Crisi dei fondi comuni di investimento: gli strumenti per il superamento

13 Febbraio 2017

Il tema dell'applicabilità degli strumenti di composizione negoziale della crisi d'impresa ai fondi comuni di investimento, viene affrontato dal Tribunale di Milano che, con due decreti resi a circa un anno di distanza l'uno dall'altro, ha affermato l'ammissibilità del ricorso agli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall.
Premessa

Il Tribunale di Milano, con due decreti resi a circa un anno di distanza l'uno dall'altro, ha affermato l'ammissibilità del ricorso agli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. ai fini del superamento della crisi dei fondi comuni di investimento.

L'Autore svolge una analisi critica delle motivazioni poste a fondamento delle decisioni del Tribunale di Milano ed esamina i potenziali benefici derivanti dal ricorso a tale strumento nonché ai piani di risanamento attestati ex art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. in funzione del superamento della crisi del fondo, con particolare riguardo all'ipotesi di successiva liquidazione giudiziale del fondo ad esito dell'insuccesso dell'operazione di risanamento.

Ammissibilità del ricorso agli accordi di ristrutturazione dei debiti e ai piani di risanamento attestati

Alla data odierna, risultano editi due soli precedenti giurisprudenziali che affrontano il tema dell'applicabilità degli strumenti di composizione negoziale della crisi d'impresa ai fondi comuni di investimento. Si tratta dei decreti resi dal Tribunale di Milano il 3.12.2015 e il 10.11.2016 in relazione ad due ricorsi presentati da una società di gestione del risparmio (“SGR”) nell'interesse di un fondo comune di investimento da essa gestito al fine di ottenere, rispettivamente (i) la sospensione delle azioni cautelari ed esecutive ex art. 182-bis, comma 6, l. fall. nei confronti del fondo e (ii) l'omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. stipulato con i creditori del fondo.

Con il decreto del 3.12.2015, il Tribunale di Milano:

  • ha accertato (i) “la qualità imprenditoriale (…) [del]la società ricorrente”, e cioè della SGR (presupposto soggettivo) e (ii) “il suo [i.e. della SGR n.d.r.] stato di crisi, derivante dalla crisi del fondo immobiliare” (presupposto oggettivo); e
  • ha disposto “nei confronti e a beneficio del Fondo (…) gestito dalla SGR (…) il divieto per i creditori e per i terzi di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sui suoi beni o di acquisire titoli di prelazione se non concordati”, con contestuale assegnazione di un termine “per il deposito dell'accordo di ristrutturazione” che avrebbe dovuto riguardare i soli debiti del fondo (e non i debiti della SGR).

Il Tribunale di Milano ha quindi ritenuto ammissibile il ricorso da parte di una SGR allo strumento degli accordi di ristrutturazione dei debiti nell'interesse del fondo da essa gestito e in funzione del superamento della crisi di quest'ultimo, in un caso in cui la SGR (che è pacificamente qualificabile come “imprenditore”) (i) versava essa stessa in stato di crisi e (ii) tale stato di crisi derivava dalla crisi del fondo da essa gestito. Principio, questo, che parrebbe estensibile anche ai “piani attestati” di cui all'art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. atteso che, secondo la dottrina maggioritaria, il ricorso a tale strumento, al pari degli accordi di ristrutturazione, sarebbe ammissibile da parte del solo imprenditore in stato di crisi (ex multis, Munari, Crisi di impresa e autonomia contrattuale nei piani attestati e negli accordi di ristrutturazione, Milano, 2012, 138 ss.).

Il decreto del Tribunale di Milano del 3.12.2015 lasciava tuttavia aperto l'interrogativo se il ricorso agli strumenti di composizione della crisi di cui sopra sia possibile anche nell'ipotesi in cui a versare in stato di crisi sia solo il fondo comune di investimento e non la SGR che lo gestisce (sul punto si veda Grigò, Accordi di ristrutturazione dei debiti e fondi comuni di investimento: una possibile “diversa” lettura?, in Fall, 2016).

La questione è stata affrontata dal Tribunale di Milano nel successivo decreto del 10.11.2016, relativo alla medesima operazione di ristrutturazione. Con tale decreto il Tribunale ha omologato l'accordo di ristrutturazione concluso dalla SGR (nell'interesse del fondo comune di investimento da essa gestito) con i creditori del fondo, statuendo “la possibilità per un fondo chiuso di investimento di avvalersi dello strumento di cui all'art. 182-bis l.fall.”. Ciò, sulla base delle seguenti argomentazioni:

a) in primo luogo, il fondo comune di investimento sarebbe dotato di “soggettività giuridica autonoma”, dal che “deriv[erebbe] logicamente la possibilità di trattare il fondo chiuso come soggetto la cui crisi può essere risolta mediante l'accordo di ristrutturazione”. Più in particolare, il Tribunale di Milano ha motivato tale tesi richiamando gli argomenti già espressi dallo stesso Tribunale in una precedente sentenza (Trib. Milano, 10.6.2016), la quale ha affermato la “autonomia patrimoniale - dunque [la] capacità di essere titolare di diritti sostanziali e processuali - [de]i fondi comuni di investimento”, sul rilievo che:

(i) l'art. 32.1, lett. b), D.L. 31.5.2010, n. 78 ha inserito “nel cruciale comma 6 dell'art. 36 T.U.F.” il periodo: “delle obbligazioni contratte per suo conto, il fondo comune di investimento risponde con il proprio patrimonio”, il che confermerebbe che “il patrimonio è “proprio” del fondo, non dunque della SGR”;

(ii) la “Legge di Stabilità 2012” ha introdotto la possibilità di “conferire o trasferire beni immobili dello Stato (…) ad uno o più fondi di investimento immobiliare” nonché il potere dei “fondi istituiti dalla società di gestione del risparmio del Ministero dell'economia e delle finanze [di] acquistare beni immobili”; e

(iii) con l'introduzione dell'art. 57, comma 6-bis, T.U.F. sarebbe stata “prev[ista] la possibilità che i fondi comuni di investimento siano ammessi alla procedura di liquidazione coatta amministrativa indipendentemente dalla SGR che li gestisce”;

b) in secondo luogo, prosegue il decreto del 10.11.2016, quand'anche si ritenesse che il fondo non sia munito di soggettività giuridica autonoma, l'art. 57, comma 6-bis, T.U.F., “nell'ammettere il fondo (e non la sola SGR) alla procedura di liquidazione coatta amministrativa (…) apr[irebbe] nettamente lo scenario di un impiego - sempre per il solo fondo (e al di là della sua autonomia soggettiva) - di strumenti alternativi di soluzione della crisi, senza che si debba affermare in alcun modo come presupposto necessario lo stato di crisi della SGR medesima”.

Le argomentazioni poste a fondamento del decisum del Tribunale di Milano del 10.11.2016 (si è detto, in parte mutuate dalla sentenza del medesimo tribunale del 10.6.2016) prestano il fianco a talune significative critiche e, ad avviso di chi scrive, non appaiono idonee (i) a sovvertire l'orientamento - già espresso dalla Suprema Corte (v. Cass., 20.5.2013, n. 12187, e Cass., 15.7.2010, n. 16605) - che nega in capo ai fondi comuni di investimento la sussistenza di tale soggettività, né, in ogni caso, (ii) a dirimere definitivamente la questione circa l'ammissibilità del ricorso agli strumenti di composizione negoziale della crisi nell'interesse di un fondo comune di investimento in assenza di uno stato di crisi della SGR. Ed infatti:

  • quanto all'argomento sub “a)(i)”, è sufficiente rilevare come l'art. 36 T.U.F. - nel testo oggi vigente (quale sostituito dall'art. 4 del D.Lgs. n. 44 del 4.3.2014) - esprima un principio diametralmente opposto rispetto a quello affermato dal Tribunale di Milano nella sentenza del 10.6.2016. L'attuale art. 36, comma 4, T.U.F. prevede infatti che “delle obbligazioni contratte per conto del fondo, la Sgr [e non, come nel precedente testo, “il fondo” n.d.r.] risponde esclusivamente con il patrimonio del fondo medesimo”. Formulazione, questa, che ha portato alcuni autori a ritenere che la titolarità delle obbligazioni contratte per conto del fondo resti in capo alla SGR, la quale risponde con il patrimonio costituito dal fondo, senza con ciò postulare la “appartenenza” al fondo di alcun patrimonio (sul punto si veda Ferri Jr, Soggettività giuridica e autonomia patrimoniale dei fondi comuni di investimento, in Orizzonti del diritto commerciale - Rivista telematica, 2015);
  • quanto all'argomento sub “a)(ii)”, lo stesso Tribunale di Milano, nella pronuncia del 10.6.2016, riconosce che la “Legge di Stabilità 2012”, “menzionando i fondi (…) usi una sineddoche che preterisce la SGR”, così riferendosi implicitamente anche a quest'ultima;
  • quanto all'argomento sub “a)(iii)” - ma tale considerazione vale a destituire di fondamento l'ulteriore argomento sub “b)” - l'art. 57, comma 6-bis, T.U.F., non prevede l'assoggettabilità del fondo comune di investimento alla procedura di l.c.a. indipendentemente dalla SGR che lo gestisce, bensì dispone che nell'ipotesi di crisi del solo fondo questo possa essere assoggettato - in presenza degli altri presupposti indicati dalla norma - ad una procedura di liquidazione giudiziale. Procedura, questa, caratterizzata da regole sue proprie e che si distingue profondamente dalla procedura di l.c.a. a cui può essere assoggettata la SGR.

Fermo quanto sopra, ciò che rischia di inficiare maggiormente la “tenuta” delle argomentazioni espresse dal Tribunale di Milano nel decreto del 10.11.2016 è l'assenza di qualsiasi accertamento in merito alla sussistenza in capo al fondo del presupposto soggettivo per l'accesso agli strumenti di composizione negoziale della crisi, e cioè della qualità di imprenditore. Accertamento, questo, che sarebbe stato quantomeno necessario laddove si consideri che:

  • la dottrina è concorde nel ritenere che il fondo - a differenza della SGR che lo gestisce - non sia un imprenditore (cfr. Ferri Jr, Soggettività giuridica e autonomia patrimoniale dei fondi comuni di investimento, cit.);
  • lo stesso Tribunale di Milano, nel decreto del 3.12.2015, ha accolto l'istanza ex art. 182-bis, comma 6, l. fall. dopo aver accertato la sussistenza del presupposto soggettivo costituito “[dal]la qualità imprenditoriale (…) [del]la società ricorrente”, e cioè dopo aver accertato la qualità imprenditoriale della SGR (non del fondo).

Residua pertanto il dubbio se il Tribunale di Milano abbia accolto il ricorso presentato dalla SGR (nell'interesse del fondo) ai fini dell'omologa dell'accordo di ristrutturazione di quest'ultimo in quanto abbia (quantomeno implicitamente):

  • accertato la sussistenza dei presupposti oggettivo (stato di crisi) e soggettivo (qualità di imprenditore) in capo al fondo in sé considerato; oppure
  • accertato (i) la sussistenza del presupposto oggettivo (stato di crisi) in capo al fondoe (ii) la sussistenza del presupposto soggettivo (qualità di imprenditore) in capo alla SGR che gestisce il fondo.

Se la tesi secondo cui il fondo sia qualificabile come imprenditore non appare, ad avviso di chi scrive, meritevole di essere condivisa (stante l'assenza di soggettività giuridica del fondo), non pare possa escludersi in toto l'ipotesi secondo cui il fondo - ancorché non imprenditore - potrebbe comunque “mutuare” tale qualità dalla SGR che lo gestisce, sia pure ai (soli) fini del ricorso agli strumenti di composizione negoziale della crisi. A voler seguire tale ipotesi interpretativa (che, si ripete, il Tribunale di Milano non ha espressamente affermato e che, in ogni caso, meriterebbe ulteriore approfondimento), la sussistenza dei presupposti oggettivo e soggettivo andrebbe accertata considerando il fondo e la SGR come un unicum, da cui l'ammissibilità del ricorso agli accordi di ristrutturazione dei debiti e ai piani di risanamento attestati in funzione del superamento della crisi del fondo anche in assenza di uno stato di crisi della SGR.

I potenziali benefici derivanti dal ricorso ai piani di risanamento attestati e agli accordi di ristrutturazione dei debiti

Nell'ipotesi in cui si ritenesse che il superamento della crisi del fondo (in assenza di uno stato di crisi della SGR che lo gestisce) possa aver luogo attraverso il ricorso ai piani di risanamento attestati ovvero agli accordi di ristrutturazione dei debiti, resta da chiedersi se il ricorso a tali strumenti assicuri ai soggetti coinvolti nell'operazione di risanamento alcun potenziale beneficio, con particolare riguardo all'ipotesi in cui l'operazione non avesse buon esito e il fondo fosse successivamente assoggettato a liquidazione giudiziale ex art. 57, comma 6-bis, T.U.F.

Per quanto concerne il beneficio costituito dall'esenzione da revocatoria fallimentare per gli atti posti in essere in esecuzione del piano di risanamento attestato ovvero dell'accordo di ristrutturazione omologato, tali atti sarebbero in ogni caso immuni da revocatoria fallimentare nell'ambito di un'eventuale procedura di liquidazione giudiziale del fondo. Le norme sulla revocatoria fallimentare non sono, infatti, richiamate dalle norme che disciplinano la liquidazione dei fondi comuni di investimento e, conseguentemente, non potrebbero trovare applicazione nel caso in cui il fondo venisse assoggettato a tale procedura (cfr. Parziale, Il Tribunale di Milano estende la disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti al Fondo comune di investimento: la fine di una stagione di certezze?, in www.fchub.it, 2015).

Quanto al beneficio costituito dall'esenzione dai reati di bancarotta, le norme penali in materia di bancarotta preferenziale e semplice (artt. 216, comma 3, e 217 l. fall.) non potrebbero trovare applicazione in caso di liquidazione giudiziale del fondo, atteso che, al pari delle norme in materia di revocatoria fallimentare, le predette norme penali non sono richiamate dalle norme che disciplinano la liquidazione dei fondi comuni di investimento e, in aggiunta, sono pacificamente insuscettibili di applicazione analogica e/o estensiva stante il divieto previsto dall'art. 14 delle Preleggi.

Ebbene, considerato che le esenzioni da revocatoria fallimentare e dai reati di bancarotta costituiscono gli unici benefici sostanziali derivanti dal ricorso ai piani di risanamento attestati, appare ragionevole ritenere che il ricorso a questi ultimi non sia idoneo ad assicurare benefici ulteriori rispetto a quelli di cui i soggetti coinvolti potrebbero comunque godere qualora essa fosse attuata senza fare ricorso a tale strumento di composizione della crisi.

Ciò posto, occorre stabilire se debba giungersi a conclusioni diverse qualora il superamento della crisi del fondo fosse perseguito attraverso la stipula e successiva omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, attesi gli ulteriori effetti protettivi/benefici derivanti dall'utilizzo di tale strumento.

Per quanto concerne i benefici derivanti dall'inapplicabilità delle norme in materia di riduzione obbligatoria del capitale sociale e dall'inoperatività della causa di scioglimento per riduzione o perdita del capitale sociale previste dall'art. 182-sexies l. fall., l'utilizzo dello strumento in questione non comporterebbe alcun beneficio posto che le norme sopra citate non sono applicabili ai fondi comuni di investimento (che non sono società di capitali).

Ragioni di opportunità nel ricorso ad un accordo di ristrutturazione dei debiti potrebbero risiedere nella possibilità di fruire degli ulteriori benefici/effetti protettivi consistenti:

a) nel divieto per i creditori di esercitare azioni cautelari ed esecutive e di acquisire titoli di prelazione non concordati sul patrimonio costituito dal fondo, se del caso già nella fase delle trattative prodromiche alla stipula dell'accordo ai sensi dell'art. 182-bis, comma 6, l. fall.;

b) nel riconoscimento del beneficio della prededuzione per i crediti derivanti dall'erogazione di “nuova finanza” ai sensi degli artt. 182-quater e quinquies l. fall.; e, infine

c) nella possibilità di beneficiare dei particolari effetti di cui all'art. 182-septies l. fall. e, alle condizioni ivi previste, estendere l'efficacia dell'accordo di ristrutturazione agli istituti finanziatori non aderenti, specie nell'ipotesi in cui risultasse difficile, se non impossibile, procedere al pagamento integrale di tali creditori nei brevi termini previsti dall'art. 182-bis, comma 1, l. fall.

In conclusione

I precedenti giurisprudenziali costituiti dai decreti del Tribunale di Milano del 3.12.2015 e del 10.11.2016, se da un lato consentono di affermare la legittimità del ricorso ai piani di risanamento attestati ex art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. e agli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. nell'interesse del fondo comune di investimento in presenza di uno stato di crisi riferibile sia al fondo, sia alla SGR che lo gestisce, dall'altro lato lasciano aperta la questione circa sulla praticabilità di tale soluzione nel diverso scenario di crisi del solo fondo che non coinvolga la SGR.

Nell'ipotesi in cui si desse soluzione positiva a tale questione, se appare ragionevole ritenere che il superamento della crisi del fondo attraverso un piano attestato ex art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. non assicuri ai soggetti coinvolti nell'operazione sostanziali benefici, specialmente nell'ipotesi di eventuale successiva liquidazione giudiziale del fondo, si ritiene che il ricorso ad un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. possa rendersi opportuno ogni qualvolta sussistano esigenze legate (i) al rischio di esperimento di azioni individuali da parte dei creditori particolari del fondo, (ii) alla disponibilità di “nuova finanza” (laddove si intenda attribuire rango prededucibile ai crediti per la restituzione della stessa) e/o (iii) all'esistenza di creditori finanziari non aderenti (qualora si intenda estendere ai medesimi gli effetti obbligatori dell'accordo di ristrutturazione omologato).

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