Fatture materialmente false al fine di evadere le imposte: inquadramento ed effetti

29 Marzo 2017

S'intende esaminare sotto il profilo giuridico – perché comunque rilevante anche nell'ambito concorsuale - la condotta dell'imprenditore commerciale che falsifichi o crei ex novo fatture di acquisto apparentemente provenienti da imprese terze e le utilizzi indicando così in una dichiarazione sui redditi o sul valore aggiunto elementi passivi fittizi al fine di evadere le imposte.
Premessa

S'intende esaminare sotto il profilo giuridico – perché comunque rilevante anche nell'ambito concorsuale - la condotta dell'imprenditore commerciale che falsifichi o crei ex novo fatture di acquisto apparentemente provenienti da imprese terze e le utilizzi indicando così in una dichiarazione sui redditi o sul valore aggiunto elementi passivi fittizi al fine di evadere le imposte.

Più in particolare, in principio si ripercorrerà sommariamente la posizione assunta dalla Giurisprudenza in ordine all'individuazione della fattispecie tipica astrattamente commessa dall'agente a mezzo del compimento della condotta sopradescritta.

Quindi, si esamineranno le relative conseguenze dal punto di vista sanzionatorio e cautelare.

Infine, si descriveranno gli effetti derivanti dal tempestivo pagamento, da parte del reo, del debito tributario derivante dalla commissione del reato.

Normativa rilevante

La condotta sopra descritta potrebbe essere astrattamente sussumibile in una delle seguenti norme incriminatrici:

  • Art. 2, D.Lgs. n. 74/2000, rubricato: “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, il quale dispone quanto segue: “E' punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria”;
  • art. 3, D.Lgs. cit., rubricato: “Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”, il quale, nella parte di interesse, dispone quanto segue: “Fuori dai casi previsti dall'articolo 2, è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente: a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro trentamila; b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l'ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell'imposta, è superiore al cinque per cento dell'ammontare dell'imposta medesima o comunque a euro trentamila”.

Come si vede, la cornice edittale descritta dalle norme appena citate è identica (da un anno a sei mesi a sei anni di reclusione).

La differenza rilevante tra le due fattispecie consiste nella soglia di punibilità prevista dall'art. 3, commisurata all'entità dell'evasione.

Inquadramento della fattispecie

All'indomani dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 74/2000, la Giurisprudenza maggioritaria riteneva che la creazione ex novo e successiva utilizzazione a fini fiscali di fatture false dovesse ricondursi alla fattispecie di cui al sopracitato art. 3, con conseguente applicazione della soglia di punibilità ivi prevista.

Si argomentava in proposito che l'art. 2 D.Lgs. cit. riguardasse unicamente le falsità ideologiche e che pertanto “un'interpretazione dell'art. 2 che vi includesse le falsità materiali sarebbe di natura analogica (non estensiva) e quindi vietata” (Cass. pen., Sez. III, n. 30896/2001; in senso conforme, tra le altre: Cass. pen., Sez. I, n. 32493/2004; Cass. pen., Sez. III, n. 12720/2007; Cass. pen., Sez. III, n. 12703/2008).

Si ha falsità ideologica quando la fattura “è vera, ma ha un contenuto falso” (Cass. pen., Sez. III, n. 48486/2011). Per aversi falsità ideologica è quindi necessario che la fattura venga formata dal soggetto effettivamente autorizzato ad emetterla. La falsità atterrebbe quindi all'identità dell'acquirente o all'importo indicato. In tal caso, l'utilizzatore sarebbe responsabile del delitto di cui al predetto art. 2, avendo fatto “uso” della fattura ideologicamente falsa; l'emittente dovrebbe invece rispondere del delitto di cui al successivo art. 8, D.Lgs. cit., rubricato: “Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”.

Viceversa, la fattura è falsa dal punto di vista materiale quando viene contraffatta dallo stesso utilizzatore, e cioè è “emessa all'insaputa delle imprese che apparentemente ne risultano emittenti” (cfr., ibid.), che è proprio il caso oggetto del presente studio. Tale condotta ricadrebbe quindi tra gli “altri raggiri” di cui all'art. 3, cit., fattispecie quest'ultima “espressamente prevista dallo stesso Legislatore come residuale rispetto a quella del precedente art. 2” (Cass. pen., Sez. III, n. 38544/2015).

L'opinione della Giurisprudenza è tuttavia mutata nel corso del tempo e, ad oggi, costituisce dato pacifico che anche le falsità materiali (oltre a quelle ideologiche) integrino il delitto di cui all'art. 2 cit., essendo esso “applicabile ad entrambe le categorie di falso, ideologico e materiale, e dunque anche nell'ipotesi di formazione della fattura materialmente falsa da parte dello stesso utilizzatore, risultando irrilevante l'autore della contraffazione” (Cass. pen., Sez. III, n. 5703/2016).

In proposito, si argomenta che:

a) la frode di cui all'art. 2 si distingue da quella sanzionata dal successivo art. 3 non per la natura del falso, ideologico o materiale, ma “per il rapporto di specialità reciproca esistente tra le due disposizioni: ad un nucleo comune, costituito dalla dichiarazione infedele, si aggiungono, in chiave specializzante, nell'art. 2, l'utilizzazione di fatture e documenti equiparabili relativi ad operazioni inesistenti e, nell'art. 3, la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie congiunta con l'utilizzo di mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento e la previsione di una soglia minima di punibilità” (ibid.). L'art. 3 cit. disegna quindi una “frode contabile a cui deve associarsi un quid pluris artificioso non tipizzato (diverso dall'uso di fatture o altri documenti falsi), ma comunque caratterizzato dalla idoneità ad indurre in errore” (Cass. pen., Sez. III, n. 10987/2012) e si applicherà quindi, ad esempio, in caso di “tenuta di una parallela contabilità nera, vendita a nero organizzata in locali attigui a quelli aziendali” etc. (ibid.);

b) l'art. 2, cit. presenta una “struttura bifasica”, in cui la dichiarazione, “quale momento conclusivo, dà vita a un falso contenutistico”, mentre la condotta preparatoria, “cioè la registrazione o detenzione a fini di prova di documenti che costituiranno il supporto alla dichiarazione, può avere ad oggetto sia documenti contenutisticamente falsi emessi da altri in favore dell'utilizzatore, sia documenti materialmente falsi, cioè contraffatti o alterati (anche dallo stesso utilizzatore del documento” (Cass. pen., Sez. III, n. 5703/2016);

c) non ha “fondamento razionale” l'affermazione secondo la quale non sarebbe integrata la condotta di cui all'art. 2 cit. “quando i soggetti che appaiono emittenti del documento siano inesistenti” o non abbiano in realtà formato la fattura: infatti, “anche in tal modo, il contribuente fa apparire di avere speso somme in realtà non sborsate e pone così in essere una lesione del bene giuridico protetto, costituito dal patrimonio erariale” (ibid.);

d) nessun “elemento di significato contrario” può trarsi dalla “prospettata correlazione” tra la fattispecie di cui all'art. 2 cit. e “la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 8, D.Lgs. n. 74/2000”, che, come si è visto sopra, punisce il soggetto che emette la falsa fattura (ovviamente, in caso di falso ideologico), perché il delitto di cui all'art. 2 cit. “è posto a tutela dell'interesse patrimoniale dello Stato a riscuotere ciò che è fiscalmente dovuto e nei limiti in cui è dovuto, mentre nel reato di cui all'art. 8 oggetto della tutela appare piuttosto la funzione di accertamento del tributo”. Pertanto, “non trova alcun supporto normativo l'affermazione secondo la quale la fattispecie descritta e sanzionata dall'art. 2 sarebbe connessa a una specifica violazione consistente nella trasgressione dei propri obblighi da parte del soggetto autorizzato ad emettere documentazione avente rilievo probatorio ai fini tributari” (Cass. pen., Sez. III, n. 10987/2012). Occorre infatti evidenziare al riguardo che l'art. 2 cit. “non presuppone che il documento utilizzabile debba necessariamente essere emesso a favore dell'utilizzatore da un terzo, giacchè si avvale di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sia chi li riceve da terzi compiacenti, sia chi li crea ex novo facendo apparire di averli ricevuti da terzi” (Cass. pen., Sez. III, n. 12284/2007);

e) già nel contesto della previgente legge (n. 582/1982, art. 4), erano soggette ad identico regime sanzionatorio sia le falsità ideologiche che quelle materiali e, d'altra parte, la legge-delega (art. 9, comma 2, lett. b, L. n. 205/1999), che ha conferito al Governo i poteri per l'emanazione del D.Lgs. n. 74/2000, “non ha autorizzato alcuna modifica di dette previsioni incriminatrici” (Cass. pen., Sez. III, n. 10987/2012);

f) sul piano sistematico, “non può razionalmente considerarsi sussistente una maggiore pericolosità in sé del falso contenutistico rispetto al falso materiale” (Cass. pen., Sez. III, n. 10987/2012) e non sarebbe quindi giustificabile che solo il secondo potesse godere della soglia di non punibilità prevista dall'art. 3 cit.

Oltre a quelle già citate, si segnalano tra le tante, a titolo esemplificativo, ulteriori pronunce in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, n. 50628/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 18698/2014; Cass. pen., Sez. Feriale, n. 35729/2013; Cass. pen., Sez. III, n. 27329/2012; Cass. pen., Sez. III, n. 2168/2011; Cass. pen., Sez. III, n. 2156/2011; Cass. pen., Sez. III, n. 9673/2011.

Quindi, la condotta posta in essere dall'imprenditore commerciale che falsifichi materialmente fatture d'acquisto e le utilizzi nelle dichiarazioni fiscali al fine di evadere le imposte è penalmente rilevante e può astrattamente configurare la fattispecie tipica di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000.

Conseguenze sanzionatorie e misure cautelari

Si è visto sopra che il reato di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

I criteri per la commisurazione in concreto della pena all'interno della cornice edittale così descritta sono quelli di cui all'art. 133 c.p., a mente del quale, nell'esercizio del proprio potere discrezionale […], il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere, desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in generale, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”.

Per il reato in questione è ammessa la custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 280, comma 2, c.p.p., a tenore del quale, “la custodia cautelare in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni”.

Ai sensi dell'art. 274 c.p.p., le misure custodiali possono essere adottate in presenza di gravi indizi di colpevolezza e, alternativamente, di uno dei seguenti elementi: a) pericolo di fuga; b) pericolo di inquinamento probatorio; c) pericolo di reiterazione del reato.

Per il reato in questione è altresì ammissibile l'utilizzo di intercettazioni telefoniche e ambientali ai sensi dell'art. 266, comma 1, lett. a), c.p.p., a tenore del quale “l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione è consentita nei procedimenti relativi ai [...] delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni”.

E' altresì ammissibile l'adozione, in via cautelare o quale pena accessoria, di misure interdittive ai sensi dell'art. 287 c.p.p., secondo il quale, “salvo quanto previsto da disposizioni particolari, le misure previste in questo capo possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni”. Assume particolare rilievo nel caso che ci occupa la misura interdittiva costituita dal divieto temporaneo di esercitare attività professionali o imprenditoriali ai sensi dell'art. 290 c.p.p., comma 1, il quale dispone: “con il provvedimento che dispone il divieto di esercitare determinate professioni, imprese o uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, il giudice interdice temporaneamente all'imputato, in tutto o in parte, le attività a essi inerenti”.

L'art. 12 D.Lgs. n. 74/2000 disciplina le pene accessorie conseguenti alla condanna per uno dei delitti previsti dal decreto e dispone che “la condanna per uno dei delitti previsti nel presente decreto comporta: a) l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni; b) l'incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione per un periodo non inferiore a un anno e non superiore a tre anni; […] e) la pubblicazione della sentenza a norma dell'art. 36 c.p.”.

A mente del comma 2 del predetto articolo, inoltre, “la condanna per taluno dei delitti previsti dagli artt. 2, 3 e 8 importa altresì l'interdizione dai pubblici uffici per un periodo non inferiore a un anno e non superiore a tre anni”.

Il comma 2-bis del predetto articolo impone altresì limitazioni alla possibilità di concessione della sospensione condizionale della pena in caso di commissione (per quel che qui interessa) del reato di cui all'art. 2, ove l'ammontare dell'imposta evasa sia particolarmente rilevante.

L'art. 12-bis D.Lgs. cit. disciplina il regime della confisca obbligatoria da applicarsi in caso di commissione di uno dei reati previsti dal decreto e dispone che è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il prezzo o il profitto del reato. Secondo consolidata giurisprudenza, il profitto del reato può consistere anche in un risparmio di spesa. La confisca può essere disposta anche “per equivalente”, e cioè può avere ad oggetto qualunque bene di cui il reo abbia la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato. Già in sede di indagini preliminari, il giudice potrà emettere in via cautelare provvedimento di sequestro preventivo ai fini della confisca, anche per equivalente.

Si segnala che non è applicabile alla fattispecie di cui all'art. 2 cit. la causa di non punibilità prevista dall'art. 13 D.Lgs. cit. in caso di integrale pagamento del debito tributario (comprensivo di sanzioni e interessi) prima dell'apertura del dibattimento. Pertanto, il pagamento dell'intero debito tributario non costituisce causa esimente del reato in esame.

Effetti del pagamento tempestivo del debito tributario e sue conseguenze favorevoli per il reo

Assume particolare rilevanza ai fini che ci occupano la circostanza attenuante a effetto speciale descritta dall'art. 13-bis D.Lgs. cit.

A mente di tale disposizione, la pena è diminuita fino alla metà e non si applicano le pene accessorie di cui al predetto art. 12 nel caso di integrale pagamento del debito tributario (comprensivo di sanzioni e interessi) prima dell'apertura del dibattimento.

L'integrale pagamento del debito costituisce altresì, ai sensi dell'art. 13-bis, comma 2, D.Lgs. cit., requisito indispensabile per la possibilità di richiedere l'applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell'art. 444 c.p.p., il quale prevede una diminuzione fino a un terzo sull'entità della pena risultante dall'accordo tra il reo e il Pubblico Ministero. Si segnala tuttavia che il c.d. patteggiamento potrà avere luogo solo ove la pena da irrogarsi in concreto, tenuto conto delle circostanze, non sia superiore a cinque anni di reclusione.

Concludendo, si deve quindi ritenere che il tempestivo e integrale pagamento del debito tributario costituisca elemento di fondamentale rilevanza, che:

a) potrà dar luogo a sostanziali riduzioni della pena principale;

b) potrà costituire mezzo efficace per scongiurare l'eventualità di emissione di provvedimenti cautelari personali;

c) potrà evitare l'irrogazione delle pene accessorie di cui all'art. 12, D.Lgs. cit.;

d) potrà evitare il sequestro preventivo e la successiva confisca, diretta o per equivalente;

e) potrà permettere l'accesso all'istituto del patteggiamento.

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