Revoca del sequestro preventivo e legittimazione del curatore

Niccolò Bertolini Clerici
30 Gennaio 2017

La dichiarazione di fallimento e la contestuale applicazione dell'art. 42 l.fall. non sono sufficienti a conferire alla procedura la disponibilità dei beni del fallito qualora su di essi sia stato antecedentemente disposto sequestro ex art. 322-ter c.p., dovendosi ritenere che...
Massima

La dichiarazione di fallimento e la contestuale applicazione dell'art. 42 l.fall. non sono sufficienti a conferire alla procedura la disponibilità dei beni del fallito qualora su di essi sia stato antecedentemente disposto sequestro ex art. 322-ter c.p., dovendosi ritenere che il vincolo penale assorba già ogni possibile potere fattuale su questi beni, essendo la "disponibilità" - nel settore delle tutele reali - da intendere in senso effettivo, ossia come un reale potere di fatto sul bene che ne è oggetto.

Il caso

La vicenda oggetto della pronuncia che si annota trae origine dal decreto con cui il Gip di Mantova disponeva, sulle quote di due società e sul relativo patrimonio immobiliare (in quanto beni nella disponibilità dell'indagato), il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto tratto dalla commissione dei reati di dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture per operazioni inesistenti.

Successivamente all'esecuzione del sequestro - intervenuta la nomina di un amministratore giudiziario - le società raggiunte dal provvedimento ablativo venivano dichiarate fallite. Il curatore del fallimento richiedeva, quindi, la revoca del sequestro preventivo precedentemente disposto senza che, tuttavia, né il Gip, né, poi, il Tribunale del Riesame ne accogliessero le ragioni, negando che nel caso di reati tributari il fallimento possa incidere sul sequestro per equivalente finalizzato alla confisca.

Secondo il Tribunale del Riesame, infatti, la disciplina di cui all'art. 322-ter cod. pen, difettando di esplicite norme che facciano salvi i diritti dei terzi, non accorderebbe legittimazione attiva al fallimento rispetto alla richiesta di revoca del sequestro. A detta del ricorrente in Cassazione, invece, l'art. 322-ter cod. pen., riguardando i beni di cui “il reo ha la disponibilità”, offrirebbe ai terzi una tutela addirittura “maggiore, o, quanto meno, più evidente” di quella garantita dall'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, escludendo in radice che possano essere colpiti beni che non siano, appunto, a disposizione del reo. Secondo l'argomentare del ricorrente, quindi, l'avvento della procedura fallimentare avrebbe attratto nella massa attiva fallimentare, ai sensi dell'art. 42 l.fall., i beni che, in precedenza, erano stati posti a sequestro, togliendoli alla disponibilità del presunto reo. Diversamente opinando, lamenta il curatore della procedura, si consumerebbe anche la violazione degli artt. 2741 cod. civ., 189 cod. pen. e 316 cod. proc. pen., che prevedono l'uguale diritto di soddisfazione dei creditori e il privilegio dei crediti da pene pecuniarie (tra cui annoverare la confisca) solo rispetto a crediti non privilegiati anteriori e crediti posteriori.

Le questioni

Il caso portato all'attenzione della Corte di Cassazione solleva molteplici questioni, tra cui: 1) l'estensione della tutela offerta dall'art. 322-ter cod. pen. ai “terzi in buona fede”; 2) la qualificazione, o meno, della curatela fallimentare come terzo in buona fede; 3) la possibilità di assoggettare a vincolo fallimentare ex art. 42 l.fall. il bene già assoggettato a vincolo penale e gli effetti sulla sequestrabilità/confiscabilità dello stesso bene; 4) la legittimazione ad agire del curatore e la soggettività giuridica del fallimento.

I Giudici di legittimità, rilevato che l'avvento del fallimento in epoca successiva al sequestro è questione assorbente e sufficiente ad escludere la fondatezza del ricorso - mancando, cioè, qualsivoglia ragione per dubitare che i beni fossero nella disponibilità dell'indagato al momento di assoggettamento al vincolo di cautela penale - fanno uso delle questioni sollevate dal ricorrente per chiedersi, più in generale, se l'obbligatorietà sanzionatoria della confisca e del sequestro ad essa orientato (rectius: l'inderogabilità della misura cautelare reale una volta che ricorra il presupposto della confiscabilità) possa o meno prevalere sulla necessità di tutelare gli interessi pubblicistici sottesi alla procedura fallimentare, ovvero sussista il potere-dovere di procedere ad una valutazione comparativa tra le diverse esigenze e finalità.

La soluzione giuridica

Per rispondere a tale quesito, la Corte di Cassazione propone un excursus dei noti precedenti delle Sezioni Unite 24 maggio 2004, n. 29951, Focarelli e 25 settembre 2014, n. 11170, Uniland, ponendosi con la propria motivazione nel solco di quest'ultima, fino a estenderne le conclusioni oltre il perimetro del d.lgs. 231/2001.

In particolare la Suprema Corte ricorda che, pur condividendo il rilievo pubblicistico da attribuire agli interessi perseguiti dalla procedura concorsuale e, conseguentemente, la funzione pubblica ricoperta dal curatore nell'ambito dell'amministrazione della giustizia, la sentenza Uniland aveva “rettificato” gli assunti della precedente Focarelli affermando che è solo a conclusione della procedura fallimentare - autorizzato il piano di riparto e la vendita dei beni dell'attivo - che i creditori insinuati possono essere ritenuti titolari di un diritto e potranno far valere i loro conseguenti diritti di terzo estraneo al reato. Sino ad allora, invece, i creditori non potranno che essere considerati titolari di una semplice pretesa rispetto all'assegnazione del bene, non certo di un diritto reale e, conseguentemente, il curatore non potrà agire in loro rappresentanza.

La pronuncia in esame fa propri tali assunti fino ad affermare che i presupposti di tale principio di esclusione della legittimazione del curatore fallimentare a impugnare il decreto di sequestro non sono condizionati dalla tipologia di sequestro, poiché univoco è il fondamentale aspetto civilistico della questione, vale a dire la sussistenza della titolarità, non di un diritto, bensì di una mera pretesa.

Né tantomeno, a detta della Corte, è possibile giungere a conclusione diversa per il sol fatto che il sequestro ex art. 322-ter cod. pen. non fa riferimento ad un concetto di titolarità dei terzi in buona fede, ma ad un - forse più esteso - concetto di disponibilità in capo al presunto reo dei beni sequestrati per equivalente. Secondo i giudici di legittimità, infatti, pur volendo accantonare la difficoltà di riconoscere al fallimento quella stessa soggettività giuridica che gli è riconosciuta al fine dell'esercizio delle azioni di tutela in sede civile, non potrebbe comunque riconoscersi in capo alla procedura la disponibilità dei beni, posto che, in sede penale, il concetto di “disponibilità” non assume un contenuto puramente formale (che potrebbe derivare dalla mera applicazione dell'art. 42 l.fall.), ma deve assumere sostanza fattuale ed effettiva sulla scorta dell'istituto civilistico del possesso.

In altri termini, posto che la dichiarazione di fallimento e, quindi, l'applicazione dell'art. 42 l.fall., non conferisce al fallimento un reale potere sui beni che ne sono oggetto, essendo ciò escluso dal sequestro penale precedentemente disposto, difetta il requisito della disponibilità del bene e perciò la legittimità ad impugnare il vincolo penale, restando così assorbiti gli aspetti connessi al rispetto dei privilegi posti a tutela dei diritti di credito sorti anteriormente all'ablazione penale.

D'altra parte, di converso, gli stessi Giudici di legittimità notano che se il fallimento avesse la disponibilità dei beni, allora difetterebbe il presupposto dell'interesse ad agire.

Osservazioni

La sentenza, ponendosi, come detto, nel solco della pronuncia delle Sezioni Unite Uniland, ribadisce l'esistenza di un chiaro limite ai poteri del curatore, osservando che non può agire in rappresentanza dei creditori per opporsi al provvedimento ablativo, in quanto il creditore (e il curatore che lo rappresenta) che non abbia ancora ottenuto l'assegnazione del bene a conclusione del procedimento concorsuale non può in alcun modo essere considerato “terzo titolare di un diritto acquisito in buona fede” in quanto prima di tale momento conclusivo il creditore vanta una mera pretesa, ma non certo la titolarità di un diritto reale su un bene.

Ciò nondimeno, seppur incidentalmente, la sentenza pare offrire margini per una diversa conclusione nell'ipotesi in cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente intervenga in un momento successivo alla dichiarazione di fallimento, quando cioè il curatore abbia già stabilito il proprio possesso sui beni del fallito.

In proposito i Giudici di legittimità - quasi invogliando un ulteriore intervento delle Sezioni Unite, se non anche del legislatore - tornano a chiedersi quale possa essere il corretto bilanciamento tra la doverosità della confisca (e quindi del sequestro ad essa finalizzato) e le ragioni del ceto creditorio danneggiato dal fallimento, fino ad affermare che la mera constatazione dell'obbligatorietà della sanzione penale (ancora di recente affermata da Cass. pen. Sez. III 1 marzo 2016, n. 23907) potrebbe non essere di per sé sufficiente a giustificare la possibilità di trascurare del tutto gli interessi tutelati dalla procedura concorsuale.

In tale ottica, seguendo lo stesso iter argomentativo della sentenza in commento, e quindi valorizzando (ex art. 322-ter cod. pen.) l'aspetto della disponibilità dei beni appresi alla procedura fallimentare rispetto a quello della titolarità del diritto di proprietà in capo all'indagato (che è stato privato del contenuto di potere fattuale proprio dall'avvento del fallimento), dovrebbe allora concludersi che il sequestro che intervenga in fase successiva alla dichiarazione di fallimento non possa incidere sugli stessi beni appresi alla procedura.

Come infatti notato dai Giudici di legittimità, soprattutto nell'ipotesi in cui i beni soggetti a sequestro coincidano interamente o in larga parte con quelli dell'attivo fallimentare, se ne provocherebbe il suo svuotamento e la pressoché totale paralisi del fallimento medesimo che verrebbe perciò privato della sua funzione.

Tornerebbe dunque attuale, in simile ipotesi, la necessità di rimodellare i rapporti di equilibrio e controbilanciamento di valori costituzionalmente garantiti, a meno di “nullifica[re]” la tutela strutturata dal fallimento in favore di una affermazione di preminenza della sanzione penale, con l'assurdo di configurare in capo ai creditori una inaccettabile sorta di responsabilità per fatto altrui, rectius: del debitore.

Conclusioni

La decisione in commento lascia, a parere di chi scrive, ampi margini di incertezza rispetto al futuro orientamento giurisprudenziale. Se, infatti, l'obiter dictum cui si è da ultimo fatto cenno venisse inteso nel senso di escludere a priori la possibilità di eseguire il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente sui beni dell'attivo fallimentare, verrebbe negato il principio, sancito dalle Sezioni Unite Uniland, di possibile coesistenza del vincolo penale con quello richiesto dalla procedura fallimentare, seppur al netto delle difficoltà del loro coordinamento. Ciò con l'effetto di escludere la possibilità (di non poco pregio) di non dover decidere, in un unico (e forse precoce) momento, tra imposizione del sequestro/confisca e accertamento/tutela dei diritti dei creditori in buona fede.

D'altro lato, l'interpretazione del contenuto del concetto di “disponibilità” di cui all'art. 322-ter cod. pen. nel senso sostanzialistico sostenuto nella pronuncia in commento, se condiviso, lascerà ben poco margine alla possibilità di assoggettare al vincolo penale beni che, in forza di un vincolo fallimentare già concretizzatosi, rimangono solo formalmente di titolarità dell'indagato.

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