Il riconoscimento del privilegio del credito artigiano

18 Novembre 2016

Per il riconoscimento del privilegio artigiano, la nozione di impresa artigiana deve ricavarsi oggi unicamente alla luce dei criteri contenuti nella legge n. 443/1985 (legge quadro sull'artigianato), atteso il riferimento operato dall'art. 2751-bis n. 5) c.c., così come modificato dall'art. 36 D.L. n. 5/2012, convertito con L. n. 35/2012, all'impresa artigiana “definita ai sensi delle disposizioni vigenti”.
Massima

Per il riconoscimento del privilegio artigiano, la nozione di impresa artigiana deve ricavarsi oggi unicamente alla luce dei criteri contenuti nella L. n. 443/1985 (legge quadro sull'artigianato), atteso il riferimento operato dall'art. 2751-bis n. 5) c.c., così come modificato dall'art. 36 D.L. n. 5/2012, convertito con L. n. 35/2012, all'impresa artigiana “definita ai sensi delle disposizioni vigenti”.

Il caso

Una società a responsabilità limitata proponeva opposizione allo stato passivo domandando il riconoscimento del privilegio artigiano in relazione al credito maturato verso la società fallita - ammesso al rango chirografario -, e contestando la rilevanza degli elementi considerati dal Giudice Delegato quali ostativi alla sussistenza della causa legittima di prelazione.

In particolare, le censure dell'opponente si concentravano sulla valutazione operata dal G.D. circa la preminenza del fattore capitale sul fattore lavoro (ex art. 3 L. n. 443/85), nonché, in via subordinata, sulla ricostruzione del Giudicante dei limiti dimensionali (previsti dall'art. 4 L. n. 443/85).

A sostegno delle proprie contestazioni, l'opponente offriva diverse metodologie di calcolo del fattore personale, che avrebbero dovuto far emergere la preponderanza di quest'ultimo sul fattore capitale.

Inoltre, la società ricorrente non contestava l'applicabilità alla fattispecie del novellato art. 2751-bis c.c. e, dunque, il richiamo dell'intera legge quadro sull'artigianato; conseguentemente assumeva che la propria iscrizione all'albo delle imprese artigiane e, soprattutto, l'assenza di provvedimenti di cancellazione, traducesse ipso facto la prova circa la sussistenza degli ulteriori requisiti sostanziali richiesti dalla legge speciale, tanto più in difetto di espressa disapplicazione del provvedimento amministrativo di iscrizione da parte del giudice ordinario.

Con il provvedimento in commento il Tribunale di Ravenna respinge i criteri di calcolo del fattore capitale proposti dalla ricorrente, confermando interamente il provvedimento opposto e ribadisce come la mera iscrizione all'albo speciale non abbia valenza probatoria in tale indagine, valendo solo come condizione per fruire delle provvidenze previste dalla legislazione di sostegno.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

Con il provvedimento in commento il Tribunale di Ravenna anzitutto conferma la valutazione operata dal Giudice Delegato circa la non preminenza del lavoro rispetto a agli elementi organizzativi, gestionali e di capitale, ricavabili dal bilancio relativo all'esercizio di maturazione del credito.

L'impresa richiedente era, infatti, una società a responsabilità limitata operante nel settore dei serramenti; la produzione aziendale consisteva nella lavorazione e rivendita di componenti in metallo, come acciaio, ferro, ottone etc., il cui rilevante costo di acquisto denunciava da solo l'elevata incidenza, in relazione agli altri fattori produttivi, del denaro nell'organizzazione aziendale (nulla a che vedere, comunque, con il caso di scuola dell'imprenditore orafo, ove eventuali ingenti costi di acquisto delle materie prime non possono evidentemente rivestire una simile incidenza sul giudizio di preminenza tra capitale e lavoro).

In ordine alla prima questione, il Collegio ha perciò ribadito quanto emerso in sede di formazione dello stato passivo, sull'importanza di valutare alcuni aspetti dell'impresa in esame, quali anzitutto i costi per acquisto delle merci oggetto di lavorazione, pari ad € 968.459, e i costi per servizi, pari ad € 366.236.

Così come necessaria è stata ritenuta la valorizzazione dell'intero capitale circolante netto, nonché di tutte le immobilizzazioni materiali ed immateriali al lordo degli ammortamenti.

Il Collegio ha, infatti, riconosciuto non fondate le ragioni della ricorrente, che pretendeva di valorizzare il solo capitale strettamente impiegato nel ciclo produttivo, sommando il mero valore netto contabile di alcuni beni ammortizzabili ad una frazione del capitale circolante netto. Tale scelta metodologica è stata ritenuta non adeguatamente suffragata, mentre censurabile è risultata la mancata considerazione dei significativi valori della produzione emergenti dal bilancio di esercizio.

La seconda questione trattata attiene al requisito dimensionale.

Il Collegio ha rilevato come l'impresa ricorrente non avesse dimostrato di non lavorare in serie, con ciò facendo presumere il mancato rispetto dei limiti dimensionali previsti dall'art. 4 della L. 443/1985, in quanto le allegazioni relative al numero di dipendenti (17) e alle caratteristiche del sistema produttivo adottato in azienda denunciavano, invero, la serialità della produzione ed il conseguente superamento dei parametri occupazionali consentiti dalla lett. b) della citata norma.

Da ultimo, il Tribunale di Ravenna conferma il principio espresso da costante giurisprudenza in ordine alla irrilevanza della mera iscrizione all'albo speciale nei rapporti inter-privati, disattendendo di fatto l'argomento secondo il quale la mancata irrogazione di provvedimenti di cancellazione dimostrerebbe una sorta di “artigianalità” intrinseca dell'impresa, vincolante in sede giurisdizionale, in difetto di un'espressa disapplicazione del provvedimento amministrativo.

Osservazioni

Prima di affrontare l'analisi delle questioni trattate appare opportuno ricordare le norme di rilievo nella presente problematica.

L'art. 2751-bis, comma 1, n. 5) c.c., è stato recentemente riformato dall'art. 36 del D.L. 9.2.2012, n. 5, convertito con L. 35/2012, entrato in vigore dal 10.02.2012.

Il testo precedente della norma attribuiva il privilegio generale ai crediti “…dell'impresa artigiana…per i corrispettivi dei servizi prestati e della vendita dei manufatti”, autorizzando gli interpreti a ricavare la nozione di impresa artigiana all'interno del codice civile sulla scorta di quella di cui all'art. 2083 c.c. (sebbene anche in passato non siano mancati casi in cui, per verificare l'elemento qualitativo del lavoro proprio o dei familiari dell'imprenditore si facesse comunque riferimento all'art. 3 L. 443/85).

In conseguenza della citata novella, la norma così recita: “Hanno privilegio generale sui mobili …5) i crediti dell'impresa artigiana, definita ai sensi delle disposizioni legislative vigenti…per i corrispettivi dei servizi prestati e della vendita dei manufatti”.

Nel caso in esame, il Tribunale di Ravenna afferma chiaramente come la locuzione inserita nel novellato art. 2751-bis, comma 1, n. 5) c.c., imponga di abbandonare la figura del piccolo imprenditore e di riferire oggi la nozione di impresa artigiana unicamente a quella contenuta nella L. 443/1985.

Si rammenta, infine, che le Sezioni Unite sono recentemente intervenute ribadendo l'orientamento già espresso in pronunce di singole sezioni, secondo il quale la modifica apportata alla norma in esame non costituisce interpretazione autentica e, pertanto, non ha efficacia retroattiva.

E' bene, dunque, riportare i capisaldi della disciplina in questione, poiché in essi si sostanziano i requisiti da valutare nel riconoscimento del privilegio artigiano.

L'art. 2 definisce l'imprenditore artigiano come “…colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l'impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo”.

Quanto alle imprese collettive, il successivo art. 3 prevede che sia impresa artigiana quella avente quale scopo prevalente lo svolgimento di un'attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, costituita in forma di società, anche cooperativa, con esclusione delle società per azioni ed ammessa con particolari limitazioni per le società a responsabilità limitata e in accomandita per azioni, “a condizione che la maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale”.

La legge richiede anche il rispetto di limiti dimensionali, affidando all'art. 4 la disciplina del numero massimo di dipendenti consentiti in ipotesi di lavorazione in serie e non in serie, nei seguenti termini:

“a) per l'impresa che non lavora in serie: un massimo di 18 dipendenti, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 9; il numero massimo dei dipendenti può essere elevato fino a 22 a condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti;

b) per l'impresa che lavora in serie, purché con lavorazione non del tutto automatizzata: un massimo di 9 dipendenti, compresi gli apprendisti in numero non superiore a 5; il numero massimo dei dipendenti può essere elevato fino a 12 a condizione che le unità aggiuntive siano apprendisti”.

La questione più spinosa affrontata dal Collegio ravennate riguarda la valutazione circa la funzione preminente del lavoro sul capitale, atteso che almeno il primo requisito, quello cioè legato alla partecipazione dei soci nel processo produttivo, poteva ritenersi acquisito grazie alle risultanze del libro unico del lavoro.

La soluzione seguita dal Collegio è di carattere squisitamente processuale (art. 2697 c.c.), giacché, dopo aver ribadito l'importanza di considerare alcune significative poste di bilancio, come già emerso nella formazione dello stato passivo, i giudici ritengono sostanzialmente non assolto l'onere probatorio dell'opponente, in ordine agli elementi fondanti la domanda di riconoscimento della causa legittima di prelazione.

Merita comunque un approfondimento il passaggio relativo alle poste di bilancio considerate per determinare la consistenza e, con ciò, la preminenza di un fattore produttivo sull'altro.

Il fattore lavoro veniva pacificamente quantificato in € 552.779 sulla base del costo lordo del personale riportato nel conto economico, mentre assai discutibile risultava la quantificazione del fattore capitale.

Infatti, l'opponente dapprima indicava il capitale fisso nel valore netto contabile dei beni strettamente impiegati nel ciclo produttivo, sommato al costo dei beni in locazione, per un ammontare complessivo di € 273.287.

Quindi indicava il fattore capitale in € 198.529,23, ossia nell'importo risultante dalla divisione del capitale circolante netto con il coefficiente ottenuto dal rapporto tra fatturato di vendita e circolante netto. Tale metodo avrebbe dovuto tenere conto della velocità di re-impiego dei mezzi finanziari nel ciclo produttivo e far così emergere l'effettivo ammontare di capitale strettamente necessario alla produzione, sulla scia di un approccio metodologico già utilizzato in un risalente precedente confermato in sede di legittimità.

In realtà, in tale precedente si ricercava la “velocità di ricostituzione del capitale”, assumendo a base di calcolo l'intero capitale circolante lordo, dunque anche quelle attività impiegate per far fronte alle passività correnti. La Corte, infatti, ritenendo corretto il metodo del giudice a quo il quale, individuato un “momento zero” in cui avvengono gli acquisti e un momento successivo in cui avvengono gli incassi, aveva ritenuto che tale lasso di tempo, messo in rapporto con il capitale circolante lordo, potesse verosimilmente rappresentare la frequenza di reimpiego del denaro o del credito, ottenendo quale quota di capitale impiegato nel processo produttivo la frazione di 1/6 del circolante lordo; quest'ultima veniva poi sommata al capitale fisso, individuato nel valore delle immobilizzazioni al netto degli ammortamenti e raffrontata al costo del lavoro.

In nessun caso è stato mai rapportato il capitale circolante netto al fatturato complessivo di vendita per determinare un coefficiente con cui dividere ulteriormente il capitale circolante netto, ossia una grandezza già defalcata dei debiti a breve, che, in tal modo, risulterebbe ingiustificatamente nuovamente abbattuta.

L'opponente proponeva inoltre un secondo metodo di calcolo del fattore capitale, assumendo l'importanza di confrontare solo grandezze omogenee, in particolare di natura economica. Ricorreva così ad una “finzione” consistente nell'ipotizzare che l'impresa finanziasse l'intero capitale impiegato nel processo produttivo, al fine di ricavare un eventuale onere finanziario dei costi della produzione che, sommato all'onere finanziario analogamente calcolato sul valore netto contabile delle immobilizzazioni, ed alla sola quota degli ammortamenti d'esercizio porterebbe al risultato di € 192.209, nettamente inferiore al costo del lavoro sempre indicato in € 552.779.

Nessuno dei due approcci appare convincente.

Il primo, a causa delle opportunistiche correzioni apportate al metodo seguito nel precedente citato, che comunque conduceva un'analisi della particolare struttura dell'impresa individuale coinvolta nella vicenda, non replicabile nell'impresa collettiva.

Il secondo, perché accede ad un artifizio assolutamente non necessario: infatti, anche volendosi sostenere la necessità di confrontare grandezze omogenee, basterebbe verificare l'incidenza dei due fattori produttivi sui ricavi delle vendite. Emergerebbe così che i costi per acquisti di merci e servizi, pari a complessivi € 1.334.695, rappresentano circa la metà dei ricavi ammontanti a complessivi € 2.315.871, mentre il costo del lavoro rappresenta circa un quarto di quest'ultimo dato.

Occorre, invero, osservare come nessuna indicazione normativa imponga di comparare unicamente grandezze omogenee, sebbene questo sia stato l'approccio seguito da alcuni Tribunali, poiché, a ben vedere, non si tratta di condurre un “confronto”, bensì di determinare l'incidenza, nella struttura dell'impresa, dell'apporto umano rispetto a quella del denaro latamente considerato.

L'art. 3 L. 443/85 richiama, infatti, il concetto di processo produttivo, ossia un fenomeno percepibile in termini di gestione ordinaria all'interno del conto economico, solo allorché richiede che l'imprenditore individuale ovvero la maggioranza dei soci svolgano lavoro personale, anche manuale, all'interno dello stesso.

Con riguardo, invece, al giudizio da condursi nel rapporto tra capitale e lavoro, la norma prosegue precisando come “nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale”.

Pertanto, il dettato normativo sembra favorire la considerazione del fattore capitale non soltanto in termini economici, potendosi (o dovendosi) avere riguardo alla struttura e alla organizzazione dell'impresa nel suo complesso.

In ragione di ciò, per rappresentare il capitale fisso non si dovrebbe tener conto unicamente del valore residuo del beni ammortizzabili, né delle sole quote di ammortamento di esercizio, dovendosi più opportunamente valutare l'originario investimento effettuato dall'impresa in attrezzature, macchinari, licenze etc..

Analogamente, per rappresentare il capitale circolante, non vi sono argomenti per ritenere inadeguata l'assunzione dell'intero capitale circolante netto - e non di una sola sua frazione -, posto che la necessità di determinare la frequenza di rotazione del capitale nella produzione avrebbe semmai l'effetto di analizzare la liquidità dell'impresa, non quella di comprendere la preminenza della funzione del denaro - proprio o altrui - rispetto a quella del lavoro, all'interno della struttura organizzativa e gestionale della stessa.

Riguardo all'ulteriore questione trattata, il Collegio osserva preliminarmente come l'elemento determinante nel concetto di lavorazione in serie è il tipo di sistema produttivo utilizzato in azienda.

Quindi, il prodotto in serie compatibile con la qualificazione dell'impresa artigiana diviene quello nel quale l'uso della macchina assume un'importanza preponderante, ma senza eliminare completamente l'intervento dell'uomo nella preparazione e conduzione dei macchinari in alcune fasi della lavorazione. Conseguentemente, l'integrale meccanizzazione della lavorazione comporta, secondo i giudici ravennati, a prescindere dalle dimensioni, l'attribuzione all'impresa del carattere industriale.

Essendo quello dimensionale un requisito di per sé non esaustivo, i giudici, pur riconoscendo che le allegazioni dell'opponente denunciavano invero la serialità della produzione e, con ciò, il superamento dei limiti di cui all'art. 4 lett. b), L. 443/1985, non si soffermano maggiormente su tale aspetto della vertenza.

Da ultimo, con riferimento alla tesi secondo cui la permanenza dell'impresa nell'albo speciale dimostrerebbe automaticamente la sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla legge quadro, quasi impedendo il sindacato del giudice ordinario circa la sussistenza degli stessi, il Tribunale di Ravenna si limita a ribadire come la mera iscrizione all'albo speciale sia sempre stata considerata dalla giurisprudenza quale condizione minima, necessaria ma non sufficiente per il riconoscimento del privilegio nei rapporti inter-privati.

La questione induce però riflessioni più ampie.

Il principio richiamato dal Collegio è figlio di un'interpretazione formatasi sotto la vigenza del vecchio testo della norma, la quale consentiva unicamente il riferimento al concetto di piccolo imprenditore, ma necessitava al tempo stesso di coordinarsi con il dato oggettivo dell'iscrizione all'albo speciale, generalmente assunto dalle imprese quale primo requisito fondante la domanda di privilegio.

Per effetto del richiamo operato dal nuovo testo dell'art. 2751-bis n. 5) c.c. alle sole “disposizioni legislative vigenti” si potrebbe oggi sostenere una maggior rilevanza degli effetti dell'iscrizione all'albo speciale e così porsi la questione della pregnanza, nel giudizio ordinario, delle risultanze amministrative scaturenti dalle periodiche verifiche dell'albo svolte a cura delle commissioni provinciali (come sancito dall'art. 7 L. 443/85).

Si potrebbe però replicare che il giudice ordinario può, a norma degli art. 4 e 5 della L. 2248/1865, all. E), conoscere incidentalmente ed eventualmente disapplicare l'atto amministrativo ove ne ricorrano i presupposti, vale a dire allorché si trovi a giudicare una controversia nella quale si verta in materia di diritti soggettivio che si assumano lesi dall'atto amministrativo.

Considerato che, da un lato, la curatela rappresenta i diritti del ceto creditorio interessato al contraddittorio nella verifica dei singoli crediti ammessi al passivo e che, dall'altro, le norme sulle cause legittime di prelazione sono norme inderogabili, non dovrebbero esservi particolari dubbi sul fatto che il giudice ordinario possa condurre un'autonoma verifica dei requisiti ed, eventualmente, disapplicare l'atto amministrativo a tutela del diritto soggettivo dei creditori chirografari a non veder compresso il proprio trattamento in virtù di un provvedimento ritenuto sostanzialmente non conforme alla legge.

Conclusioni

Non sorgono dubbi sul fatto che il nuovo art. 2751-bis comma 1, n. 5) c.c. riferisca l'indagine sui requisiti dell'impresa artigiana unicamente alle norme contenute nella L. 443/1985.

Tra questi, la verifica della tipologia di lavoro svolta dall'imprenditore ovvero dalla maggioranza dei soci, così come la verifica del tipo di sistema produttivo, atta a comprendere il superamento o meno dei limiti dimensionali, non portano particolari problemi interpretativi.

Le maggiori perplessità riguardano, invece, il modo con cui raggiungere un giudizio di preminenza di funzioni tra fattore lavoro e fattore capitale, in assenza di criteri oggettivi di riferimento, i quali però, anche laddove ben concepiti, potrebbero restare insensibili alle particolari caratteristiche strutturali dell'impresa di volta in volta esaminata.

Al di là delle preferenze per un metodo o per l'altro, ciò che occorre ribadire è che la legislazione speciale di sostegno delle imprese artigiane, ancorché interamente richiamata dalla norma civilistica, non può costituire un limite all'indagine del giudice ordinario, il quale non solo può disapplicare l'atto amministrativo senza particolari formule espressive di tale volontà, ma deve anche condurre un sindacato autonomo e non condizionato dalle risultanze degli accertamenti amministrativi.

Minimi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali

Il provvedimento opposto è il decreto del Tribunale di Ravenna, del 23.12.2014, in questo portale, già con nota di Jeantet-Martino, L'incertezza del diritto ed il diritto alla certezza: il credito artigiano ed il privilegio di cui all'art. 2751 –bis comma 1, n.5, c.c.”.

In dottrina, per un iniziale inquadramento della legge sull'artigianato ai fini del riconoscimento del privilegio cfr. Lamanna, Privilegio e fallimento dell'artigiano alla luce del criterio di prevalenza del lavoro, introdotto dalla legge 8 agosto 1985 n. 443, in Fall., 1987, 821 e ss.

In giurisprudenza, sul riferimento operato prima del D.L. 5/2012 alla legge 443/85, v. ex multis Cass. Civ. 31.05.2011 n. 12013, Cass. Civ. 08.11.2006 n. 23795, Cass. Civ. 26.08.2005 n. 17396.

Sulla non retroattività della norma di cui all'art. 2751-bis come novellata dal D.L. 5/2012, v. Cass. Civ. SSUU, 20.03.2015 n. 5685 che ribadisce quanto già affermato da Cass. Civ. 04.07.2012 n. 11154, Cass. Civ. 09.05.2013 n. 11024 e Cass. Civ. 08.08.2013 n. 18966 in controversie relative a fattispecie anteriori all'entrata in vigore della novella.

Cfr. Cass. Civ. 02.06.1995 n. 6221 sulla possibilità di indagare la velocità di ricostituzione del capitale in rapporto al ciclo produttivo. Sul concetto di sistema produttivo in serie compatibile con l'impresa artigiana, cfr. Cass. Civ. 13.12.2000 n. 15693.

Sulla opportunità di valutare unicamente grandezze economiche, tra l'altro, mediante la predisposizione di criteri oggettivanti l'apporto causale del lavoro sul fatturato di vendita, si veda Trib. di Verona, 03.07.2013, secondo cui il volume d'affari inferiore a 200.000 euro consente sempre il riconoscimento del privilegio; mentre per le imprese con volume d'affari superiore andrà a questo sommato l'importo di 100.000 euro per ciascun socio, escluso il primo, e di 50.000 euro per ciascun dipendente. Il risultato di tale operazione dovrebbe rappresentare il volume d'affari congruo per il riconoscimento del privilegio artigiano.

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