Concordato preventivo inadempiuto ma non risolto e successivo fallimento

01 Dicembre 2016

Oggi, dopo la “stagione dei concordati preventivi” (forse anche a causa dell'abuso che si è fatto di tale istituto), ci si trova sempre più frequentemente dinanzi a concordati omologati che non riescono ad essere eseguiti dal debitore o dal liquidatore giudiziale. Concordati omologati che spesso non vengono risolti perché manca l'iniziativa dei creditori (unici legittimati dal tenore letterale del primo comma dell'art. 186 l. fall.).
Premessa

Oggi, dopo la “stagione dei concordati preventivi” (forse anche a causa dell'abuso che si è fatto di tale istituto), ci si trova sempre più frequentemente dinanzi a concordati omologati che non riescono ad essere eseguiti dal debitore o dal liquidatore giudiziale (non toccheremo le ipotesi di concordato con assuntore, o altre meno frequenti).

Concordati omologati che spesso non vengono risolti perché manca l'iniziativa dei creditori (unici legittimati dal tenore letterale del primo comma dell'art. 186 l. fall.).

Quindi, una delle problematiche che, sempre più spesso, gli operatori della materia si trovano ad affrontare è come comportarsi quando ci si rende conto che gli obblighi derivanti dal concordato non sono stati adempiuti (né lo saranno) ed i creditori non agiscono per la risoluzione né per l'annullamento del concordato omologato.

Innanzitutto, ci si è interrogati sulla ammissibilità di una dichiarazione di fallimento senza la preventiva risoluzione del concordato preventivo.

A seguire, ipotizzando la fallibilità (sempre o solo in alcuni casi) del debitore, anche senza la risoluzione (o l'annullamento) del concordato, si presentano molti altri interrogativi legati alla sopravvenuta dichiarazione di fallimento.

Interrogativi, anche di importanza rilevante, rispetto ai quali non è sempre agevole trovare risposte certe.

Ammissibilità della dichiarazione di fallimento del debitore prima della risoluzione del concordato preventivo

Due recenti pronunce di merito hanno affermato molto chiaramente l'ammissibilità della dichiarazione di fallimento del debitore anche senza una preventiva dichiarazione di risoluzione del concordato preventivo precedentemente omologato.

In ordine cronologico, troviamo:

A) Tribunale di Napoli Nord, 13 aprile 2016 (in questo portale), il quale, nel ritenere “ammissibile la dichiarazione di fallimento senza la previa risoluzione del concordato preventivo omologato”, afferma - tra l'altro – che “ [...] Le disposizioni in esame (ndr: artt. 184, 186 l. fall.) non stabiliscono espressamente, in assenza di risoluzione, il divieto di dichiarare il fallimento dell'imprenditore nel caso in cui, nella fase esecutiva del concordato, si manifesti l'incapacità di pagare i debiti anteriori al concordato ovvero insorga una nuova insolvenza per incapacità di pagare i debiti contratti dopo l'apertura della procedura e l'omologa dello stesso concordato”

Ed ancora:

Il sistema normativo ricostruito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (ndr: Cass. SU n. 9935/2015) ha confermato la possibilità giuridica, ossia in assenza di un divieto fissato da una precisa disposizione e, quindi, anche in assenza di risoluzione [o annullamento], di dichiarare il fallimento dopo l'omologa del concordato nel caso in cui risulti, tramite una valutazione ex post e in concreto svolta dal tribunale in sede di giudizio prefallimentare e in eventuale antitesi rispetto al giudizio ex ante e in astratto compiuto in sede concordataria sulla fattibilità economica del piano, che l'accordo non abbia risolto la situazione di insolvenza ovvero la stessa sia sopraggiunta nella fase di esecuzione del concordato.

B) Tribunale Venezia, 06 novembre 2015 (in questo portale)

Anche il tribunale di Venezia afferma chiaramente che:

“In corso di esecuzione, data l'eventuale sopravvenuta impossibilità di realizzazione del piano concordatario, anche in assenza di declaratoria di risoluzione, non vi è norma alcuna né ratio che sottragga al fallimento il debitore ormai inadempiente al piano concordatario”.

E poi:

“In presenza di una richiesta di fallimento da parte dello stesso debitore, fondata sulla impossibilità di realizzazione del piano concordatario, non può ritenersi ostativo all'accoglimento dell'istanza di autofallimento l'assenza o impossibilità di risoluzione del concordato”.

In entrambi i provvedimenti - molto interessanti e ben argomentati - è presente un importante e decisivo richiamo ad un precedente assai autorevole, ossia alla

C) sentenza della Corte Costituzionale n. 106/2004.

Già in tale pronuncia del Giudice delle leggi (seppur in un contesto precedente rispetto alle ultime riforme del concordato) sono stati affermati alcuni importanti principi generali in tema di concordato e, soprattutto, in essa si trova la prima conferma autorevole dalla possibilità di dichiarare il fallimento del debitore anche senza la preventiva risoluzione del concordato omologato.

Molto significativi i seguenti passaggi della sentenza:

“... il vincolo nascente dal concordato omologato continua a sussistere, qualora non sia stata tempestivamente chiesta la sua risoluzione e questa non sia stata pronunciata, nei confronti di tutti i creditori anteriori al decreto di ammissione al concordato, abbiano o non, costoro, partecipato alla procedura e ne abbiano, oppure non, avuto notizia [...] Osserva la Corte che, se la premessa dalla quale muove il rimettente è certamente corretta ed è condivisa dall'unanime dottrina e giurisprudenza, altrettanto certo è che la conseguenza trattane - e cioè che la dichiarazione di fallimento presuppone in ogni caso, quando si tratti di insolvenza relativa ad obbligazioni anteriori al concordato, la risoluzione di quest'ultimo - non è necessitata dal tenore delle norme” [...].

In effetti, la lettera delle norme sospettate di incostituzionalità è inequivoca nel sancire, da un lato, che “il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato" (art. 184 del R.D. n. 267 del 1942) e, dall'altro lato, che tale obbligatorietà può venire meno solo a seguito della risoluzione o dell'annullamento, in quanto "con la sentenza che risolve o annulla il concordato il Tribunale dichiara il fallimento" (art. 186 del R.D. n. 267 del 1942, vecchio testo, ante riforma 2006); dichiarazione che retroagisce al momento del decreto di apertura della procedura di concordato, e che determina, ovviamente, l'ammissione al passivo dei crediti anteriori per l'intero loro ammontare e non già nella misura "falcidiata" dal concordato.

La tesi, pertanto, secondo la quale l'assenza della risoluzione del concordato impedirebbe non soltanto tale dichiarazione di fallimento "in consecuzione", ma anche una autonoma dichiarazione di fallimento - la quale, ferma l'obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura, prende data ad ogni effetto dalla dichiarazione stessa - non è affatto imposta dalla legge.

Ancor più recentemente, anche il

D) Tribunale di Modena, 1 agosto 2016 (inedita)

ha dichiarato il fallimento della debitrice con la motivazione che segue:

rilevato che la società, depositando formale istanza di fallimento in proprio, ha riconosciuto lo stato di grave dissesto economico-finanziario in cui versa, rilevando, in particolare, l'impossibilità di eseguire il piano di concordato;

considerato che il commissario giudiziale ha depositato relazione confermando che i creditori privilegiati avrebbero dovuto essere soddisfatti integralmente entro l'aprile del 2015, mentre ad oggi nessun pagamento è stato fatto né è prevedibile che venga effettuato, [...];

considerato che, pur sussistendo i presupposti per la risoluzione del concordato, non si possa procedere in tal senso, non avendo alcun creditore presentato istanza ex art. 186 l.fall.;

che tuttavia la procedura fallimentare è giuridicamente incompatibile con quella di concordato, per cui dalla dichiarazione di fallimento deriva la chiusura del concordato preventivo, seppure non eseguito;

ritenuto, infine, di poter procedere con la medesima sentenza alla dichiarazione di chiusura del concordato e alla dichiarazione di fallimento della società proponente;

[...] DICHIARA il fallimento di ...

Quindi, dalla lettura della sentenza della C. Cost. che precede, nonché dai recenti provvedimenti dei giudici di merito citati, sembra potersi affermare che sono possibili (almeno) due ipotesi:

  • la prima ipotesi, “tipizzata”, nella quale la dichiarazione di fallimento può seguire la pronuncia di risoluzione (o annullamento) del concordato omologato;
  • la seconda - frutto di una lettura delle norme “costituzionalmente validata” - nella quale la dichiarazione di fallimento può pronunciarsi anche senza la preventiva risoluzione (o annullamento) del concordato omologato.

Leggendo attentamente - e parafrasando - le parole della Corte Costituzionale, si può anche affermare quanto segue.

Affinché il concordato cancelli definitivamente "quella" insolvenza in ragione della quale fu ammesso e omologato, non basta che esso sia “non risolto” (o non annullato).

É necessario anche che sia adempiuto.

Se il concordato non è adempiuto, nulla vieta una successiva “autonoma dichiarazione di fallimento”, anche senza preventiva risoluzione.

Quindi, in caso di inadempimento, anche senza risoluzione, nulla impedisce di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all' art. 5 del R.D. n. 267 del 1942, ai debiti esistenti al momento dell'apertura della procedura.

Ciò detto - dopo aver ammesso che la dichiarazione di fallimento può pronunciarsi anche senza la preventiva risoluzione del concordato omologato - residuano molti altri aspetti da chiarire.

E, per alcuni di essi, non è agevole offrire risposte univoche.

Chi può agire per il fallimento in assenza della risoluzione del concordato omologato?

Mentre le tre sentenze di merito analizzate sono tutte pronunce dichiarative di fallimento su istanza del debitore che chiedeva dichiararsi il proprio fallimento, quella della C.Cost. - invece - muove da una sentenza di fallimento dichiarata dal Tribunale di Catanzaro su ricorso di alcuni creditori (addirittura dopo che lo stesso Tribunale, con decreto di 3 anni prima, aveva rigettato l'istanza di risoluzione del concordato, proposta da altri creditori).

In tale ultimo caso, sembra che la richiesta di fallimento ad impulso dei creditori sia avvenuta quando ormai era decorso il termine annuale per la risoluzione del concordato preventivo (peraltro Trib. Torino, 26/7/2016 (data decisione), che ha esaminato un ulteriore caso in cui la richiesta di fallimento proveniva dal PM, ha ritenuto che: “se è vero che il piano concordatario prevedeva un termine finale – non ancora decorso – per il suo compiuto adempimento, non occorre attendere lo scadere della data fatidica assunta dal debitore allorquando fatti sopravvenuti denunzino la sopravvenuta e definitiva impossibilità di adempiere, allorquando tale sopravvenuta e definitiva impossibilità, di là dall'integrare alternativa ed autonoma causa di risoluzione del concordato rispetto all'inadempimento imputabile del debitore, integri, come integra l'incapacità definitiva e non reversibile del medesimo di adempiere le obbligazioni che egli stesso ha assunto. Ed in effetti tale è la situazione che ora si prospetta in ragione dei fatti menzionati”); e pare anche che i ricorsi che hanno dato luogo alla dichiarazione di fallimento riguardavano crediti anteriori al concordato preventivo.

Quindi, sulla base dei dati ricavabili dalle pronunce esaminate, si può ipotizzare che (in caso di concordato inadempiuto) siano legittimati a presentare il ricorso per la dichiarazione di “fallimento senza risoluzione”:

  • lo stesso debitore che si accorge che il concordato non potrà essere adempiuto; come ricorda il Collegio partenopeo, infatti, “Permane, nella fase esecutiva del concordato, l'obbligo ai sensi dell'art. 217, comma 1, n. 4 l. fall. dell'imprenditore di richiedere la dichiarazione del proprio fallimento per evitare di aggravare il dissesto la cui violazione è sanzionata con la pena della reclusione”;
  • i creditori concordatari che hanno partecipato alla procedura, una volta spirato inutilmente il termine per chiedere la risoluzione (decorso l'anno dalla scadenza dell'ultimo pagamento indicato nel concordato preventivo omologato); anche se qualche considerazione sulla loro legittimazione andrebbe fatta, visto che non hanno agito per la risoluzione;
  • il creditore anteriore alla proposta di concordato preventivo del suo debitore non avvisato, e che - quindi - sia rimasto estraneo alla procedura e/o non inserito nell'elenco dei creditori.

Mi sentirei di aggiungere che la legittimazione a chiedere il “fallimento senza risoluzione” del debitore concordatario inadempiente debba spettare anche

  • al creditore il cui titolo sia successivo all'apertura del concordato, e che - ovviamente - non venga pagato (anche nei termini previsti).

Si pensi a tutti i soggetti che maturano crediti prededucibili e che non vengono pagati perché non si riescono a realizzare neppure quelle risorse necessarie per i loro pagamenti (a partire dal Commissario Giudiziale e dai periti di nomina giudiziale, per passare dai professionisti che hanno assistito la debitrice nella procedura, fino a giungere agli eventuali fornitori in pendenza di concordato, ecc.).

Tali ultimi soggetti, secondo la giurisprudenza maggioritaria, non avrebbero neppure la legittimazione per chiedere la risoluzione del concordato poiché creditori non concorsuali.

Così, ancora, il Tribunale di Napoli Nord in tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento:

“Invero, il creditore che presenta istanza di fallimento ovvero il debitore dovranno allegare e dimostrare che nonostante la conformazione tramite il concordato dei rapporti obbligatori tra imprenditore e propri creditori permanga o sia sopravvenuta la situazione di insolvenza del debitore.In conclusione, è coerente con l'attuale sistema normativo, che ricollega all'omologa dell' “accordo” tra l'imprenditore-debitore e i propri creditori l'effetto esdebitatorio, riconoscere ai creditori, in applicazione degli artt. 2, 24 Cost e in assenza di un divieto fissato da una precisa disposizione, il diritto di agire, nella fase di esecuzione dello stesso concordato, per realizzare le loro pretese”.

Dal punto di vista soggettivo.

Mi pare abbastanza corretta la tesi secondo la quale - in caso di inadempimento del concordato preventivo, ove il Tribunale non pronunci la risoluzione - resta salva la facoltà per il creditore di chiedere il fallimento (solo) se sussiste ancora il presupposto soggettivo.

In sostanza, la dichiarazione di fallimento dopo l'omologazione è preclusa - nell'ipotesi di decorso del termine - solo qualora l'imprenditore abbia cessato l'esercizio dell'impresa da oltre un anno (con cancellazione dal RI).

Il fallimento dopo l'omologazione del concordato preventivo

Che cosa accade in caso di fallimento del debitore dopo l'omologazione del concordato preventivo ?

Il curatore del fallimento dichiarato dopo una procedura di concordato si trova spesso dinanzi a numerosi interrogativi da risolvere ... e le risposte a tali interrogativi non sono sempre univoche.

Innanzitutto proverò ad evidenziare (e ad interrogarmi su) alcune conseguenze e/o effetti del “fallimento senza risoluzione”. Partendo da quelli che si evincono dagli stessi provvedimenti su commentati.

Dalle citate sentenze, in particolare da quella più autorevole della Corte Cost. (seppur del 2004), si possono trarre certamente alcuni principi (probabilmente tutt'ora validi).

Per esempio, seguendo la sentenza della Corte Cost. dovremmo ricavare che:

a) nell' ipotesi di fallimento conseguente alla risoluzione del concordato preventivo:

  • ci troveremmo in presenza di fallimento in consecuzione,
  • il vincolo nascente dal concordato omologato non continua a sussistere;
  • la dichiarazione di fallimento retroagisce al momento del decreto di apertura della procedura di concordato, e determina, ovviamente, l'ammissione al passivo dei crediti anteriori per l'intero loro ammontare e non già nella misura "falcidiata" dal concordato.

b) invece, nell'ipotesi di fallimento senza risoluzione (che analizziamo):

  • il vincolo nascente dal concordato omologato continua a sussistere e resta ferma l'obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura;
  • "la mancata risoluzione del concordato ne rende ancora possibile l'attuazione e importa la permanenza dell'accordo transattivo tra debitore e creditori";
  • la procedura fallimentare (autonoma, non in consecuzione) prende data ad ogni effetto dalla dichiarazione stessa.

Proiettiamo subito tali principi su una delle questione più importanti che si trova ad affrontare il curatore del fallimento.

L'ammissione dei creditori al passivo

Stando a quanto si legge nella pronuncia della Corte Cost., sembrerebbe doversi affermare che (nella fase di verifica dei crediti, assente nel concordato):

  • nel caso di una “autonoma dichiarazione di fallimento” (senza risoluzione del concordato omologato), il curatore dovrà (ovviamente in presenza dei presupposti di legge) ammettere al passivo i creditori vincolati dal concordato nella misura falcidiata e/o prevista nella proposta omologata; ciò in quanto il vincolo nascente dal concordato omologato continua a sussistere e importa la permanenza dell'accordo transattivo tra debitore e creditori;
  • viceversa, nel fallimento “in consecuzione” (previa risoluzione) il curatore dovrà ammettere al passivo i creditori ante concordato per l'intero loro ammontare; ciò perché il vincolo nascente dal concordato omologato non continua a sussistere; e la dichiarazione di fallimento retroagisce al momento del decreto di apertura della procedura di concordato.

Quella appena fornita è la soluzione proposta dalla Corte Costituzionale nel 2004.

Essa, ricordiamolo, parte dal presupposto della permanenza - anche in caso di fallimento - delvincolo nascente dal concordato omologato in mancanza della pronuncia di risoluzione.

Addirittura, secondo la Consulta "la mancata risoluzione del concordato ne rende ancora possibile l'attuazione e importa la permanenza dell'accordo transattivo tra debitore e creditori".

Aggiungiamo.

Nel successivo fallimento con i creditori ancora vincolati dal concordato omologato, concorreranno anche altri creditori (non vincolati dalla proposta concordataria) secondo le regole del concorso proprie della procedura fallimentare.

Quindi, un altro dei problemi che dovrà affrontare il curatore sarà anche quello di identificare quali siano i creditori (anteriori alla proposta, ma anche successivi, sorti in pendenza e/o in esecuzione della procedura, ecc.: quindi, anche con doppio livello di prededuzioni, concordatarie e fallimentare) che dovranno concorrere sul patrimonio acquisito all'attivo fallimentare. Ed anche come differenziare e trattare, per esempio, le prededuzioni concordatarie e quelle fallimentari.

Alcuni interrogativi e qualche ipotesi

Fallimento senza risoluzione: sempre?

Finora abbiamo affermato che è possibile dichiarare il fallimento di un debitore anche senza la preventiva risoluzione del concordato preventivo precedentemente omologato.

Ma siamo certi che il “fallimento senza risoluzione” sia ipotizzabile in tutti i tipi di concordato preventivo ?

… e non (magari) soltanto nel concordato ove si preveda che il debitore prosegua l'attività d'impresa e/o gestisca direttamente, in tutto o in parte, il suo patrimonio da destinare al soddisfacimento dei creditori ?

Se il concordato in corso di esecuzione vede già la presenza di un liquidatore giudiziale - al quale sono stati trasferiti tutti i beni del debitore, col compito di liquidarli e distribuirne il ricavato ai creditori secondo le previsione della proposta e del piano - ha senso ipotizzare l'apertura di un fallimento, col curatore che dovrebbe fare le stesse cose del liquidatore ?

Una possibile risposta.

Affinché si possa dichiarare il fallimento di un soggetto già in CP (quando non c'è stata risoluzione, ma si accerta che l'esecuzione del concordato è comunque divenuta impossibile), non mi pare sufficiente l'incapacità dello stesso debitore di adempiere le proprie obbligazioni come risultanti dal concordato omologato.

Credo sia necessario accertare - quale ulteriore condizione per la dichiarazione di fallimento - che la liquidazione fallimentare sia in grado di apportare per i creditori un quid pluris rispetto alla liquidazione concordataria già in corso, gestita dal liquidatore giudiziale.

(In caso contrario, forse, si potrebbe rigettare la domanda di fallimento anche per mancanza di interesse ad agire, che chi agisce deve -o può- dimostrare).

Ovviamente, per poter effettuare tale valutazione di convenienza, non si può prescindere dal valutare, caso per caso, il tipo di concordato che si ha di fronte.

Per esempio.

Nel caso di un concordato liquidatorio con cessione di tutti i beni ai creditori, se c'è già un liquidatore giudiziale che non riesce a vendere i beni, o a portare a buon fine le azioni previste dal piano, probabilmente una dichiarazione di fallimento non gioverebbe ai creditori.

In tali casi - in assenza dell'iniziativa dei creditori per la risoluzione - ben potrebbe il liquidatore (sempre sotto il controllo del tribunale/CG) riprogrammare l'attività di liquidazione e procedere a ripartire il (minor) ricavato secondo le norme di legge. Proprio come farebbe il curatore, ma senza i costi di una nuova procedura.

Se il liquidatore non provvede, mi parrebbe più utile ipotizzare una sua revoca/sostituzione (su sollecitazione del CG, dei creditori o dello stesso debitore) piuttosto che aprire una nuova procedura.

Invece, neicasi in cui l'esecuzione del concordato omologato (non solo in continuità, ma anche misti e/o in tutti i casi in cui il debitore continui a gestire risorse destinate ai creditori e/o ne trattenga una parte per altre finalità) sia rimasta, anche solo in parte, nelle mani del debitore - una volta accertata definitivamente l'impossibilità di adempiere la proposta concordataria - la successiva dichiarazione di “fallimento senza risoluzione” dovrebbe dare automaticamente alcuni benefici minimi ai creditori.

In primis quello di togliere definitivamente al debitore ancora inadempiente la gestione del suo patrimonio.

Patrimonio che - in tal caso - verrebbe automaticamente acquisito all'attivo e liquidato dal curatore fallimentare.

Nelle fattispecie esaminate dai tribunali di merito (Napoli e Modena), non a caso, si trattava di concordati in continuità o - comunque - di piani che prevedevano il soddisfacimento dei creditori non tramite trasferimento agli stessi della proprietà degli elementi dell'attivo patrimoniale (datio in solutum) ma tramite il pagamento con il denaro derivante, in parte, dalla liquidazione degli elementi patrimoniali e finanziari della società e/o dalla prosecuzione dell' attività d'impresa.

Nel caso all'esame del trib. di Venezia, invece, pur trattandosi di concordato liquidatorio, la debitrice era rientrata in possesso del suo asset principale, poi acquisito all'attivo fallimentare.

Ma, ripeto: viste le diverse e numerose forme che oggi può assumere una proposta di concordato, al fine di valutare presupposti e conseguenze di una eventuale dichiarazione di “fallimento senza risoluzione”, non si può prescindere da una attenta analisi del caso concreto e della proposta omologata che il debitore ha sottoposto all'approvazione dei creditori (dalla quale desumere gli impegni assunti e i sacrifici richiesti in cambio).

Il vincolo nascente dal concordato omologato (in caso di mancata risoluzione) permane obbligatoriamente?

La Corte Costituzionale afferma che sono corrette le seguenti premesse:

“che il vincolo nascente dal concordato omologato continua a sussistere, qualora non sia stata tempestivamente chiesta la sua risoluzione e questa non sia stata pronunciata, nei confronti di tutti i creditori anteriori al decreto di ammissione al concordato…”,

ed anche

“che la mancata risoluzione del concordato ne rende ancora possibile l'attuazione e importa la permanenza dell'accordo transattivo tra debitore e creditori"

Aggiunge - poi - che la dichiarazione di fallimento, quando si tratti di insolvenza relativa ad obbligazioni anteriori al concordato, non presuppone in ogni caso la risoluzione di quest'ultimo.

Proseguendo nella stessa pronuncia, leggiamo che l'obbligatorietà del concordato omologato per tutti i creditori anteriori “può venire meno solo a seguito della risoluzione o dell'annullamento, in quanto con la sentenza che risolve o annulla il concordato il Tribunale dichiara il fallimento” (così prevedeva il vecchio art. 186 l. fall.).

E, inoltre, che la dichiarazione di fallimento “retroagisce al momento del decreto di apertura della procedura di concordato” (oggi alla data di pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all'art. 161 l. fall.) e “determina, ovviamente,l'ammissione al passivo dei crediti anteriori per l'intero loro ammontare e non già nella misura "falcidiata" dal concordato”.

Nonostante le parole della Consulta appaiano chiare, in presenza di una sentenza di fallimento “autonoma” continuano ad affacciarsi altri dubbi.

Viene de chiedersi: siamo sicuri che la dichiarazione di fallimento “autonoma” (la stessa insolvenza relativa ad obbligazioni anteriori al concordato) non sia in grado - al pari della sentenza di risoluzione (che nel caso non l'ha preceduta) - di travolgere il vincolo concordatario?

E se così non fosse: è possibile che neppure il curatore nominato con la sentenza di fallimento possa sciogliersi dalla “transazione concordataria” … qualora ne valuti la convenienza? (anziché subentrarvi automaticamente)

In ogni caso rimarrebbero salvi gli effetti degli atti, dei pagamenti e delle garanzie posti legalmente in essere in pendenza e/o in esecuzione del concordato preventivo.

I dubbi sollevati sono stati alimentati anche dalle affermazioni contenute nella citata sentenza del tribunale di Modena, secondo la quale la procedura fallimentare è giuridicamente incompatibile con quella di concordato, per cui dalla dichiarazione di fallimento deriva la chiusura del (la fase esecutiva del) concordato preventivo, seppure non eseguito... (Evidentemente il collegio modenese intendeva la chiusura della fase esecutiva concordato preventivo, visto che l'art. 181 l. fall. stabilisce che "la procedura di concordato preventivo si chiude con il decreto di omologazione". Ciò significa che, una volta pronunciata l'omologazione, non può più parlarsi di pendenza della procedura di concordato preventivo: così Cass. Civ. n. 2695/2016, richiamata dalla sentenza del Tr. di Napoli Nord).

A maggior ragione.

Siamo sicuri che l'obbligatorietà del concordato omologato per tutti i creditori anteriori non valga soltanto ai fini della (e fino alla) istruttoria prefallimentare ?

E soprattutto.

All'interno del nuovo scenario fallimentare, siamo certi che il curatore sia per forza vincolato dall'accordo transattivo tra debitore e creditori (da questi ultimi non risolto) ... e non possa decidere se subentrarvi o sciogliersi, dopo aver effettuato una valutazione di convenienza per la “nuova massa dei creditori” ?

Valutazione di convenienza che diverrebbe ancora più interessante se il curatore potesse, poi, beneficiare anche degli effetti della consecuzione delle procedure; quali - per esempio - la retrodatazione dei termini per agire in revocatoria, al fine di riacquisire al patrimonio del debitore fallito quei beni che ne sono usciti in pregiudizio della massa dei creditori.

Oggi molti creditori (unici legittimati ex art. 186 l. fall.) non agiscono per la risoluzione perché preferiscono lo “stallo” di un concordato ineseguito rispetto ad una dichiarazione di fallimento "in consecuzione". Dichiarazione di fallimento in consecuzione che - retroagendo alla data di pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all'art. 161 l. fall. - li espone al rischio di revocatoria, e quindi (non solo di non incassare nella percentuale concordataria, ma) di restituire somme eventualmente percepite in violazione delle regole della par condicio creditorum.

Riflettendoci: non mi pare completamente insensato ipotizzare che, una volta dichiarato il “fallimento senza risoluzione”, possa lasciarsi al curatore la decisione di subentrare o sciogliersi dal patto concordatario non risolto, con tutte le conseguenze che deriverebbero dall'una o dall'altra scelta (ancora, a me, non del tutto chiare).

Sono consapevole che le possibili soluzioni agli interrogativi sollevati rischiano di essere influenzate più dalla necessità di “soluzioni pratiche” che da una consolidata interpretazione ed applicazione dell'attuale diritto fallimentare.

Ma, allo stesso tempo, non sembrano né eccessivamente anarchiche né per forza incompatibili con quanto affermato nella sentenza della Corte Costituzionale del 2004, alla quale pure sono seguite riforme e nuove elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali degli istituti in commento.

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