I bilanci non approvati non sono idonei a provare il mancato superamento delle soglie di fallibilità

Diego Corrado
23 Dicembre 2016

La produzione di copie informali dei bilanci (non approvati né depositati) deve equipararsi alla mancata produzione degli stessi, e poiché l'onere della prova in ordine alla assenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento grava sul debitore, essa si risolve in danno dello stesso.
Massima

La produzione di copie informali dei bilanci (non approvati né depositati) deve equipararsi alla mancata produzione degli stessi, e poiché l'onere della prova in ordine alla assenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento grava sul debitore, essa si risolve in danno dello stesso.

Con riferimento al parametro dell'indebitamento ex art. 1, comma 2, lett c), l.fall., l'omesso riferimento agli ultimi tre esercizi – presente invece nelle lettere a) e b) – non può ritenersi casuale e, pertanto, per calcolare l'ammontare del debito si fa riferimento alla contabilità dell'impresa al momento in cui il Tribunale decide sull'istanza di fallimento, non rilevando l'epoca di insorgenza dell'insolvenza.

Il caso

Con la sentenza in commento, la Cassazione torna ad affrontare il tema dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, con particolare riguardo all'onere probatorio che incombe sul debitore intimato che intenda provare la mancanza degli stessi.

Nel caso deciso dai Supremi Giudici la s.r.l. debitrice aveva fatto ricorso a bilanci (rectius, progetti di bilanci) che non risultavano né depositati né mai approvati dall'assemblea. La ricorrente inoltre sosteneva che anche il dato dell'indebitamento complessivo andasse misurato sulla media dell'ultimo triennio.

La Corte ha disatteso le tesi della ricorrente, con le osservazioni di cui in massima.

La questione giuridica

L'evoluzione normativa. Come è noto, la disciplina sul punto ha conosciuto un incerto avvio, causa l'imprecisa originaria formulazione della norma, che al suo debutto (fu emanata con il D.Lgs. n. 5/2006) stabiliva che “non sono piccoli imprenditori (e dunque non sono esclusi dalla disciplina su fallimento e concordato preventivo, n.d.r.) gli esercenti un'attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente:

a) hanno effettuato investimenti nell'azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila;

b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila”.

A prescindere dall'individuazione delle grandezze indicate dalla norma (in particolare per quanto riguarda gli “investimenti”), a causare problemi era l'incerta ripartizione dell'onere della prova. In mancanza di specifiche indicazioni letterali, ben presto si era diffuso nei tribunali il condivisibile orientamento secondo il quale esso dovesse attribuirsi secondo la regola generale di cui all'art. 2697 c.c., a mente della quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

Correttamente dunque, in base alla disciplina così venutasi a creare, si era ritenuto che l'onere di provare la fallibilità del debitore fosse a carico del creditore instante, con le conseguenti difficoltà probatorie ogniqualvolta il debitore fosse un imprenditore non soggetto all'obbligo di deposito dei bilanci o addirittura tutte le volte in cui questi, pur essendovi tenuto, non vi avesse provveduto (caso non infrequente per gli imprenditori in stato di insolvenza, che spesso vanno incontro a un processo di disgregazione aziendale e paralisi amministrativa ben prima che sopravvenga l'accertamento giudiziale del dissesto). Non per caso le statistiche avevano registrato, a partire dal 17 luglio 2006 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 5/2006), una significativa diminuzione delle dichiarazioni di fallimento, non certo perché l'economia italiana fosse stata colta da una improvvisa floridezza, ma per riflesso diretto del nuovo atteggiarsi della norma in questione: era infatti sufficiente che il debitore non si costituisse in giudizio, perché l'onere probatorio a carico del creditore istante si facesse in non pochi casi insuperabile.

Avvedutosi dell'inconveniente, il legislatore corse presto ai ripari, modificando l'impostazione della norma, che ha raggiunto l'assetto attuale a seguito dell'approvazione del D.Lgs. n. 169/2007, in vigore dal 1° gennaio 2008. La regola attuale prevede che l'imprenditore commerciale che si trovi in stato di insolvenza sia dichiarato fallito, salvo che sia lui a provare il contemporaneo possesso dei tre requisiti previsti dall'art. 1 in discussione. Egli ha dunque un duplice onere:

(i) costituirsi in giudizio;

(ii) provare il mancato superamento delle tre soglie scolpite dalla legge, che, come è noto, fanno riferimento all'attivo patrimoniale, ai ricavi lordi, ai debiti complessivi, prendendo come riferimento la media dell'ultimo triennio nei primi due casi, e il valore puntuale alla data della sua verifica in sede di istruttoria prefallimentare, nel terzo.

La posizione di giurisprudenza e dottrina. È interessante notare che il particolare atteggiarsi, nel caso di specie, dell'onere probatorio, ha portato parte della dottrina e della giurisprudenza a parlare di una vera e propria presunzione di fallibilità, vincibile solo con la prova contraria a carico dell'intimato regolarmente costituito in giudizio, con evidenti conseguenze negative per la posizione del contumace (in dottrina, cfr. per tutti Jorio, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio, Bologna, 2007, 14 ss.; in giurisprudenza Trib. Padova 8 febbraio 2011), ciò in deroga alla regola della non contestazione oggi recepita dall'art. 115 c.p.c., che non trova applicazione nei confronti, appunto, del contumace.

A complicare ulteriormente il quadro si è inserita la giurisprudenza della Cassazione, che ha affermato residuare in capo al tribunale un potere di indagine ufficioso, ricavabile dalla previsione del potere del giudice di assumere informazioni urgenti ex art. 15, comma 5, l. fall. e di utilizzare i dati dei ricavi lordi, in qualunque modo essi risultino, e dunque a prescindere dalle allegazioni del debitore, nonché dal potere di assumere in via officiosa i mezzi di prova ritenuti necessari nel giudizio di impugnazione ex art. 18 l. fall. (cfr. Cass. n. 17281/2010).

Il caso concreto e la soluzione offerta dalla sentenza in commento. Ricostruito così il quadro generale, si osserva che, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto non assolto l'onere incombente sul debitore in quanto questi non ha depositato gli ultimi tre bilanci, come espressamente richiesto dall'art. 15, comma 4, bensì dei semplici progetti di bilancio, mai approvati dall'assemblea della debitrice. Inoltre, ha disatteso (in maniera convincente) l'assunto difensivo della ricorrente, che pretendeva di misurare anche il requisito di cui all'art. 1, comma 2, lett. c) sulla media triennale, che oggettivamente appare tesi priva di fondamento testuale, giacché quando la legge, alle lettere a e b, ha inteso far riferimento a un più esteso arco temporale, espressamente lo ha affermato; e tuttavia (in modo solo apparentemente meno appagante, come si vedrà più avanti) ha fatto riferimento al dato del bilancio 1996, che era sì l'ultimo disponibile, e pur tuttavia decisamente obsoleto.

Osservazioni

La posizione assunta dalla Corte nella sentenza in commento appare particolarmente severa, con riguardo al principio espresso nella prima delle due massime in cui può riassumersi il decisum. Se è vero che la “copia informale dei bilanci” (o il progetto, o la bozza di bilancio, nel lessico abitualmente utilizzato in giurisprudenza e dottrina) non ha valore legale, è anche vero che nella parte in fatto non viene chiarito se il mancato deposito del bilancio approvato è stato dovuto a semplice negligenza della difesa o se questa ha allegato e provato che la mancata approvazione è dipesa dall'inerzia dell'assemblea. In questo secondo caso, apparirebbe criticabile addossare ad un soggetto (la s.r.l.) le conseguenze negative dell'inerzia di un suo organo, e ciò indipendentemente dalle sue cause (che siano l'impossibilità di prendere una decisione o addirittura il mancato raggiungimento del quorum costitutivo). In ogni caso, pare pacifico che la prova del mancato superamento delle soglie di cui all'art. 1, comma 2, l.fall., può essere data con qualsiasi mezzo. E dunque in tanto il deposito di semplici “copie informali” del bilancio (come le ha definite la Corte) può portare a ritenere non assolto l'onere della prova che incombe sul debitore, in quanto esse siano l'unico elemento da questi addotto, e la loro attendibilità non sia suffragata da altri elementi (ad esempio dalle scritture contabili o altra documentazione equipollente).

Pacifico appare, invece, il principio di cui alla seconda delle massime. È evidente infatti che – in ossequio al brocardo in claris non fit interpretatio – l'interprete che pretendesse di misurare il requisito dell'indebitamento complessivo sull'arco del triennio, sol perché così è stabilito nei primi due casi previsti dall'art. 1, comma 2, si muoverebbe praeter legem. Il fatto che – in mancanza di bilanci più recenti – la Corte abbia addirittura fatto riferimento a quello del 1996, per quanto singolare la circostanza possa apparire, è a ben vedere ininfluente, giacché a quella data risultava comunque superata la soglia, e dunque non sussisteva neanche in via indiziaria il requisito della non fallibilità invocato dal debitore.

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