(In)attualità dell’intangibilità dell’IVA nella transazione fiscale

Alessandro Benussi
13 Dicembre 2016

La decisione della Corte di Lussemburgo, destituendo di fondamento quanto sostenuto nei recenti arresti della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, induce a confermare la falcidiabilità dell'IVA nel concordato preventivo, in linea con la dottrina e la giurisprudenza di merito maggioritarie. Su tale presupposto, ci si chiede se possa essere revocata in dubbio anche l'intangibilità dell'IVA prevista espressamente dal legislatore nazionale nel caso della transazione fiscale.
Il dibattito sulla falcidiabilità dell'IVA nel concordato preventivo prima dell'intervento della Corte di Giustizia

L'art. 182-ter l.fall. prevede che con il piano di concordato il debitore “può” proporre una transazione fiscale, la quale, relativamente all'imposta sul valore aggiunto, può prevedere unicamente la dilazione del pagamento. Giova ricordare che nella prima stesura della norma (recata dall'art. 146, comma 1, D.Lgs. 5/2006) vi era un mero riferimento alle “risorse proprie delle Comunità”. A seguito delle perplessità espresse da parte di dottrina e giurisprudenza di merito sull'applicabilità di tale previsione all'IVA (considerata da molti quale mera base di calcolo per la determinazione della misura della partecipazione degli stati alle risorse comunitarie), il D.L. 185/2008 ha introdotto un richiamo espresso a tale imposta (“con riferimento all'imposta sul valore aggiunto […], la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione di pagamento”).

L'introduzione di tale previsione ha polarizzato il dibattito sulla falcidiabilità dei crediti IVA nel concordato preventivo in due orientamenti contrapposti e fondati su assunti divergenti circa l'ambito applicativo dell'onere di soddisfacimento integrale del credito IVA.

Un primo orientamento, applicando l'art. 182-ter l.fall. secondo il suo tenore letterale, ne desumeva a contrario la falcidiabilità dell'IVA nel concordato preventivo non accompagnato da transazione fiscale; un secondo orientamento, applicando estensivamente la norma anche al caso del concordato preventivo senza transazione, ne desumeva la non falcidiabilità del credito IVA. La medesima tendenza ad un'interpretazione estensiva dell'art. 182-ter ha portato pure alla sua applicazione retroattiva “anche per le procedure alle quali non sia applicabile ratione temporis il D.L. n. 185 del 2008, art. 32, conv. in L. n. 2 del 2009, che ha modificato l'art. 183-ter, comma 1, l.fall.” (così, Cass. n. 9541/2014).

La prima tesi era sostenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito maggioritarie, sensibili all'obiettivo perseguito dalla riforma della legge fallimentare di favorire la composizione delle crisi d'impresa. Se si ritenesse obbligatorio l'integrale soddisfacimento dei crediti IVA, infatti, la regola per cui “il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l'effetto di alterare l'ordine delle causa legittime di prelazione” (art. 160, comma 2, l.fall.) comporterebbe altresì l'obbligo di soddisfare integralmente tutti i creditori privilegiati di grado anteriore, con l'effetto di precludere l'accesso al concordato in moltissimi casi. E' stato pure osservato che “il mancato versamento dell'IVA è spesso utilizzato dalle imprese, illegittimamente, come fonte alternativa di finanziamento delle attività correnti e costituisce quindi nell'ambito concorsuale una delle principali poste passive” (A. LA MALFA, Divieto di falcidia dell'IVA, specialità dell'art. 182-ter e riflessi su consolidamento dei debiti e cessazione delle lite, in Fall., 2015, in nota a Cass. n. 9541/2014).

La tesi rigorista si era invece affermata nella giurisprudenza di legittimità, attenta ai (ritenuti) vincoli comunitari in materia di IVA, tributo che alimenta le risorse proprie della Comunità Europea. In tal senso, la Suprema Corte ha rilevato che non è “credibile che il legislatore abbia inteso lasciare alla scelta discrezionale del debitore assoggettarsi all'onere di integrale pagamento dell'IVA, imposta armonizzata a livello comunitario sulla cui gestione gli Stati non sono esenti da vincoli, optando per la transazione fiscale oppure avvalersi della possibilità di proporne un pagamento parziale decidendo per il concordato preventivo senza transazione” (Cass. n. 22932/2011, la quale precisa che, nella seconda eventualità, il debitore rimane vincolato “solo all'obbligo di pagare integralmente il debito nei limiti del valore dei beni sui quali grava la garanzia, peraltro spesso insussistenti come nel caso di imposta gravante sul valore della prestazione di servizi”. Si veda, da ultimo, anche Cass. n. 2560/2016).

I giudici di legittimità precisavano che, data la natura eccezionale della disposizione di cui all'art. 182-ter l.fall., il pagamento integrale dell'IVA non comporterebbe il pagamento integrale per tutti i crediti di rango superiore.

Sennonché, pare contraddittorio applicare in modo estensivo (o addirittura analogico) una norma di cui si predica la natura eccezionale, così come pare contraddittorio affermare – come pure fa la Suprema Corte – che l'art. 182-ter l.fall. avrebbe natura sostanziale (e non meramente processuale) e al contempo escludere che incida sul rapporto tra diverse categorie di creditori.

Ma, a prescindere dalla fragilità logica delle argomentazioni svolte dalla Corte, la precisazione per cui il pagamento integrale dell'IVA non comporterebbe il pagamento integrale per tutti i (molti) crediti di rango superiore non basta a ridimensionare l'impatto applicativo della tesi della non-falcidiabilità. Come osservato da un'attenta dottrina, laddove vi sia un credito IVA di rilevante importo, la praticabilità della soluzione concordataria sarebbe comunque esclusa per l'impossibilità per l'esperto di attestare che i creditori privilegiati falcidiati subirebbero un trattamento deteriore in caso di fallimento. In tale ipotesi, infatti, l'obbligo di integrale soddisfazione dei crediti IVA non sussisterebbe. Pertanto sarebbe comunque necessario “prevedere il pagamento integrale non solo di IVA (e ritenute), ma anche dei crediti privilegiati di grado anteriore, seppure entro i limiti del valore di liquidazione dell'attivo, in base alla graduazione ordinaria prevista dalla legge”(G. ANDREANI, L'infalcidiabilità del credito IVA nel concordato preventivo senza transazione fiscale, in Corriere Tributario, 2014. In proposito è stato osservato che “potrebbe verificarsi un effetto contrario allo stesso scopo (incentivante per il concordato) che si vorrebbe perseguire: la proposta, infatti, sarebbe sempre per definizione non conveniente per quei creditori privilegiati che, ove IVA e ritenute fossero loro anteposti come prededucibili, nei limiti del relativo valore non potrebbero trovare soddisfazione per incapienza di attivo, sì che ben potrebbero dunque far naufragare il concordato preventivo vittoriosamente opponendosi in sede di omologa” (in questo portale, F. LAMANNA, Graduazione tra IVA, ritenute fiscali e altri privilegi generali nel concordato in caso di incapienza, 24 aprile 2013).

Nonostante tali criticità, da ultimo la tesi della giurisprudenza di legittimità aveva ottenuto l'avallo della Corte Costituzionale, sulla base dell'osservazione per cui “è la natura dell'IVA quale “risorsa propria” dell'Unione europea a spiegare i vincoli per gli Stati membri nella gestione e riscossione dell'imposta, come pure l'inderogabilità della disciplina interna del tributo e, nella specie, la formulazione dell'art. 182-ter l.fall.”, ritenuto applicabile anche al caso di concordato senza transazione fiscale (Corte Cost. n. 225/2014).

Secondo la Corte Costituzionale, “la previsione di deroga al principio di indisponibilità della pretesa tributaria normativamente circoscritta alla sola dilazione di pagamento dell'IVA non è irragionevole e si giustifica – sul piano prognostico – proprio per il persistere, in capo all'amministrazione finanziaria, della possibilità di riscuotere il tributo in futuro, con la contestuale approvazione di un piano concordatario idoneo a consentire il graduale superamento dello stato di crisi dell'impresa” (la medesima questione di costituzionalità è stata dichiarata manifestamente infondata con ordinanza Corte Cost. n. 232/2015, con richiamo alla precedente decisione, in quanto “il rimettente non ha prospettato, nel merito, profili o argomentazioni diversi rispetto a quelli già esaminati o comunque idonei ad indurre ad una differente pronuncia”). Tale passaggio basta a far dubitare che i giudici delle leggi (come i giudici di legittimità) avessero adeguatamente presente l'impatto pratico dell'impostazione rigorista nella maggior parte delle situazioni di crisi.

Per completezza, giova precisare che la sostanziale polarizzazione del dibattito non è stata scalfita significativamente dalla legislazione speciale sopravvenuta, la quale non ha fornito argomenti decisivi ad alcuno dei fronti contrapposti.

Ci si riferisce, in particolare, al nuovo istituto della crisi da sovraindebitamento, per il quale il D.L. 179/2012 ha previsto un vincolo analogo a quello sancito dall'art. 182-ter l.fall., di talché alcune pronunce vi hanno visto la conferma di una sorta di principio generale di intangibilità dell'IVA applicabile in tutte le procedure di crisi (in tal senso si vedano, in particolare, Trib. Brescia 11 giugno 2013, e Cass. Pen. n. 44283/2013, in questo portale, con nota di Minniti, Indisponibilità della pretesa IVA e irrilevanza dell'accesso al concordato preventivo. Per un'articolata critica a tale posizione si veda Stasi, Transazione fiscale nelle procedure concorsuali, in questo portale).

In senso contrario, altra giurisprudenza ha richiamato – a sostegno della tesi liberale - l'art. 16 della legge 289/2012, il quale consente la definizione di una lite pendente con il pagamento di una somma inferiore a quanto dovuto (tale disciplina è richiamata, ad esempio, dal Tribunale di Verona, come giudice a quo della sentenza Corte Cost. n. 225/2014, cit.), ovvero la mancanza di alcun trattamento di favore per l'IVA nelle procedure esecutive individuali.

Al riguardo, ci si può qui limitare a ricordare la fragilità delle soluzioni che pretendano di poggiarsi sull'opzione (sempre aperta) tra argomento a contrario e argomento a simili (In proposito si rinvia all'ormai classica trattazione di G. Guastini, L'interpretazione dei documenti normativi, in Trattato di diritto civile e commerciale fondato da A. Cicu e F. Messineo, diretto da P. Schlesinger, Milano, 2004, osservandosi che anche la stessa questione dell'applicazione restrittiva o estensivo/analogica dell'art. 182-ter L.F. in caso di concordato può ridursi all'alternativa tra le due tecniche interpretative).

La decisione della Corte di Giustizia e il suo riflesso sulla disciplina del concordato preventivo

All'impasse nella comunicazione tra le corti nazionali fin qui delineata, il Tribunale di Udine ha pensato di porre rimedio coinvolgendo il “convitato di pietra” di tale dibattito.

Dalle motivazioni dell'ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia si desume che “il Tribunale dubita che il divieto per gli Stati membri di rinunciare all'accertamento e alla riscossione dei crediti IVA comporti anche il divieto di emanare norme che consentano al debitore di proporre, e alla maggioranza dei creditori di approvare, un concordato preventivo che preveda pagamenti dei crediti IVA non deteriori rispetto all'ipotesi alternativa del fallimento”. Nel contempo, il giudice remittente sembra consapevole del rischio che una decisione ispirata all'orientamento liberale diffuso nella giurisprudenza di merito possa essere rivista in sede di legittimità (L'ordinanza richiama “la funzione nomofilattica assegnata dall'ordinamento alla Corte suprema”, la quale “impone al giudice di merito di discostarsi dai sui orientamenti consolidati (o in via di consolidamento) solo sulla base di solide e ben motivate ragioni”).

Sembra trattarsi, dunque, di un rinvio pregiudiziale motivato, più che da un effettivo dubbio sulla reale necessità di procedere ad un'interpretazione “adeguatrice” dell'art. 182-ter alla normativa dell'Unione, dall'auspicio che tale linea interpretativa adottata dalle corti superiori nazionali fosse finalmente sconfessata con l'intervento della corte sovranazionale.

La “sconfessione” è infine arrivata, in quanto la Corte di Giustizia ha escluso la contrarietà alla disciplina dell'Unione di una normativa nazionale secondo la quale “un imprenditore in stato di insolvenza può presentare a un giudice una domanda di apertura di una procedura di concordato preventivo, al fine di saldare i propri debiti mediante la liquidazione del suo patrimonio, con la quale proponga di pagare solo parzialmente un debito dell'imposta sul valore aggiunto attestando, sulla base dell'accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di proprio fallimento”.

La motivazione è assai succinta, evidenziando sinteticamente la ragionevolezza della deroga al principio di leale collaborazione nell'assicurare il gettito IVA, ma l'esame delle Conclusioni dell'Avvocato Generale offre qualche spunto di analisi in più.

In particolare si segnala il passo – ispirato da un'osservazione del governo spagnolo – in cui si richiama una Raccomandazione della Commissione del 12 marzo 2014, relativa ad un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all'insolvenza. In tale sede l'Unione raccomanda agli Stati di eliminare gli ostacoli all'efficace ristrutturazione di imprese sane in difficoltà finanziaria (La raccomandazione – applicabile al caso del concordato in continuità – non fa alcun riferimento a creditori con potere di veto, ma afferma che “il piano di ristrutturazione adottato dai creditori che rappresentano la maggioranza prescritta dal diritto nazionale dovrebbe essere vincolante per tutti i creditori, a condizione che sia stato omologato dal giudice”).

E' pur vero che la raccomandazione - a differenza della direttiva (come quella in materia IVA) - non produce effetti vincolanti, ma pacificamente ha rilievo a fini esegetici (Tesauro, Diritto comunitario, Padova, 2005: “i giudici nazionali devono tenerne conto ai fini dell'interpretazione di norme nazionali o di altri atti comunitari vincolanti”).

Valorizzando tale esigenza, si può confermare come la contrapposizione tra tesi liberale e tesi rigorista sulla portata applicativa dell'art. 182-ter l.fall. fosse una questione di bilanciamento tra l'obiettivo di garantire il gettito IVA e l'obiettivo di garantire il componimento delle crisi d'impresa.

L'Avvocato Generale, peraltro, ha cura di precisare che “la conclusione che ho raggiunto riguarda esclusivamente l'interpretazione del diritto dell'Unione […]. Non esprimo alcun parere in relazione ad altre possibili argomenti afferenti al diritto nazionale che possano aver orientato la Corte di Cassazione nelle sue decisioni”.

In proposito, è bene evidenziare che la Corte di Giustizia si limita ad escludere che l'orientamento della giurisprudenza di legittimità sia imposto – quale interpretazione adeguatrice – dai vincoli comunitari. E tuttavia, anche alla luce dei richiami svolti nel paragrafo precedente, è difficile negare quale peso il (preteso) vincolo comunitario abbia giocato nelle decisioni della Cassazione e della stessa Corte Costituzionale.

Di talché tutto lascia presagire un (atteso) revirement giurisprudenziale. In proposito si segnale una recentissima decisione del Tribunale di Udine, in cui – relatore il medesimo del giudizio a quo, a meno di un mese dalla pubblicazione della sentenza della Corte -, è stato omologato un concordato che comportava la falcidia dell'IVA, senza alcun riferimento alla nota querelle sul punto.

Sui possibili riflessi della decisione della Corte di Giustizia in materia di transazione fiscale

Il quesito rivolto dal Tribunale di Udine alla Corte di Lussemburgo era esplicito nello specificare che nella fattispecie prospettata il concordato preventivo non contemplava il ricorso alla transazione fiscale.

E tuttavia ci si deve chiedere se i principi posti alla base della decisione possano avere un impatto sistematico più ampio.

In proposito basti notare che il principio disatteso dalla Corte (l'assolutezza dell'obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell'IVA) non fondava solo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità favorevoli ad un'interpretazione estensiva del divieto di cui all'art. 182-bis l.fall., ma aveva giustificato la stessa disposizione in questione, almeno stando a quanto espresso nella Relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del D.L. 185/2008.

Tale constatazione non apre solo una questione de jure condendo sull'opportunità di un ripensamento da parte del legislatore: vi è altresì un problema di carattere sistematico e, forse, un problema di coerenza della disciplina della transazione fiscale con la normativa comunitaria.

A rigore, una questione sistematica sorge ogni volta che due istituti, originariamente disciplinati allo stesso modo (dal legislatore o – come nel caso di specie – da una diffusa interpretazione adeguatrice del dettato normativo) si trovano in seguito ad essere normati in modo difforme (a causa di un intervento legislativo o di un revirement giurisprudenziale).

E' pur vero che transazione e concordato differiscono, non solo sul piano procedurale, ma anche sul piano degli effetti. Come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, “con la transazione fiscale il debitore ottiene il vantaggio della apprezzabile o assoluta certezza sull'ammontare del debito (a seconda del significato che si vuole attribuire al consolidamento) e quindi una maggiore trasparenza e leggibilità della proposta con conseguente maggiore probabilità di ottenere, oltre all'assenso del fisco, anche quello degli altri creditori” (Cass. n. 22932/2011. Una critica serrata alla rilevanza delle differenze tra i due istituti, a partire da una rilettura dei passi appena richiamati, è svolta in A. La Malfa, Divieto di falcidia dell'IVA, specialità dell'art. 182-ter e riflessi su consolidamento dei debiti e cessazione delle lite, cit.).

Tuttavia la falcidiabilità dell'IVA in molti casi comporta un ben maggiore vantaggio, tale da far cadere la scelta sul concordato senza transazione fiscale. Ci si deve pertanto chiedere se, in tale mutato quadro, la transazione fiscale non sia oggi condannata alla marginalità.

Sotto altro profilo, si ripropone la questione – in passato sollevata dalla Suprema Corte per sostenere un'applicazione estensiva del principio dell'intangibilità del credito IVA - per cui non è “credibile che il legislatore abbia inteso lasciare alla scelta discrezionale del debitore assoggettarsi all'onere di integrale pagamento dell'IVA […], optando per la transazione fiscale oppure avvalersi della possibilità di proporne un pagamento parziale decidendo per il concordato preventivo senza transazione” (Cass. n. 22932/2011, cit.).

Peraltro pare evidente che tali inconvenienti sistematici (ed applicativi) non siano sufficienti a superare il tenore letterale dell'art. 182-ter, l.fall.

Se così è, non resta che chiedersi se le argomentazioni svolte dalla Corte di Giustizia non valgano a far prevedere un futuro pronunciamento della medesima Corte o, più verosimilmente, un parziale revirement della Corte Costituzionale sulla norma in esame.

E' pur vero che la Corte di Lussemburgo si è limitata a ribadire – in coerenza con il quesito formulato – che l'obbligo degli stati membri di garantire il prelievo integrale dell'IVA non è inderogabile. E tuttavia, nelle pieghe delle valutazioni espresse dalla Corte circa la ragionevolezza della deroga de qua, è possibile trarre spunti ricostruttivi di non poco conto. Ci si riferisce in particolare al richiamo – centrale anche nelle Conclusioni dell'Avvocato Generale – al fatto che nel concordato preventivo la falcidia dell'IVA ha un ben preciso presupposto. In tale sede è richiesta l'attestazione dell'esperto sulla convenienza della riduzione del credito IVA per l'amministrazione tributaria rispetto all'eventualità del fallimento.

In tale passaggio pare di potersi ravvisare una preferenza (se non espressa, sottintesa) della Corte per istituti “flessibili”, che consentano una valutazione in concreto sulla convenienza della soluzione da adottarsi, rispetto ad istituti più rigidi che tale valutazione precludano.

In questo senso tornano alla mente le argomentazioni con le quali un altro Tribunale del Triveneto aveva motivato la questione di costituzionalità sollevata davanti al giudice delle leggi, e in particolare il richiamo al principio costituzionale di “buon andamento dell'amministrazione” di cui all'art. 97 Cost. Ci si riferisce all'ordinanza del Tribunale di Verona 10 aprile 2013, sinteticamente ripresa nelle premesse della già richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 225/2014.

Tale principio porta a valorizzare una ragionevole dose di discrezionalità amministrativa, pur nel contesto peculiare del diritto tributario, sul presupposto che l'Autorità fiscale, “nonostante non abbia poteri di governo degli interessi economico-sociali, inerenti la determinazione sostanziale dell'imposta, riservati invece al Legislatore, possegga comunque dei margini ampi di manovra in concomitanza con determinate attività, in cui è chiamata ad effettuare scelte di opportunità, mettendo a confronto interessi primari e secondari” (Toma, La discrezionalità dell'azione amministrativa in ambito tributario, Padova, 2012).

In questa prospettiva, la rigidità della formulazione dell'art. 182-ter l.fall. - dopo che ne è stato sconfessato il (presunto) fondamento sovranazionale - potrebbe fondare una questione di costituzionalità dall'esito molto aperto.

E' pur vero che anche la regola per cui il credito IVA è intangibile può favorire l'interesse dell'amministrazione, inducendo “a priori” la riduzione delle altre pretese creditorie (anche erariali), sul presupposto che quelle IVA non siano negoziabili (se non nel quando). Ma se tale rigidità si traduce nella sostanziale impraticabilità della transazione con conseguente permanere dell'incertezza nei rapporti fiscali non potrà certo ritenersi che l'interesse dell'erario sia stato adeguatamente perseguito. “Non sempre le regole sono i mezzi più razionali per raggiungere lo scopo. […] Il costo delle regole consiste nell'imporre una visione selettiva, magari ultra-semplificata, del fine; come risultato, il guadagno in termini di certezza potrebbe non essere sufficiente a compensare i costi della diminuzione della efficacia”: D.J. GALLIGAN, Discretionary Powers. A Legal Study of Official Discretion, Oxford, 1986, tr. it. di F. Innamorati, La discrezionalità amministrativa, Milano, 1999).

E ciò vale, a fortiori, per il caso più frequente in cui la proposta di transazione si accompagni o preceda una soluzione concordataria, la quale potrebbe essere così pregiudicata dalla mancata adesione dell'erario. Com'è stato autorevolmente osservato, in materia tributaria “non si tratta di chiedersi se il tributo sia disponibile o indisponibile in assoluto, ma in nome di cosa se ne possa disporre” (Lupi, Insolvenza, fallimento e disposizione del credito tributario, in Dialoghi dir. trib., 2006).

Da ultimo, a chiosa del presente tentativo di gettare uno sguardo sul futuro prossimo, è appena il caso di precisare che la flessibilità dell'amministrazione richiede dei buoni amministratori. Ciò non comporta solo correttezza e trasparenza, ma altresì competenze anche tecniche. Ma nulla vieta che l'organo amministrativo possa ricorrere anche a figure assimilabili all'esperto attestatore del concordato preventivo, laddove non rinvenga al suo interno le competenze necessarie per esercitare la discrezionalità che gli è concessa (o, meglio, “affidata”).

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