Concordato in continuità e affitto di ramo d'azienda

06 Giugno 2017

Come noto, ormai 5 anni fa, il legislatore nazionale introduceva la procedura di concordato con continuità aziendale, cercando di normare prassi operative e giurisprudenziali che già trovavano applicazione e legittimazione nelle sezioni fallimentari dei vari tribunali italiani. La formulazione normativa però...
Premessa

Come noto, ormai 5 anni fa, il legislatore nazionale introduceva la procedura di concordato con continuità aziendale, cercando di normare prassi operative e giurisprudenziali che già trovavano applicazione e legittimazione nelle sezioni fallimentari dei vari tribunali italiani. La formulazione normativa però ha dato origine ad un dibattito interpretativo sul concetto di “continuità aziendale” che ha portato ad un vero e proprio spaccamento della giurisprudenza di merito, che si è divisa sull'ammissibilità e legittimità del concetto della cd. “continuità indiretta” dell'azienda e della conseguente procedura concordataria che su tale “indiretta” (o esterna) continuazione dell'azienda si fonda. Per “continuità indiretta” deve intendersi comunque continuità dell'apparato aziendale, ma posta in essere da un soggetto terzo rispetto all'imprenditore che accede al concordato.

La Giurisprudenza sul punto

Di recente, un orientamento giurisprudenziale (Tribunale di Macerata) senza troppo formalismi – e quasi de planoammette la “continuazione indiretta” come se la stessa fosse un concetto ormai pacificamente ammesso dall'ordinamento. Solo qualche mese prima il Tribunale di Como, in totale dissenso con la pronuncia della corte Maceratese, negava dignità alla continuazione “indiretta” ed in un caso fattualmente identico a quello al vaglio della sezione fallimentare del Tribunale di Macerata, disconosceva la possibilità di qualificare il concordato “in continuità” nel caso in cui fosse prevista una gestione dell'azienda di soggetti terzi rispetto al debitore concordatario.

Lo schema operativo sottoposto al vaglio dei due Tribunali era il medesimo: l'imprenditore in difficoltà aveva sottoscritto con soggetti terzi due separati contratti di affitto di rami d'azienda, prima del deposito dell'istanza concordataria, ed aveva poi presentato un piano di concordato in continuità aziendale che aveva come presupposto di realizzazione e di adempimento proprio la gestione “esterna” dell'azienda da parte dei soggetti terzi affittuari. Come anticipato, le risposte dei due Tribunali, alla stessa domanda, sono state totalmente antitetiche. Favorevole Macerata, contraria Como. Le due recenti pronunce si inseriscono in due filoni giurisprudenziali le cui riflessioni meritano ancora di essere analizzate nello specifico.

La convivenza tra affitto d'azienda e concordato in continuità

I motivi del no ad una convivenza fra affitto di d'azienda e concordato in continuità risiedono in primo luogo in un'interpretazione “soggettiva” della continuità aziendale, dovendo precisarsi che tale requisito è integrato solamente quando è l'imprenditore in difficoltà (e non altri) a continuare l'attività aziendale. Un'operazione che preveda l' “estrazione” dell'azienda dal suo “titolare” mediante un suo affitto a terzi perché quest'ultimo la conduca non sarebbe, secondo l'opinione in oggetto, in linea con il disposto del nuovo art. 186-bis della legge fallimentare, che sarebbe stato voluto dal legislatore per permettere al solo debitore proponente il concordato la continuazione dell'azienda. La tesi si fonderebbe anche su un'esegesi letterale della norma: il primo comma dell'art. 186-bis infatti non fa menzione dell'affitto come modalità di prosecuzione dell'esercizio aziendale e di realizzazione del concordato in continuità. Inoltre, l'imprenditore affittante non sopporterebbe in nessun modo il rischio di impresa, che sarebbe appunto traslato al nuovo soggetto conduttore dell'azienda in affitto. Peraltro, in schemi negoziali in cui l'imprenditore in difficoltà affitta l'azienda a terzi percependo solo i canoni di affitto (spesso in conto pagamento del prezzo finale di cessione in ipotesi atipiche di rent to buy aziendale), l'elemento “liquidatorio” del concordato è molto forte. Al debitore infatti rimane solamente l'incasso di canoni di affitto ed un prezzo di cessione finale che rappresentano in fin dei conti, e da un punto di vista economico, il corrispettivo finale per la cessione della propria attività con interruzione dell'attività sociale ed imprenditoriale. Infine, un'ulteriore argomentazione a supporto della tesi della necessarietà della continuità “diretta” e soggettiva, risiede nella valorizzazione della disciplina contenuta nel comma 3 dell'art. 186-bis: la possibilità di subentro nei contratti con le pubbliche amministrazioni che sono spesso incentrati sulle qualità personali del contraente (es. possesso dei requisiti previsti dalla normativa antimafia) al posto della normale disciplina di recesso ex art. 2558 c.c., sarebbe infatti sintomo del fatto che le agevolazioni tipiche del concordato in continuità sono concesse solamente se è l'imprenditore in difficoltà a proseguire la sua azienda. Non si giustificherebbe altrimenti una deroga alla normale normativa civilistica a favore di soggetti che fino a quel momento non avevano avuto niente a che fare con l'azienda.

In considerazione di quanto precede, parte della dottrina ed un nutrito numero di precedenti giurisprudenziali delle corti di merito tendono ad escludere la possibilità di configurare un concordato in continuità in presenza di concessione a terzi della gestione dell'azienda (e quindi ritengono incompatibili l'affitto del complesso aziendale con la procedura ex art. 186-bis della legge fallimentare). Si vedano sull'argomento Tribunale Como 29 aprile 2016, Tribunale Firenze 01 febbraio 2016, Tribunale Pordenone 04 agosto 2015, Tribunale Ravenna 22 ottobre 2014, Tribunale Busto Arsizio 01 ottobre 2014, Tribunale Patti 12 novembre 2013, Tribunale Ravenna 29 ottobre 2013, Tribunale Terni 28 gennaio 2013.

Vi è invece una seconda parte della giurisprudenza che ritiene la coesistenza dell'affitto d'azienda ed il concordato in continuità perfettamente ammissibile (anche nella versione di strutture più radicali che prevedono la cessione dell'azienda all'affittuario al termine dell'affitto). Si sostiene, infatti, che la nozione di continuità aziendale debba intendersi in senso “oggettivo” e non soggettivo e quindi la stessa sarebbe perfettamente integrata anche quando sia un terzo (e non l'imprenditore) a continuare l'azienda. Non sarebbe in ogni caso eliminato il rischio di impresa gravante comunque sull'imprenditore-debitore, seppur indirettamente, che sopporterebbe una diminuzione del valore o il mancato pagamento dei canoni in caso di inefficiente gestione da parte del terzo del complesso aziendale affittato. In secondo luogo, con un'argomentazione di carattere sostanziale e quasi sistemica, si afferma che la stipula di un contratto di affitto “interinale” a servizio di una futura e successiva rivendita dell'azienda sia necessaria per non disperdere il valore dell'unità produttiva e per preservare i valori economici ed aziendalistici primari (i.e. avviamento, relazioni commerciali con clienti e fornitori, capacità attrattiva del marchio, personale dipendente chiave, etc.). Un debitore insolvente, infatti, tipicamente nelle fasi pre-fallimentari, non è in grado di garantire il capitale circolante (inteso soprattutto come disponibilità di cassa e magazzino) necessario per poter continuare l'attività ed uno stop al “going concern” in un momento di precarietà assoluta come quella che caratterizza la fase prodromica dell'insolvenza toglierebbe definitivamente ossigeno ad una realtà già agonizzante, con consequenziale morte dell'impresa. In tale ottica, l'intervento del “cavaliere bianco” che si prende in carico il complesso aziendale in difficoltà per sostenerlo e rilanciarlo, con un occhio di riguardo anche ai livelli occupazionali, non può che essere visto di buon grado. Ed è anche in virtù di queste considerazioni sistematiche, di ordine anche macroeconomico, che è stato ritenuto più volte in passato che la continuità aziendale sia un valore di per sé stessa, indipendentemente dal soggetto che riesce a garantirla. Sarebbe quindi possibile realizzare il concordato in continuità anche quando l'azienda è ceduta o affittata a terzi. Peraltro, la cessione (e quindi la trasmissione dell'azienda al di fuori della gestione dell'imprenditore in difficoltà) pare perfettamente ammissibile. Si vedano Tribunale Macerata 12 gennaio 2017, Tribunale Udine 05 maggio 2016, Tribunale Alessandria 18 gennaio 2016, Tribunale Roma 24 marzo 2015, Tribunale Bolzano 10 marzo 2015, Tribunale Reggio Emilia 21 ottobre 2014, Tribunale Vercelli 13 agosto 2014, Tribunale Cuneo 29 ottobre 2013, Tribunale Monza 11 giugno 2013.

In conclusione

L'adesione ad una tesi o all'altra non è un esercizio speculativo fine a se stesso, ma ha grandissime implicazioni pratiche. Il concordato in continuità è infatti una fattispecie più “facile” da realizzare. La norma consente degli “sconti” che il concordato liquidatorio non ha. In primo luogo, si deve menzionare che il piano concordatario può prevedere una moratoria fino ad un anno dall'omologazione per il pagamento dei creditori privilegiati (e viene addirittura escluso il diritto di voto di tali creditori privilegiati). In secondo luogo, come sopra già accennato, non è previsto lo scioglimento dei contratti in corso per effetto dell'apertura della procedura anche se stipulati con le pubbliche amministrazioni e tale mancato scioglimento potrebbe estendersi alle posizioni contrattuali “ereditate” dall'affittuario\cessionario dell'azienda (con deroga alla norma civilistica ordinaria in caso di cessione d'azienda, che prevede invece la possibilità di recesso del terzo contraente).

Infine, anche a livello quantitativo, deve segnalarsi che non è previsto lo sbarramento minimo di soddisfazione dei creditori chirografari per almeno il 20% del credito quale condizione di procedibilità del concordato. Tale normativa di favore è stata predisposta e pensata per salvare l'azienda e proprio tale motivo ha indotto una parte degli interpreti e della giurisprudenza a ritenere che - proprio in virtù della centralità della prosecuzione dell'attività aziendale – debba essere indifferente il soggetto che pone in essere tale salvataggio.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario