessione, cui l'economia delle presenti note consente solo di accennare.

Primo spunto di riflessione. La decisione suggerisce un ulteriore argomento a supporto dell'astratta accessibilità al concordato preventivo da parte dell'imprenditore confiscato. L'accesso al concordato preventivo, sebbene dichiarato per altra via dal giudice, sembrerebbe potersi desumere anche dall'interpretazione sistematico-estensiva degli artt. 63 e 64 del D. Lgs. n. 159/2011. I predetti articoli, pur regolando espressamente i soli rapporti tra confisca di prevenzione e fallimento, sono collocati all'interno del più ampio Titolo IV, Capo III, del codice antimafia, entrambi rubricati “rapporti con le procedure concorsuali”. Tale riferimento di carattere generale porta a ritenere le segnate norme come estensivamente applicabili a procedure concorsuali diverse dal fallimento, se ed in quanto compatibili.

Secondo spunto di riflessione. La sentenza in commento, infine, suggerisce alcune osservazioni sull'apertura di procedure fallimentari prive di patrimonio. si vogliono in particolare esprimere alcune perplessità circa l'opportunità di aprire procedure fallimentari a carico di imprese che già in fase prefallimentare risultano incontrovertibilmente prive di beni liquidabili (nel nostro caso perché devoluti definitivamente allo Stato). Le perplessità derivano principalmente dalla connaturata incapacità di tali procedure di perseguire lo scopo tradizionalmente loro attribuito dall'ordinamento, ossia il soddisfacimento dei creditori tramite la distribuzione ordinata dell'attivo.

Ciò di cui non si trova frequente menzione negli scritti giuridici è che l'apertura di procedure prive di patrimonio può essere legata alla disciplina della redazione del bilancio e, più propriamente, al regime fiscale in materia di riduzione dell'imponibile per i crediti inesigibili. L'art. 2426, comma 1, n. 8, c.c. espressamente dispone che i crediti vantati debbano essere iscritti al bilancio secondo un valore presumibile di realizzo. Qualora l'ammontare nominale dei crediti subisca una riduzione di valore è necessario darne conto indicando le ragioni che giustificano la parziale o totale inesigibilità. La lettura della norma va integrata con la disciplina fiscale ed in particolare con quella che regolamenta il regime dei redditi di impresa. L'art. 101, comma 5, T.U.I.R. permette la deduzione delle perdite su beni qualora discenda da elementi certi e precisi e, per le perdite su crediti, qualora il debitore sia assoggettato a procedure concorsuali. L'Amministrazione finanziaria interpreta la norma in senso restrittivo. Essa riconosce la deducibilità delle perdite su crediti nei soli casi in cui il contribuente dimostri l'esperimento di procedure esecutive, anche individuali, ovvero la rinuncia per motivi di convenienza economica. A tale interpretazione consegue la prassi di ritenere la dichiarazione di fallimento come necessaria al creditore per dedurre in bilancio la propria perdita su crediti. Diversamente, questi potrebbe incorrere in sanzioni oppure vedersi costretto a versare un'imposta per un credito mai soddisfatto.

L'interpretazione dell'Amministrazione finanziaria sembra essere prigioniera di un certo rigore ermeneutico. Essa, infatti, mal si concilia con l'apertura di una procedura fallimentare priva di patrimonio ed esclusivamente finalizzata alla deduzione del credito inesigibile. In particolare, questa appare irragionevole quando attribuisce al fallimento il diverso compito di certificare l'inesigibilità del credito sebbene l'assenza di beni del debitore sia già stata ampiamente acclarata nel procedimento di prevenzione (come nel caso di specie). L'interpretazione letterale restrittiva, pertanto, appare incoerente con la natura e cogenza logico - sistematica tipica della procedura fallimentare: quest'ultima non soltanto non è più destinata alla tutela del credito, ma viene anche aperta per una diversa finalità e nella accertata consapevolezza della sua inevitabile chiusura per assenza di beni. Tuttavia, sarebbe possibile porre rimedio alla distorsione interpretativa se si accettasse una lettura estensiva e teleologica dell'art. 101, comma 5, T.U.I.R. Per l'effetto basterebbe includere il provvedimento ablativo di prevenzione, passato in giudicato, tra quegli elementi certi e precisi capaci di attestare la perdita su crediti. Così facendo, verrebbe rispettato lo scopo normativo di garantire una corretta imputazione contabile della perdita su crediti attraverso altrettanto certi e precisi elementi prefissati da una sentenza definitiva di confisca e si eviterebbe l'impropria apertura di procedure fallimentari prive di scopo e degenerate al ruolo di “procedura per la procedura”.

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