La domanda di liquidazione dei beni è irrinunciabile

19 Aprile 2017

Il debitore che abbia chiesto e ottenuto l'apertura del procedimento di liquidazione dei suoi beni ai sensi degli artt. 14-ter ss. della L. n. 3/2012 non può rinunciare alla domanda proposta.
Massima

Il debitore che abbia chiesto e ottenuto l'apertura del procedimento di liquidazione dei suoi beni ai sensi degli artt. 14-ter e seguenti della L. n. 3/2012 non può rinunciare alla domanda proposta.

Il caso

Il Tribunale di Venezia rigetta la richiesta del debitore di poter rinunciare al procedimento di liquidazione dei propri beni presentata ai sensi degli artt. 14-ter e ss. nell'ambito della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento.

Nel caso di specie due debitori (che, peraltro, erano comproprietari di un bene immobile) avevano presentato un'unica domanda di liquidazione del patrimonio. E ciò– in base a quel che emerge dal provvedimento – anche in considerazione della possibilità che nel procedimento di liquidazione dei beni sarebbe possibile la vendita dei beni già pignorati fuori dal procedimento esecutivo con maggiore convenienza sia per il debitore che per i creditori.

Ed infatti il prezzo di vendita del bene immobile già oggetto di pignoramento era stato fissato in Euro 193.600, mentre il prezzo che i debitori avrebbero potuto ottenere vendendolo a prezzo di mercato sarebbe stato Euro 293.000 (come risultante da un contratto preliminare).

La rinuncia presentata dal debitore

Orbene, una volta chiesta ed ottenuta da parte di entrambi i debitori la liquidazione dei propri beni per il soddisfacimento dei rispettivi creditori e, quindi, aperta la procedura di liquidazione, uno dei due debitori depositava istanza di rinuncia alla procedura.

Rinuncia alla quale non si opponeva l'altro debitore che manifestava, infatti, la propria volontà di proseguire nella procedura con riferimento ai propri debiti e al proprio attivo.

Per il debitore instante la rinuncia era possibile sul presupposto che le soluzioni di composizione della crisi da sovraindebitamento sono promuovibili solo su impulso di parte e, quindi, venendo a mancare un presupposto fondamentale della procedura quale la volontà dell'instante, il giudice avrebbe dovuto disporre la chiusura della liquidazione con riferimento ai suoi beni e debiti.

E ciò anche sul richiamo analogico – sempre secondo la difesa dell'instante – alle norme sul concordato preventivo, ove la rinuncia rientrerebbe nell' esclusiva disponibilità del debitore.

Apertura della liquidazione dei beni

Senonché, per il Tribunale di Venezia, l'istanza di rinuncia non può essere che rigettata.

In primo luogo il Tribunale svolge una precisazione terminologica in riferimento all'apertura della procedura (e alla produzione degli effetti protettivi per il patrimonio).

La norma di riferimento è l'art. 14-quinquies, comma 2, lett. b), ove è previsto che con il decreto di apertura della procedura il giudice "dispone che sino al momento in cui il provvedimento di omologazione diviene definitivo, non possono, sotto pena di nullità, essere iniziate o proseguite azioni cautelari o esecutive né acquistati diritti di prelazione sul patrimonio oggetto di liquidazione da parte dei creditori aventi titolo o causa anteriore".

Ebbene, secondo il Tribunale, nonostante il riferimento che il legislatore ha fatto al decreto di omologazione (sicuramente presente nel piano del consumatore e nell'accordo di composizione della crisi), quell'espressione (e, cioè, decreto di omologazione) deve "essere riferita al provvedimento di chiusura della liquidazione ex art. 14-novies posto che nella procedura ex art. 14-ter non è prevista alcuna fase di omologa".

In secondo luogo, il Tribunale affronta la questione e, cioè, la rinunciabilità della domanda di liquidazione dei beni in corso di procedura (ossia dopo il decreto di apertura) concludendo, però, negativamente.

Ed infatti, per il Tribunale, "delle procedure disciplinate dalla L. n. 3/2012 sono l'accordo del debitore ed il piano del consumatore a presentare affinità con il concordato, mentre la liquidazione dei beni è più vicina alla procedura fallimentare".

Analogia con il fallimento

L'analogia con il fallimento (pur con le dovute differenze) risulterebbe, principalmente, dai seguenti dati normativi: (a) "con il decreto si determina una forma di spossessamento del debitore (ancorché attenuato e ridotto rispetto a quanto accade con il fallimento)"; (b) "il liquidatore nominato ha l'amministrazione dei beni che compongono il patrimonio di liquidazione ed esercita ogni azione prevista dalla legge finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio da liquidare"; (c) "il passivo della procedura viene determinato attraverso un vero e proprio sub-procedimento di accertamento del passivo, modellato sulla disciplina prevista per il fallimento, ma affidato al liquidatore, cui compete la formazione dello stato passivo definitivo essendo riservata al Giudice soltanto la decisione sulle contestazioni dei creditori".

Sulla base di questa riscontrata analogia con il fallimento, il Tribunale conclude che "non è possibile allora consentire la rinuncia al debitore che vi è stato ammesso, così come non sarebbe possibile acconsentire alla rinuncia al fallimento successivamente all'emissione della sentenza dichiarativa di fallimento in accoglimento di istanza di fallimento".

E la conclusione negativa in ordine alla irrinunciabilità della procedura di liquidazione sarebbe avvalorata anche dalla necessità (od opportunità) che il debitore rinunciante (nel caso di specie ove il bene immobile era in comproprietà con l'altro debitore) "profitti comunque dei vantaggi che la procedura di liquidazione comporta, tra cui la vendita della quota parte dell'immobile al prezzo di cui al preliminare ed in particolare della cancellazione della trascrizione ed iscrizioni pregiudizievoli da parte del Giudice Delegato".

Osservazioni

Sulla posizione del Tribunale – in linea con l'opinione maggioritaria secondo cui la liquidazione dei bei appare analoga al fallimento più che concordato preventivo (anche di tipo liquidatorio) - occorre svolgere alcune considerazioni.

Pur volendo restare nell'ambito dell'analogia con il fallimento, ebbene anche in quella procedura, quantomeno sino all'emanazione della sentenza dichiarativa di fallimento, è possibile che vi sia rinuncia all'istanza (Cass., sez. I, 19 settembre 2013, n. 21478).

Senonché, a mio avviso, l'analogia con il fallimento è più apparente che reale e, quindi, la disciplina del fallimento non si presta a integrare (o a lumeggiare) le norme sulla liquidazione dei beni.

Del resto, potrebbe essere utile ricordare, ad esempio, che la procedura di liquidazione dei beni potrebbe essere avvicinata ad una cessione dei beni ai creditori prevista dall'art. 1977 c.c. (ove pure è previsto uno spossessamento dei beni, pur non essendo previsto un procedimento di accertamento del passivo, mancando la necessaria concorsualità).

Certamente se nell'art. 1977 c.c la cessione dei beni (che può anche non comprendere tutti i beni del debitore) presuppone il consenso dei creditori stipulanti (ed infatti, la cessione dei beni è un contratto), nel nostro caso potremmo dire, con approssimazione, che siamo in presenza di una cessione <<imposta>> ai creditori per effetto del decreto di apertura di cui all'art. 14-quinquies.

Il richiamo alla cessione dei beni ai creditori appare opportuna, perché consente di avere a disposizione un modello ulteriore senza dover obbligatoriamente volgere lo sguardo al fallimento (oltre che al concordato preventivo con cessione dei beni che, rimanendo nell'ambito delle procedure concorsuali, appare preferibile rispetto al fallimento).

La mancanza di un modello-base di riferimento (essendo vari i modelli con punti in comune con la liquidazione: cessione dei beni, concordato preventivo, fallimento) conduce ad escludere la possibilità di applicare sic et simpliciter la norma sull'irrinunciabilità dell'istanza di fallimento che appare norma eccezionale (e, come tale, non potrebbe neppure applicarsi analogicamente).

Il che non significa che la procedura sia rinunciabile sempre e comunque.

Ad esempio, sebbene le tre procedure della crisi (piano, accordo e liquidazione) siano generalmente promuovibili soltanto dal debitore (che allo scopo vi provvede con una vera e propria domanda giudiziaria), la procedura di liquidazione del patrimonio è l'unica delle tre procedure che può essere attivata, pur in presenza di certe circostanze, anche dai creditori, come previsto dall'art. 14-quater.

Ricorrendo questa ipotesi, sicuramente, non sarà possibile consentire al debitore di rinunciare alla procedura non essendo stato lui a determinarne l'avvio (e residuando, viceversa, la problematica relativa al sapere se il creditore instante – o tutti i creditori - possa(no) rinunciare, come credo sia possibile, alla procedura così attivata).

Nelle altre ipotesi (e, cioè, quelle ove la liquidazione inizia con l'istanza del debitore) non riesco a intravedere una ragione per la quale non sia possibile per il debitore rinunciare all'istanza presentata, almeno sino al momento in cui non si sono realizzate posizioni di vantaggio per i creditori.

Peraltro, a tal fine, non può valere – come sembra ritenere il Tribunale – che il debitore possa "profitt(are) comunque dei vantaggi che la procedura di liquidazione comporta, tra cui la vendita della quota parte dell'immobile al prezzo di cui al preliminare ed in particolare della cancellazione della trascrizione ed iscrizioni pregiudizievoli da parte del Giudice Delegato".

Quanto al primo vantaggio (e, cioè, l'effetto protettivo) è vero che il debitore potrebbe essersene avvalso, ma ciò impedirà allo stesso di fare nuovamente ricorso alla procedura così rinunciata.

Del resto, il debitore che presenta un accordo o un piano del consumatore "sfrutterebbe" la medesima norma protettiva del patrimonio (per l'accordo) e una norma analoga, sebbene più limitata (per il piano del consumatore), senza che ciò possa mettere in dubbio la possibilità per il debitore di rinunciare al piano presentato prima dell'omologa da parte del Tribunale.

Quanto al secondo vantaggio (e, cioè, l'effetto di vendere l'immobile al valore di mercato) – ove percorribile – non lo vedrei come vantaggio o elemento positivo, non foss'altro per il fatto che la vendita a prezzo giusto (tendente a quello di mercato) sarebbe l'obiettivo del processo esecutivo nell'interesse dei creditori e del debitore. La vendita del bene pignorato ad un prezzo basso crea grave danno certamente al debitore, ma anche ai creditori, rendendo un vantaggio soltanto al (fortunato) acquirente in sede di vendita forzata.

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