Licenziamento nel fallimento e diritto al risarcimento del danno

10 Gennaio 2017

Nell'ipotesi di licenziamento illegittimo attuato a seguito dell'apertura della procedura concorsuale, affinché al lavoratore possa essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, commisurando la retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso a quello della reintegrazione, è necessaria non già la mera utilizzabilità delle energie lavorative quanto, piuttosto, la loro effettiva utilizzazione.
Massima

Nell'ipotesi di licenziamento illegittimo attuato a seguito dell'apertura della procedura concorsuale, affinchè al lavoratore possa essere riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, commisurando la retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso a quello della reintegrazione, è necessaria non già la mera utilizzabilità delle energie lavorative quanto, piuttosto, la loro effettiva utilizzazione (artt. 72 e 90 l.fall.; art. 2119 c.c.).

Ne consegue che, in siffatta ipotesi, non vi è un obbligo retributivo, sussistendo il diritto al pagamento del corrispettivo non in ragione della messa a disposizione della prestazione lavorativa, dovendosi considerare irrilevante l'offerta quante volte il curatore non possa avvalersi della prestazione, ma solo del riconoscimento del danno commisurato a cinque mensilità della retribuzione quale minimo inderogabilmente dovuto al lavoratore (art. 18, comma 4, L. n. 300/1970).

Il caso

Un dipendente di una Spa, con mansioni di capo servizio operai ed inquadramento nel quinto livello del CCNL di settore, depositava istanza ex art. 101 l.fall.. A seguito del fallimento della società, il dipendente non aveva più percepito la retribuzione ed era stato poi licenziato dalla curatela.

In seguito ad impugnazione, il Tribunale di S. Maria C.V. in funzione di giudice del lavoro dichiarava inefficace il licenziamento intimato dalla curatela e, conseguentemente, la continuità giuridica del rapporto in questione, statuizione confermata dalla Corte di Appello di Napoli con sentenza 17 novembre 2005 e, quindi, divenuta definitiva dopo il rigetto, con sentenza in data 2 marzo 2009 n. 5032, del ricorso per Cassazione proposto dalla medesima curatela.

Di qui l'istanza tardiva per l'ammissione al passivo del fallimento, in privilegio, del proprio credito. Con sentenza depositata il 1° marzo 2013, il Tribunale di Santa Maria C.V. ha rigettato il ricorso e condannato al rimborso delle spese processuali in favore della curatela del fallimento.

Avverso la predetta sentenza, con atto notificato il 20 agosto 2013, il dipendente proponeva appello chiedendo alla Corte di accogliere le domande avanzate con ricorso ex art. 101 l.fall.

La questione

L'art. 3, comma primo, della legge 23 luglio 1991, n. 223 – ormai abrogato – aveva riservato il trattamento integrativo concorsuale alle imprese operanti in determinati settori, per consentire al lavoratore di mantenere la “condizione di occupato”, per il periodo stabilito, tipizzando le ipotesi ed i motivi in presenza dei quali, al termine di esso, poteva procedersi, alternativamente, alla collocazione in mobilità, ovvero al licenziamento collettivo, mediante la procedimentalizzazione delle scelte, per la individuazione dei lavoratori interessati, spostando il controllo dal momento giudiziario, successivo al recesso, a quello amministrativo e sindacale precedente la sua attuazione.

La norma aveva introdotto una derogabilità delle integrazioni salariali, al fine di garantire la stabilità del posto di lavoro e del reddito e di assicurare la permanenza del rapporto, quante volte nel periodo iniziale di dodici mesi, ovvero quello successivamente prorogato di sei, fosse stato possibile realizzare una vicenda circolatoria dell'azienda, o del singolo ramo, definitiva (vendita) o temporanea (affitto), sì da garantire, seppur parzialmente, il livello occupazionale consentendo, quindi, all'organo della procedura, di attuare il recesso del personale in esubero, attraverso la collocazione in mobilità dello stesso, ovvero il licenziamento collettivo, ove al termine del periodo di integrazione salariale non fosse risultato possibile realizzare alcuna delle ipotesi circolatorie dell'azienda, considerate al secondo comma dello stesso art. 3, tanto da dover essere i rapporti necessariamente tutti risolti (CAIAFA A., Jobs Act: ristrutturazione dell'impresa e rapporti di lavoro, in Le procedure concorsuali tra economia e diritto, I, Roma, 280, a cura dello stesso Autore.).

L'art. 3 della legge n. 223 del 1991, nel disciplinare la sorte del contratto di lavoro nel fallimento, aveva distinto, espressamente, l'ipotesi della prosecuzione dell'attività di impresa, per la quale aveva escluso i licenziamenti, stabilendo, al contrario, nel caso di cessazione, che i rapporti rimanessero sospesi per il periodo indicato, con l'intervento della cassa integrazione, senza richiedere la sussistenza di prospettive di prosecuzione dell'attività, sì da risultare, come si è accennato, l'ammortizzatore uno strumento per il mantenimento del reddito, oltrechè della “condizione di occupato” (LIEBMAN, Liquidazione e conservazione dell'impresa nelle procedure concorsuali: insolvenza dell'imprenditore e strumenti di tutela del lavoro subordinato, in Dir.rel.ind., 1995, 29; MISCIONE, L'integrazione salariale ed eccedenza di personale, in Giur-it., 1991, IV, 4; CAIAFA A., Sopravvivenza dell'impresa nelle procedure concorsuali e sorte dei rapporti di lavoro, in Dir.lav., 1991, I, 48).

L'art. 46-bis del d.l. n. 83 del 2012 – convertito con modificazione dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 – nell'intento di ridisegnare, completamente, la materia delle procedure concorsuali, in modo da renderle rispondenti all'avvertita esigenza di consentire, ove possibile, la sopravvivenza del complesso aziendale, per una migliore tutela dei livelli occupazionali, senza con ciò abbandonare e tradire l'originario principale scopo di tali procedure, individuabile nella tutela degli interessi dei creditori concorrenti, per quel che attiene il trattamento di integrazione salariale concorsuale è intervenuto sull'art. 2, comma 70, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. legge Fornero), operando la sostituzione delle parole “qualora la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata”, con la diversa previsione della necessaria sussistenza di “prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività o di salvaguardia, anche parziale, dei livelli di occupazione……”, per il riconoscimento del trattamento integrativo, condizionatamente alla ricorrenza di parametri oggettivi definiti con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 4 dicembre 2012 (MORETTI-SCAINI, Il futuro della cassa integrazione guadagni e straordinaria concorsuale alla luce delle novità introdotte dal c.d. decreto crescita, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2013, 267¸CAIAFA A., La riforma del mercato del lavoro e le procedure concorsuali, Roma, 2013, 102).

La richiamata disposizione è stata espunta dall'ordinamento giuridico, a decorrere dal 1 gennaio 2016, ed è venuta meno, da tale data, la possibilità di autorizzare la cigs concorsuale, conseguente all'ammissione dell'impresa ad una delle procedure concorsuali in precedenza individuate dall'art. 3 della legge n. 223 del 1991.

Nell'ambito di una circolare del 5 ottobre 2015, n. 24, della Direzione Generale del Ministero del Lavoro, è stato precisato che, successivamente al 31 dicembre 2015, nel caso in cui l'impresa sia sottoposta a procedura concorsuale, con continuazione dell'esercizio dell'impresa, ove ne sussistano i presupposti, la fattispecie potrà essere fatta rientrare nell'ambito delle altre causali previste dal d.lgs. n. 148 del 2015, quante volte la sospensione, con riduzione dell'attività lavorativa, sia determinata, ai sensi della lett.b) dell'art. 21, comma primo, del richiamato decreto legislativo, da crisi aziendale, semprechè le verifiche ispettive consentino di ritenere possibile la realizzazione del piano di risanamento volto a fronteggiare gli squilibri di natura produttiva, finanziaria o gestionale e lasci ritenere che gli interventi correttivi e gli obiettivi concretamente raggiungibili, finalizzati alla continuazione dell'attività aziendale e alla salvaguardia occupazionale, risultino realizzabili.

Ne consegue che, nell'ipotesi di attività cessata, non si pone oggi più la necessità di accertare il numero dei dipendenti occupati e, al tempo stesso, il settore, se industriale o commerciale, dell'impresa fallita al fine della individuazione dei presupposti per la sospensione dei rapporti, quanto, piuttosto, verificare quale dei modelli previsti dall'ordinamento debba essere utilizzato per pervenire alla risoluzione dei rapporti ancora in essere e, dunque, se debba ricorrere l'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o collettivo.

E difatti, mentre in un primo momento la Suprema Corte aveva inteso distinguere l'ipotesi in cui il fallimento avesse consentito lo svolgimento, sia pure parziale e provvisorio, di alcune attività, tali da permettere la conservazione parziale dei rapporti di lavoro, ovvero avesse determinato la definitiva cessazione dell'attività di impresa, con conseguente impossibilità, quindi, di prosecuzione dei rapporti in essere ed aveva, coerentemente, ritenuto che solo nel secondo caso non vi sarebbe stato motivo di applicare la procedura di mobilità, presupponendo essa l'esercizio di una scelta, da parte dell'organo della procedura, tra più soluzioni alternative alla cessazione, che questi non era in grado di effettuare dovendo, necessariamente, tener conto, in via esclusiva, dell'interesse dei creditori (Cass., 12 maggio 1997, n. 4146); successivamente i giudici di legittimità hanno ritenuto che la procedura prevista dall'art. 4, della legge 23 luglio 1991, n. 223, fosse obbligatoria anche quando l'attività fosse risultata già cessata al momento della dichiarazione di fallimento ed il curatore avesse inteso procedere alla risoluzione dei rapporti di lavoro di tutto il personale in organico (Cass., 8 luglio 2005, n. 12645, con nota contraria di CAIAFA A., Fallimento, licenziamenti collettivi ed ordinamento comunitario, in Dir.fall., 2005, 658; Cass., 27 aprile 2004, n. 8047).

Se pertanto il requisito dimensionale costituisce il primo discrimine utile, ai fini della individuazione della procedura applicabile al caso di specie, identiche risultano essere le conseguenze qualora, successivamente alla operata risoluzione del rapporto, ne venga accertata la illegittimità, laddove risulti non essere utilizzabile la prestazione lavorativa, ancorchè offerta, a seguito della operata ricostituzione del rapporto, per essere cessata definitivamente l'attività di impresa.

Le condizioni di legittimità del licenziamento dipendono strettamente dalla constatata impossibilità, per l'organo della procedura, di superare lo scrutinio delle verifiche ispettive relative alla causale invocata, a supporto della già presentata istanza, volta ad ottenere la sospensione dei rapporti di lavoro, qualora sia stato disposto dal tribunale, con la sentenza dichiarativa di fallimento, l'esercizio provvisorio, ovvero la continuazione temporanea dell'attività venga ritenuta possibile, in un momento successivo, dal curatore e ne faccia richiesta al giudice delegato, raccolto il parere favorevole del comitato dei creditori, se costituito, ai sensi dell'art. 104, secondo comma, l.fall.

Nell'ipotesi, dunque, in cui la cessazione dell'attività sia soltanto parziale, il curatore potrà risolvere i rapporti di lavoro, per i quali non sia possibile il relativo mantenimento, in relazione al piano di gestione presentato dall'imprenditore prima dell'apertura della procedura concorsuale e manterrà in vita, compatibilmente con le nuove esigenze organizzative e produttive, quei rapporti, ancorchè sospesi per effetto del trattamento integrativo salariale, che dovesse ritenere possibile utilizzare nel prosieguo dell'attività.

Nel caso ipotizzato, la riduzione del personale, per ragioni inerenti l'attività produttiva, avverrà tenendo conto della fungibilità o meno delle mansioni ed il recesso potrà trovare la sua giustificazione anche, e solo, sulla base delle ragioni tecnico-produttive emergenti dalla nuova realtà.

Nell'ipotesi in cui il recesso dovesse riguardare lavoratori svolgenti mansioni fungibili, la scelta, in quanto caratterizzata da un discusso margine di discrezionalità, dovrà tuttavia essere effettuata in ottemperanza ai criteri di correttezza e buona fede (art. 1175 cod. civ.), e valido parametro di riferimento sarà costituito dai criteri sussidiari del carico di famiglia, dell'anzianità e delle esigenze tecnico-produttive (art. 5 L. n. 223 del 1991), che contengono in re ipsa una valutazione di correttezza e buona fede, in quanto operata dallo stesso legislatore.

La gestione dell'insolvenza dopo la riforma e sorte dei rapporti di lavoro.

Il legislatore della riforma ha preferito non regolamentare il contratto di lavoro ed ha omesso, tra l'altro, il richiamo ad esso anche nell'ambito del novellato art. 24 l.fall., che individua il criterio della competenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento a conoscere di tutte le azioni che ne derivano e che, letto in relazione a quanto previsto dai successivi artt. 52 e 93 l.fall., lascia spazi pericolosi nella individuazione del giudice competente ad accertare i crediti, mantenendo la separazione fra la fase di accertamento del diritto e quella di determinazione dell'importo, ai fini dell'ammissione al passivo, che ormai, da tempo, la giurisprudenza reputa operare nell'ipotesi in cui oggetto del giudizio sia la declaratoria di illegittimità, invalidità o inefficacia del licenziamento (i giudici di legittimità sono, difatti, diversamente orientati qualora l'accertamento richiesto sia strumentale rispetto all'effettivo bene della vita che la parte ricorrente intende perseguire: Cass., 8 giugno 1998, n. 99; Cass., 24 ottobre 1996, n. 9306; Cass., 10 maggio 1994, n. 4359; Cass., 19 febbraio 1993, n. 2035). Tale soluzione oggi va riconsiderata quanto meno con riferimento a quelle ipotesi in cui dall'accertamento della invalidità dell'operata risoluzione non derivi più il diritto alla reintegrazione ma, in via esclusiva, il risarcimento del danno (il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 ha stabilito la progressività delle tutele riferendola ai lavoratori assunti successivamente alla data di entrata in vigore, che rivestono la qualifica di operai impiegati o quadri, indipendentemente dal settore privato e pubblico, richiamando la disposizione normativa genericamente i datori di lavori).

Il d.lgs.n. 23 del 2015 ha introdotto un diverso regime sanzionatorio correlato alla inosservanza dell'iter procedimentale, previsto dall'art. 4, comma 12, ovvero dei criteri di scelta, di cui all'art. 5, comma uno, della legge n. 223 del 1991, mediante applicazione del regime stabilito per i licenziamenti intimati, senza che ricorrano gli estremi del giustificato motivo oggettivo, mediante riconoscimento di due mensilità per ogni anno di servizio in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro.

Diversa, ancora, la sorta del recesso intimato con violazione del requisito della motivazione, essendo previsto anche in tal caso il riconoscimento di una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, con la conseguenza, quindi, che con riferimento a tali ipotesi non si pone ormai più il problema del riparto di competenza.

Se, pertanto, nessun accertamento è consentito, in assenza del necessario contraddittorio con tutti i creditori concorrenti, senza il rispetto delle regole del concorso e, per l'effetto, nessun titolo può validamente formarsi, se non attraverso il procedimento disciplinato dagli art. 92 e segg. l.fall., con conseguente inammissibilità e/o improponibilità della richiesta azionata, sarebbe stato opportuno che il legislatore, anziché escludere ogni riferimento al rapporto di lavoro, nell'ambito dell'art. 24 l.fall., ne avesse fatto esplicita menzione.

L'effettuata scelta di non considerare, prevedere e regolamentare gli effetti dell'apertura della procedura concorsuale sul rapporto di lavoro, individuandone la sorte, non pone l'esigenza di operare una lettura sistematica ed una analisi ragionata e non meramente testuale della relativa norma, poiché inesistente, quanto, piuttosto, di trarre soluzioni e risposte al fine di stabilire se, in effetti, a seguito della dichiarazione di fallimento, tale rapporto è destinato, in via alternativa, a risolversi ipso iure, a rimanere sospeso, ovvero a proseguire senza soluzione di continuità, fino a quando il curatore non decida lo scioglimento e, laddove si opti per tale ultima soluzione, se possa sussistere, o meno, un diritto alla retribuzione per il periodo successivo all'apertura della procedura concorsuale sino alla data del licenziamento, o, ancora, se il lavoratore possa richiedere l'ammissione al passivo degli emolumenti retributivi quante volte venga, successivamente, accertata l'illegittimità del recesso e disposta la reintegrazione o non si debba, in tale ipotesi, tener conto della effettiva possibile utilizzazione della prestazione (Tribunale Santa Maria Capua Vetere, 21 febbraio 2013, in Dir.fall., 2013, n. 3,4, 344, con nota di CAIAFA A., Licenziamento ad opera del curatore e conseguenze).

Dalla norma codicistica (art. 2119 cod.civ.) deriva, difatti, unicamente, che la dichiarazione di fallimento è, di per sé, inidonea a provocare lo scioglimento automatico del rapporto e che l'apertura della procedura concorsuale determina la sospensione dell'esecuzione di esso (art. 72, secondo e terzo comma, l.fall.) sino a quando il curatore, con l'autorizzazione del giudice delegato, prima della riforma, ed ora del comitato dei creditori, non abbia deciso di subentrarvi (In tal senso, Cass., 5 febbraio 1980, n. 799; Tribunale Roma, 19 giugno 1985, in Il fallimento, 1985).

Ne consegue che tra norma codicistica (art. 2119 cod.civ.) e disposizione fallimentare (art. 72 l. fall.) non vi è incompatibilità, quanto, piuttosto, discende dalle stesse che la dichiarazione di fallimento non realizza la cessazione ipso iure del rapporto di lavoro subordinato pendente che, di contro, è sospeso dal momento dell'apertura del concorso sino a quando il curatore non abbia operato la scelta tra scioglimento o prosecuzione (Tribunale Roma, 12 ottobre 1991, in Il fallimento, 1992,; Cass., 26 gennaio 1988, n. 648).

E' innegabile, quindi, che l'apertura della procedura concorsuale non può avere incidenza alcuna, in via automatica, sul rapporto di lavoro, sicchè se essa non dà luogo ad una ipotesi di impossibilità sopravvenuta assoluta, quanto, piuttosto, temporanea, di offrire e ricevere la prestazione, qualora l'attività sia cessata e non sia stato disposto, con la sentenza che apre il concorso, l'esercizio provvisorio.

Il medesimo problema si pone con riferimento all'ipotesi in cui il rapporto sia stato risolto dall'imprenditore prima della dichiarazione di fallimento ed il recesso venga, poi, dichiarato illegittimo, dal momento che, laddove il rapporto sia assistito da tutela reale ed il licenziamento sia stato impugnato, medio tempore, sino a quando non ne venga accertata la invalidità, esso non può considerarsi estinto, quanto, piuttosto, quiescente (Cass., 27 ottobre 2009, n. 22642; Cass., 6 marzo 2008, n. 6055; Cass., Sez.Un., 5 luglio 2007, n. 15143), sì da doversi verificare se in siffatta ipotesi permanga il corrispondente obbligo per il curatore di versare in aggiunta agli emolumenti retributivi, anche i contributi assicurativi, nonché le penalità in ragione della conseguente omissione.

In assenza di una specifica regolamentazione, per quel che concerne la successione del curatore nel rapporto di lavoro, dottrina e giurisprudenza hanno stabilito potersi far riferimento alla regola generale dettata dall'art. 72 l.fall. che, a parità di condizioni, e salva deroga espressa, disciplina tutti quei rapporti che non si sciolgono automaticamente a causa del fallimento.

E' stata così ritenuta applicabile ai rapporti di lavoro la richiamata norma (art. 72 l.fall.), con la conseguenza che essi rimangono sospesi fino a quando il curatore non abbia deciso se ricorrano, o meno, i presupposti per sciogliersi dagli stessi (Cass., 6 febbraio 1980, n. 799; Tribunale Roma, 19 giugno 1985, in Il fallimento, 1985).

La dottrina ha ritenuto che il contratto non si risolve di diritto, in ragione di quanto previsto dall'art. 2119 cod.civ., con l'apertura della procedura, ma si realizza un'ipotesi di “quiescenza” del rapporto determinata dalla “temporanea impossibilità della prestazione” (GRASSETTI, Fallimento e rapporto di lavoro, in Giur.comm., 1974).

Dalla continuazione, senza soluzione, del rapporto, non può derivare – proprio perché sospeso – anche il diritto al trattamento economico fino a quando non intervenga un legittimo atto di risoluzione da parte del curatore, per la constatata impossibilità assoluta di ricevere la prestazione, salvo il caso in cui il tribunale abbia autorizzato, ai sensi dell'art. 104 l.fall., la continuazione, pur se provvisoria, dell'esercizio dell'attività di impresa, si da lasciar ritenere che, una volta ricostituito questo, per effetto dell'ordine di reintegrazione, debbano essere valutati gli effetti derivanti dalla richiamata disposizione normativa e, dunque, la verificata situazione di quiescenza conseguente all'apertura della procedura concorsuale.

Identico principio non può non trovare applicazione nel caso in cui, comunicata la volontà di sciogliersi dal rapporto ed attuato, nelle forme previste, in ragione del numero dei dipendenti occupati, il recesso venga, successivamente, dichiarato illegittimo, perché anche, in tal caso, dovrà tenersi conto della circostanza che il rapporto di lavoro, proprio perché mantenuto in stato di quiescenza, non avrebbe determinato alcun obbligo di pagamento di un corrispettivo (retribuzione) in assenza della chiesta prestazione.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza che si annota ha correttamente applicato i principi ora richiamati ed ha ritenuto che nella disposizione codicistica (art. 2119 cod.civ.) va individuata la fonte normativa del principio dell'automatica continuazione del rapporto, laddove l'art. 72 l.f. regola gli effetti economici per il periodo per il quale esso rimane sospeso, impedendo che la prestazione non resa possa dar vita ad un credito, dal momento che seppur il curatore viene a sostituirsi al datore di lavoro, ciò non consegue da una previsione normativa, ma si verifica solo ed in quanto il tribunale abbia autorizzato la continuazione dell'esercizio dell'impresa, sicchè deve ritenersi esclusa la mora credendi di questi e, per l'effetto, l'obbligo per lo stesso di risarcire il danno corrispondente alle retribuzioni maturate medio tempore.

Si precisa nella decisione - ricordando i precedenti di legittimità in termini – che seppur la retribuzione è collegata alla prestazione effettiva del lavoro, perché possa ritenersi sussistere il relativo diritto deve aversi riguardo, necessariamente, non solo alla natura sinallagmatica del contratto, da cui discende la corrispettività delle prestazioni, ma anche alla concreta utilizzabilità della prestazione, non potendo ciò trovare applicazione, nel caso del fallimento, ove non sia stata disposta la continuazione temporanea dell'impresa, per la ricostituzione della lex contractus, che equipara all'effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa la mera utilizzabilità della stessa da parte del datore di lavoro e, nel caso risolto, del curatore.

La circostanza, pertanto, di non avere il tribunale disposto l'esercizio provvisorio ha consentito di non ritenere imputabili al curatore gli effetti discendenti dalla mancata prestazione lavorativa, proprio in ragione dell'assenza del presupposto della utilizzabilità delle energie fisiche, ancorchè messe a disposizione, ciò in quanto la sentenza che apre il concorso determina la sospensione del contratto e delle rispettive obbligazioni dovendosi ritenere esclusa la concreta utilizzazione della prestazione offerta, quante volte non sia stato disposto la prosecuzione dell'attività ed il curatore non abbia deciso di subentrare nel rapporto.

La sentenza che si annota ha correttamente applicato i principi ora richiamati affermando che l'art. 2119, secondo comma, cod.civ. si coordina con il sistema delineato dalla legge fallimentare, che non fa conseguire dalla dichiarazione di fallimento la disgregazione dell'azienda e l'impossibilità di prosecuzione dell'attività di impresa quante volte, in ragione dell'art. 90 l.fall., ratione temporis applicabile, fosse stato autorizzato dal tribunale l'esercizio provvisorio dell'attività al fine di evitare che dall'interruzione potesse derivare un danno grave ed irreparabile.

Viene sottolineato, nella decisione, che l'art. 72 l.fall., nel prevedere la sospensione dei contratti pendenti alla data di dichiarazione di fallimento e nel riconoscere al curatore il relativo potere ivi disposto, ha ritenuto legittimo lo scioglimento, qualora non possano essere utilizzate le prestazioni del dipendente a causa della cessazione dell'attività aziendale e delle esigenze della procedura concorsuale (Cass., 5 febbraio 1980, n. 799; Cass., 14 maggio 2012, n. 7473) e precisato, in aggiunta, che la retribuzione, in quanto collegata alla prestazione effettiva del lavoro, non soltanto ai fini della sua commisurazione, in ragione di quanto previsto dall'art. 36 Cost., ma anche per la stessa configurazione del relativo diritto, non può essere pretesa in ragione dell'esistenza e del protrarsi del rapporto, presupponendo, al contrario, la corrispettività delle prestazioni la possibile utilizzazione della prestazione offerta (in tal senso, il richiamo delle decisioni dei giudici di legittimità che hanno ritenuto dovuta la retribuzione nel caso di conversione ex lege in un unico contratto a tempo indeterminato di più rapporti: Cass., Sez. Un., 5 marzo 1991, n. 2334; Cass., 21 dicembre 1998, n. 12752; Cass., 8 dicembre 2002, n. 14381; Cass., Sez.Un., 6 febbraio 2003, n.1732).

Gli effetti discendenti dalla declaratoria, con sentenza passata in giudicato, della inefficacia del licenziamento comunicato dal curatore, vengono circoscritti alla reintegrazione del rapporto di lavoro, con l'impresa fallita, in atto al momento dell'illegittimo scioglimento, con conseguente quiescenza di esso in ragione della risalente cessazione dell'attività di impresa, dovuta alla circostanza di non avere disposto il tribunale l'esercizio provvisorio.

Viene, conseguentemente, ritenuto inappropriato il richiamo operato in favore della decisione della Suprema Corte (Cass., 14 maggio 2012, n. 7373, in CAIAFA A., Codice dell'udienza fallimentare, Roma, 2015, Sub.art.72, 2056), essendo indiscussa la imputabilità non già al curatore quanto, piuttosto, alla prevista sospensione ex lege del rapporto, della utilizzazione della prestazione lavorativa dalla data del licenziamento a quella della nuova ricostituzione del rapporto, con la conseguenza che il criterio di commisurazione del danno, per come regolato dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, non può essere evocato venendo ad incidere la statuizione accertativa della illegittimità del recesso su un rapporto di lavoro sospeso, sì da apparire la pretesa risarcitoria, parametrata alla retribuzione globale di fatto, contraria alla ratio delle disposizioni richiamate.

In applicazione, poi, di quanto previsto dall'art. 18, quarto comma, della legge n. 300 del 1970, in ragione della presunzione assoluta di danno, commisurato alle cinque mensilità di retribuzione, quale minimo inderogabilmente dovuto al lavoratore, in base ad una presunzione iuris et de iure, è stato riconosciuto, in riforma della sentenza, il diritto all'ammissione per tale importo, non inficiando tale riconoscimento quanto in precedenza affermato, con riferimento alla impossibilità di accedere alla richiesta di ammissione al passivo per le retribuzioni maturate medio tempore, in assenza del presupposto della utilizzabilità delle energie fisiche, per essere risultata cessata l'attività di impresa in epoca precedente l'apertura del concorso e per non essere stato disposto l'esercizio provvisorio.

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