Il rinvio dell'udienza pre-fallimentare su istanza congiunta del creditore procedente e del debitore

Sergio Nadin
08 Febbraio 2017

È ammissibile ed accoglibile un'istanza di rinvio dell'udienza pre-fallimentare su istanza congiunta del creditore procedente e del debitore?

È ammissibile ed accoglibile un'istanza di rinvio dell'udienza pre-fallimentare su istanza congiunta del creditore procedente e del debitore?

È significativo rilevare, innanzitutto, come – in linea generale - non sussista nel rito civile un potere delle parti del procedimento di determinare il rinvio dell'udienza fissata dal magistrato. L'assunto, sebbene ricavabile dai principi che animano il rito stesso, trova esplicita codificazione nell'art. 127 c.p.c., ove si dispone che “l'udienza è diretta dal giudice singolo o dal presidente del collegio. Il giudice che la dirige può fare o prescrivere quanto occorre affinché la trattazione delle cause avvenga in modo ordinato e proficuo, regola la discussione, determina i punti sui quali essa deve svolgersi e la dichiara chiusa quando la ritiene sufficiente”.

Sebbene le parti non possano, dunque, disporre dei tempi del giudizio mediante un atto quale l'istanza congiunta, è vero, tuttavia, che il giudicante, nel gestire il processo secondo i principi di legge, deve tenere in debita considerazione, quand'anche favorire, la possibilità di una soluzione negoziale della controversia o, più a monte, le intenzioni delle parti in ordine al prosieguo della causa, quando queste vengano manifestate con una sola voce.

Tali essendo le regole di ordine generale che disciplinano il giudizio civile, non vi è ragione di ritenere che le stesse non siano utilizzabili nell'interpretazione del testo fallimentare.

Ora, calandosi nel contesto del fallimento, le questioni a cui il giudice potrebbe prestare attenzione si sostanziano nella possibilità per cui l'istante del fallimento e il debitore trovino la via per conciliare le esigenze di soddisfazione patrimoniale di cui è portatore il creditore e quelle di evitare una pronuncia fallimentare di cui è portatore il debitore.

Per questi motivi, in linea generale, non si ravvedono ragioni per ritenere inammissibile o non accoglibile un'istanza congiunta della parte istante e del resistente con la quale si chiedano termini per permettere al debitore di proporre ai creditori ed al Tribunale un accordo che possa determinare la cessazione dello stato di crisi.

È, tuttavia, vero che per tali decisioni è riservato al giudice un ampio spazio di discrezionalità. A questo riguardo, si deve notare come nella prassi dei tribunali si è fatto grande uso dell'istituto dell'abuso dello strumento concordatario, inteso quale utilizzo degli strumenti processuali in palese contrasto dei canoni generali di correttezza e buona fede, al fine di conseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l'ordinamento li ha predisposti (Cass. Civ., n. 9935 del 15 maggio 2015).

In questo senso, un utile riferimento può essere dato citando la sentenza n. 118 del 2012 del Tribunale di Monza, nella quale, peraltro, si dava atto dell'accoglimento di ben due rinvii – richiesti congiuntamente dai difensori – dell'udienza prefallimentare. Con tale provvedimento viene messo chiaramente in luce che “la ulteriore richiesta di rinvio/sospensione della procedura fallimentare e di concessione di un termine per il deposito del piano concordatario […] non può essere accolta. In tema di procedimento per la dichiarazione di fallimento, non sussiste un diritto del debitore, convocato davanti al giudice, ad ottenere il differimento della trattazione per consentire il ricorso a procedure concorsuali alternative, in quanto l'esercizio di tali iniziative riconducibili all'autonomia privata, dev'essere oggetto di bilanciamento, ad opera del giudice, con le esigenze di tutela degli interessi pubblicistici al cui soddisfacimento la procedura fallimentare è tuttora finalizzata” (dando continuità all'orientamento espresso nella giurisprudenza di legittimità, v. Cass. Civ. n. 19214 del 4 settembre 2009).

Diverso il caso in cui l'istanza congiunta sia dovuta alla prospettazione della desistenza del creditore procedente.

In proposito, è significativo rilevare come, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, “La domanda del creditore istante può certamente essere rinunciata, e la rinuncia, inserendosi all'interno del procedimento, assume la natura di atto processuale” (Cass. Civ., n. 21478 del 19 settembre 2013), determinando, conseguentemente, l'estinzione del processo (v. Cass. Civ., n. 4632 del 26 febbraio 2009).

Tuttavia, non pare fuori luogo evidenziare come un autorevole orientamento dottrinale, alla luce di un'interpretazione complessiva della legge fallimentare, giunge a conclusioni differenti. In questo senso, è stato affermato che se l'istruttoria fallimentare è finalizzata all'accertamento dello stato d'insolvenza del debitore (intriso di rilievo pubblicistico), allora quella disponibilità delle parti sul procedimento (tipico del processo civile) non può che scemare. In altri termini, una volta che sia stato dato (con iniziativa privata o pubblica) l'impulso al tribunale, a quest'ultimo viene conferito tutto il necessario affinché si possa pervenire ad una sentenza nel merito, ossia alla dichiarazione o meno del fallimento. Considerato, quindi, che nella disciplina del procedimento non vi sono norme che conferiscano alla parte poteri d'impulso (salvo l'atto iniziale), le pronunce che hanno riguardo ad eventi successivi alla proposizione del ricorso ed all'eventuale inattualità dell'interesse del suo autore sarebbero scarsamente coerenti con la disciplina fallimentare (cfr. Ferruccio Auletta, Il processo di fallimento, in Trattato delle procedure concorsuali, I, Alberto Jorio – Bruno Sassani, Giuffrè, 2014).

Così ragionando, l'eventuale rinuncia del creditore istante (ipoteticamente causata dal pagamento del credito che conferisce legittimazione) dovrebbe essere valutata esclusivamente nel contesto dell'accertamento in ordine ai presupposti del fallimento e, segnatamente, sotto la luce dell'art. 15 l.fall., ove si stabilisce che “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila”.

Tanto esposto, deve concludersi nel senso per cui possa considerarsi ammissibile l'istanza congiunta di rinvio dell'udienza fissata nel contesto del procedimento volto ad accertare i presupposti di fallibilità.

L'accoglimento della stessa, invece, è chiaramente sottoposto alla discrezionalità del giudice ed è, quindi, subordinato alle motivazioni che traspaiono dall'istanza stessa. Ove queste si fondino su una possibile instaurazione di una procedura negoziale di composizione della crisi, il giudice potrà accogliere la richiesta ove non ravveda fattispecie di abuso dello strumento processuale. Nei casi in cui, invece, rilevi la desistenza del creditore procedente – a parere di chi scrive – la pronuncia di accoglimento o di rigetto della richiesta di rinvio è subordinata alla valenza processuale, appunto, della dichiarazione di desistenza del creditore. Dal momento che, seguendo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, la rinuncia del creditore determina una carenza di una condizione dell'azione, il giudice, valorizzando il principio di economia processuale, potrà concedere un rinvio al fine di permettere lo stabilizzarsi dell'atteggiamento del creditore procedente. Ove, invece, si volessero apprezzare gli interessi pubblicistici della procedura, l'accoglimento della richiesta del rinvio sarà condizionata dall'atteggiarsi del credito rispetto alla totalità del passivo.

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