L’effetto devolutivo del reclamo ex art. 18 l.fall.

11 Luglio 2017

Il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, limitatamente ai procedimenti in cui trovi applicazione la riforma di cui al d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 è caratterizzato da un effetto devolutivo pieno, con conseguente inapplicabilità dei limiti previsti dagli artt. 342 c.p.c. e 345 c.p.c. sicché le parti sono abilitate a proporre anche questioni non affrontate nel giudizio innanzi al tribunale, emergendo tale soluzione necessaria attesi il carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito.
Massima

Il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, limitatamente ai procedimenti in cui trovi applicazione la riforma di cui al d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 è caratterizzato da un effetto devolutivo pieno, con conseguente inapplicabilità dei limiti previsti dagli artt. 342 c.p.c. e 345 c.p.c. sicché le parti sono abilitate a proporre anche questioni non affrontate nel giudizio innanzi al tribunale, emergendo tale soluzione necessaria attesi il carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito.

Il solo limite che il giudice incontra è quello di non potersi spingere sino al punto di valutare d'ufficio la ricorrenza di quei soli presupposti, oggettivi o soggettivi, della fallibilità che non siano in contestazione tra le parti e, anche per tale via, possano comunque dirsi positivamente sussistenti.

Il caso

Dichiarata l'inammissibilità della proposta di concordato preventivo (rilevando l'insussistenza del requisito della fattibilità giuridica della proposta di concordato, sia per la violazione delle norme in tema di stima delle partecipazioni societarie e dei bilanci sociali, sia per la non adeguatezza dell'attestazione del professionista), il Tribunale di Catania – su ricorso del Procuratore della Repubblica – dichiarava il fallimento di una s.p.a.

La società presentava reclamo ex art. 18 l.fall. e la Corte d'Appello revocava la sentenza di fallimento, nonostante la curatela, ritualmente costituita, avesse evidenziato, tra i vari motivi, anche profili di non ammissibilità delle proposta concordataria ulteriori rispetto a quelli trattati nel procedimento pre-fallimentare.

Proponeva allora ricorso in Cassazione il curatore del fallimento della s.p.a.

Questioni giuridiche

L'interessante tema diffusamente trattato nella sentenza della Suprema Corte è relativo all'effetto devolutivo del reclamo ex art. 18 l.fall..

Infatti con specifico motivo di ricorso, la curatela del fallimento ha censurato la sentenza della Corte d'Appello di Catania nella parte in cui ha giudicato inammissibili tutti gli ulteriori profili di inammissibilità della proposta concordataria prospettati dalla curatela costituitasi nel giudizio di reclamo.

Sostiene la Corte d'Appello che tali motivi non sono stati oggetto della sentenza di fallimento impugnata ex art. 18 l.fall., né erano stati sollevati nelle ragioni di reclamo; gravame che “resta vincolato ai motivi di doglianza prospettati in correlazione alla motivazione del provvedimento impugnato”.

Originariamente il mezzo previsto dalla legge fallimentare per impugnare la sentenza dichiarativa di fallimento era l'opposizione.

Tale rimedio è stato prima sostituito dall'appello con il d.lgs. 5/2006 e poi con il reclamo a seguito del decreto correttivo d.lgs. 169/2007.

Di fronte a simile evoluzione terminologica ci si è domandato quale fosse l'effettiva natura del gravame in questione e se lo stesso fosse o meno caratterizzato da un effetto devolutivo pieno e automatico.

Le risposte offerte dalla dottrina e dalla giurisprudenza sono state differenti e tutte hanno messo in luce la particolarità di simile strumento, dato che sarebbe l'unica ipotesi riconosciuta nel nostro ordinamento di impugnazione di una sentenza tramite reclamo.

In primo luogo si rammenta che l'effetto devolutivo è quel fenomeno processuale in base al quale la causa passa dalla cognizione del giudice di prime cure a quella del giudice del gravame.

Questo significa che oggetto del secondo grado non è semplicemente la sentenza impugnata, bensì la controversia insorta tra attore e convenuto.

Tuttavia nel giudizio di appello disciplinato agli artt. 339 e seguenti c.p.c. tale “passaggio” non implica l'automatica ed integrale migrazione della causa di primo grado al secondo giudice.

Al contrario, il tutto avviene nei limiti della domanda di appello e nell'ambito delle censure motivate contenute nell'atto di impugnazione come prevedono gli artt. 342 c.p.c. e 346 c.p.c.

Si è infatti ormai concretizzato il passaggio definitivo dell'appello da novum iudicium a revisio prioris istantiae soprattutto a seguito delle pronunce della Cassazione tra gli anni 1987-2005 (vedi in tal senso Tedoldi, I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella <<iconoclastica>> del 2012, in Riv. Dir. Proc., 2013 e Mandrioli Corso di diritto processuale civile, 2016, Torino).

Emblematico di quanto sopra il punto di arrivo di Cassazione Sezioni Unite 23.12.2005, n. 28498: “l'appello non rappresenta più, come nel sistema del codice di rito del 1865, pur permanendo la sua funzione sostitutiva quanto alle statuizioni decisorie su diritti impugnati, il mezzo per passare da una all'altro esame della causa, su tali statuizioni e non può quindi limitarsi al fine di ottenerne la riforma, ad una denuncia generica dell'ingiustizia dei capi appellati della sentenza di primo grado, ma deve puntualizzarsi all'interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati, ma comunque sostituiti dalla sentenza di appello che non è impugnazione rescindente come il ricorso per Cassazione (l'avvicinamento alla struttura del quale è solo parziale); e tal puntualizzazione ulteriore avviene appunto nella denunzia di specifici vizi di ingiustizia o nullità della sentenza impugnata”.

In tal senso anche la riforma del codice di rito di cui al D.L. 83/2012 con la modifica dell'art. 342 c.p.c., ha esplicitato che “l'appello deve essere motivato” e deve contenere a pena di inammissibilità della domanda “l'indicazione delle parti del provvedimento appellate” e “l'indicazione delle circostanze da cui deriva l'affermata violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.

A ciò si aggiunga che l'art. 346 c.p.c. impone alla parte di riproporre in appello, a pena di decadenza, tutte le domande ed eccezioni non accolte in primo grado. Altrimenti si intendono rinunciate e su di esse cala l'incontrovertibilità del giudicato (salve le possibilità del giudice di secondo grado di trattare parti della sentenza impugnata implicitamente connessi a quelli censurati e di fondare la propria decisione anche su ragioni differenti da quelle sostenute dall'appellante; così De Santis, Per un tentativo di chiarezza di idee attorno al preteso effetto devolutivo pieno del reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento, in Fall. 10/2012).

Dal quadro brevemente delineato si è concluso che oggi l'appello disciplinato dagli artt. 339 c.p.c. e seguenti è un gravame a critica libera che ha conservato natura sostitutiva, ma è a cognizione vincolata poiché l'ampiezza del giudizio si concretizza nelle censure contenute nell'atto di appello che limitano le possibilità cognitorie e decisorie del giudice di secondo grato (Gamba, commento art. 346 c.p.c. in Commentario breve al codice di procedura civile, a cura di Carpi-Taruffo, 2012, Padova).

La tesi dell'effetto devolutivo “pieno” del reclamo ex art. 18 l.fall.

La sentenza in commento accoglie l'orientamento che ritiene il reclamo ex art. 18 l.fall. un gravame diverso dall'appello ordinario e caratterizzato dall'effetto devolutivo pieno.

I sostenitori di tale tesi traggono argomenti a favore di simile opinione in primo luogo dalla lettura della Relazione accompagnatoria al d.lgs. 169/2007 che modifica per l'appunto la denominazione “appello” con “reclamo”.

Si legge infatti nel testo: “la sostituzione dell'appello con il reclamo è coerente con il rito camerale, adottato non solo per la decisione di primo grado, ma anche per la fase di gravame: il reclamo è, infatti, il mezzo tipico di impugnazione dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, quale che ne sia la forma. La modifica vale ad escludere l'applicabilità della disciplina dell'appello dettata dal codice di rito e ad assicurare l'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione, com'è necessario attesi il carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status di fallito”.

Questo consentirebbe al giudice di secondo grado di estendere la propria cognizione all'intera vicenda oggetto dell'analisi del tribunale fallimentare, spingendosi oltre le eccezioni e le censure del reclamante, anche con riferimento a capi non espressamente impugnati, nonché a questioni non specificamente trattate dal primo giudice (così osserva Arieta, Il rito camerale, in Montesano-Arieta, Trattato di diritto processuale civile. Riti differenziati di cognizione, Padova, II, 2002, 1209 e seguenti).

Anzi, i fautori di tale orientamento sottolineano come non maturerebbero neppure preclusioni per le parti in ordine alla possibilità di sollevare nuove questioni e dedurre nuove prove, né con riferimento a quanto accaduto in sede pre-fallimentare, né in relazione a quanto indicato nell'atto di reclamo (ex multis Grossi, La riforma della legge fallimentare, Milano, Giuffrè, 2006, 149 e seguenti; Cecchella, Le impugnazioni, in Il processo di fallimento Vol. II in Trattato di diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, Torino 2014, 149, in senso conforme App. Torino, 21.10.2008).

Del resto una soluzione differente (cioè con il rigido sbarramento delle preclusioni, con le limitazioni dell'effetto devolutivo e con il divieto dei nova) sarebbe “intollerabile” considerata la “compressione che le difese delle parti subiscono in prime cure per effetto della disciplina cameral-fallimentare di cui all'art. 15 l.fall.” (Tedoldi, Il rito cameral-fallimentare e l'efficacia devolutiva del reclamo ex art. 18 l.fall., in il Fall. 2011).

Compressione che invece viene proprio “bilanciata dallo strumento del reclamo a devoluzione piena ed automatica, in cui si possano ridiscutere funditus, davanti a un secondo collegio di tre giudici, i presupposti per una pronuncia si grave, incisiva e delicata come la declaratoria di fallimento” (sempre Tedoldi, Brevi note sul reclamo avverso sentenza dichiarativa di fallimento, Rivista di diritto processuale 2011; a sostegno dell'efficacia pienamente devolutiva del reclamo anche Santangeli, Le modifiche introdotte dal decreto correttivo 169/2007 al processo per la dichiarazione di fallimento ed alla fase dell'accertamento del passivo, in Diritto fallimentare, 2008, I, 160, Bonfatti-Censoni, Manuale di diritto fallimentare, 4 ed. Padova, 2011).

In definitiva, stante la delicatezza e particolarità della materia, si propende per un rimedio “che non può cedere troppo alla verità formale in contrasto con la verità sostanziale … con decadenze, preclusioni o altri balzelli rituali che impediscono al giudice di percepire la verità dei fatti in sede di rinnovazione del giudizio compiuta mediante un gravame pieno e non nelle ristrettezze di un'impugnazione in senso stretto” (così riassume Cecchella, Le impugnazioni, in Il processo di fallimento Vol. II in Trattato di diritto fallimentare e delle procedure concorsuali, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, Torino 2014, 140-141; in tal senso anche Bongiorno, La riforma del procedimento dichiarativo del fallimento, in Didone – a cura di – Le riforme della legge fallimentare, I, Torino, 2009, 348)).

Anche la giurisprudenza della Suprema Corte non ha mancato di registrare arresti conformi all'orientamento appena descritto.

Con una prima pronuncia (Cassazione 7 ottobre 2010, n. 20836) i Giudici di Piazza Cavour hanno osservato che “la natura impugnatoria del reclamo previsto dal d.lgs. 169/2007, che attribuisce al procedimento l'effetto devolutivo pieno, si coniuga con la dinamica processuale tipica del rito, prescelto dal D.lgs. 169/2007 perché idoneo a garantire il suddetto effetto, ma soprattutto perché coerente con la natura della precedente fase del procedimento per la dichiarazione di fallimento, di natura contenziosa ma appunto a rito camerale, maggiormente idoneo ad assicurare le esigenze di snellezza, semplicità di forme e celerità che connotano la procedura concorsuale”.

Così pure in una successiva decisione la Corte ha cassato la sentenza impugnata che non aveva consentito al reclamante di produrre per la prima volta in sede di reclamo prove documentali in ordine alla non sussistenza dei requisiti di fallibilità.

Il fondamento di tale provvedimento discende sia dai poteri officiosi che l'art. 18, comma 10 l.fall. attribuisce al giudicante, sia dall' “effetto devolutivo pieno del reclamo cui non si applicano i limiti previsti in tema di appello dagli artt. 342 e 345 c.p.c.” (Cassazione 5 novembre 2010, n. 22546).

Negli stessi termini in ordine alla possibilità di indicare per la prima volta in sede di reclamo i mezzi di prova relativamente ai limiti dimensionali di cui all'art. 1 l.fall. si segnalano anche Cassazione 22 aprile 2015, n. 8226; Cassazione 24 marzo 2014, n. 6835; Cassazione 6 giugno 2012, n. 9174.

La tesi contraria all'effetto devolutivo pieno
Secondo altra corrente di pensiero, invece, sostenere l'effetto devolutivo pieno del reclamo sarebbe convinzione errata e sconfessata non solo dallo stesso art. 18 l.fall., ma anche dal sistema generale.In questo senso si è detto che il “nomen” optato dal legislatore nella Relazione accompagnatoria al d.lgs. 2007 non sarebbe decisivo, ma anzi costituirebbe una “perniciosa espressione decettiva” (Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare. Aggiornamento al d.lgs. 169/2007, Bologna, 2007). L'art. 18, comma 2 l.fall., n. 3 impone al reclamante di esporre fin dall'atto introduttivo sia i fatti, sia gli elementi di diritto su cui si fonda il gravame (nonché i mezzi di prova di cui intende avvalersi, vedi art. 18, comma 2 l.fall., n. 4).Ciò significa, ad avviso di chi sostiene tale tesi, che la parte deve svolgere dei veri e propri motivi di impugnazione nel ricorso in tutto analoghi a quelli previsti dall'art. 342 c.p.c., in grado di limitare l'oggetto dell'impugnazione stessa e circoscrivere l'ambito cognitivo dei giudici (De Santis, Per un tentativo di chiarezza di idee attorno al preteso effetto devolutivo pieno del reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento, in Fall. 10/2012).Se al contrario si fosse davvero optato per un effetto pienamente devolutivo, non avrebbe avuto alcun senso prevedere simile specificazione (così Fabiani, Diritto fallimentare, Bologna, 2011).Del resto la giurisprudenza per consolidato orientamento ha ribadito che anche il reclamo ex art. 739 c.p.c. (contente la disciplina generale del reclamo prevista dal codice di rito), benché caratterizzato dalla speditezza e informalità del rito, non può consistere in una mera riproposizione delle questioni affrontate in primo grado, “ma deve contenere specifiche critiche al provvedimento impugnato ed esporre le ragioni per le quali se ne chiede la riforma” (Cassazione 25 febbraio 2008, n. 4719).Infatti nei procedimenti camerali che si concludono con provvedimenti di natura decisoria che incidono su diritti soggettivi e suscettibili di acquisire autorità di giudicato “trovano applicazione i principi del processo di cognizione circa l'onere dell'impugnazione e la conseguente delimitazione dell'ambito del riesame, da parte del giudice di secondo grado alle questioni a lui devolute con i motivi di impugnazione” (Cassazione Sez. Un. 8 settembre 1983, n. 5521). A completamento di quanto sopra, dal punto di vista sistematico, si è anche rimarcato il principio generale, ricavabile dagli artt. 400 e 406 c.p.c., secondo cui davanti al giudice adito con un mezzo di impugnazione si osservano le norme stabilite per il procedimento dinanzi a lui, in quanto non espressamente derogate dalla specifica disciplina del mezzo di impugnazione di cui si tratta.Pertanto, poiché tale reclamo si propone dinanzi alla Corte d'Appello e poiché l'art. 18 l.fall. che lo disciplina non prevede esplicite deroghe in senso contrario, si potrebbe dedurre per questa via l'applicazione degli artt. 342, 343, 345, e 346 c.p.c. relativi all'appello ordinario (così osserva Rascio, L'efficacia devolutiva del reclamo avverso la sentenza di fallimento: un risultato precluso dal sistema e dalla lettera della legge, Fall., 5/2010).Sempre in tale ottica infine, si è sottolineata la tendenza della Cassazione ad applicare la disciplina dell'appello ai reclami contro i provvedimenti che, sebbene assunti in camera di consiglio e in forma di decreto, sono comunque suscettibili di acquisire autorità di giudicato, proprio come avviene per la sentenza di fallimento (sempre Rascio, cit.). L'orientamento riepilogato è stato recepito anche in alcune pronunce della Suprema Corte.Nel precedente del 28 ottobre 2010, n. 22110 la Cassazione ha convenuto che neppure la disciplina generale del reclamo ex art. 739 c.p.c. è estranea, come detto, ai canoni stabiliti dall'art. 342 c.p.c.Pertanto persino tale tipo di gravame “presuppone la deduzione delle ragioni per le quali si sollecita la revisione del provvedimento reclamato” e non è incompatibile con i limiti dell'effetto devolutivo comunemente previsti per l'appello ordinario. Anzi, proprio “l'espressa disposizione del novellato comma 2 n. 3 del citato art. 18, laddove prescrive che il reclamo debba contenere <<l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione, con le relative conclusioni>>, difficilmente si spiegherebbe se non, appunto, con la necessità di determinare in tal modo i limiti entro i quali la Corte d'Appello è chiamata a riesaminare la dichiarazione di fallimento emessa dal Tribunale”. Limiti “che impediscono a detta corte di rimettere in discussione i punti della sentenza dichiarativa di fallimento (ed i fatti già accertati in primo grado) in ordine ai quali il reclamante non abbia sollevato censure di sorta”.In tale precedente la Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d'Appello che aveva dato rilievo alla questione dei limiti dimensionali di cui all'art. 1, comma 2, l.fall. non prospettata dal reclamante.Infatti, considerato che il nuovo testo del secondo comma dell'art. 1 l.fall. pone a carico del debitore l'onere di provare il non superamento congiunto delle soglie di fallibilità, si è ritenuto che dei requisiti medesimi, in mancanza di una specifica deduzione di parte nella fase pre-fallimentare, non si possa discutere per la prima volta nel giudizio di reclamo, escludendo di conseguenza altresì che la Corte d'appello possa indagare tali aspetti d'ufficio (così Minutoli in commentario Ferro, 2011, 257).In quest'ottica si è escluso l'effetto devolutivo pieno anche nel precedente di Cassazione, 11 luglio 2013, n. 17205 proprio in ragione della barriera prevista dall'art. 18, comma 2, nn. 3-4, l.fall.. Nell'arresto 13505 del 13 giugno 2014 la Cassazione ha in particolare optato per una soluzione “ibrida” affermando prima che il reclamo ex art. 18 l.fall. ha effetto devolutivo “pieno”, ma poi ha ribadito che trova un limite nell'art. 18, comma 2 L.F. e ha ricordato che le preclusioni di cui ai n. 3-4 maturano con la proposizione del reclamo. Ciò ha consentito alla Corte di giudicare inammissibili motivi di impugnazione nuovi e diversi da quelli tempestivamente addotti con l'atto introduttivo. Non si è mancato di sottolineare l'incongruità di simile conclusione, poiché predicare l'effetto devolutivo pieno avrebbe certamente spianato la strada anche ai motivi di impugnativa “successivi” e giudicati invece inammissibili nella pronuncia citata. Se infatti l'effetto devolutivo e totale comporta l'automatica e integrale migrazione in secondo grado di tutte le questioni relative alla controversia trattata in primo grado indipendentemente dalle censure della parte, non si comprende per quale ragione doglianze ulteriori rispetto a quelle indicate inizialmente nell'atto di reclamo avrebbero dovuto essere giudicate inammissibili (Montanari, Reclamo sempre più vicino all'appello, tra devoluzione limitata ai motivi e apertura del gravame al contumace involontario, in Fall. 3/2015).In una pronuncia di pochi giorni precedente (n. 12706 del 5 giugno 2014) la S. Corte ha invece escluso il carattere pienamente devolutivo del reclamo ex art. 18 l.fall. essendo esso limitato agli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione e alle relative conclusioni, circoscrivendo cioè l'ambito dell'impugnazione alle sole questioni tempestivamente dedotte dal reclamante.L'unico vero rimedio pienamente devolutivo sarebbe invece il reclamo ex art. 22 l.fall. avverso il decreto di rigetto dell'istanza di fallimento. Tale gravame infatti non richiede particolari forme e attribuisce alla Corte d'Appello il riesame completo senza limiti della controversia. Nel sistema ante riforma si registrano anche gli arresti di Cassazione 11 giugno 2004, n. 11079 e Cassazione 23 maggio 2001, n. 7113, mentre per quanto concerne le pronunce di merito, già nel 2009 la Corte d'Appello di Torino (con provvedimento del 4 agosto 2009) escludeva la devoluzione automatica, sia in considerazione dell'art. 18, comma 2 n. 3-4 sia in ragione della funzione di rimedio del reclamo finalizzato alla formazione di un giudicato da cui discende, in difetto di tempestiva e specifica formulazione di motivi di censura della sentenza impugnata, l'idoneità alla formazione di un giudicato interno.
La soluzione della Corte

Nella sentenza in commento la Cassazione propende espressamente per la tesi favorevole all'effetto pienamente devolutivo del reclamo, anche nell'ipotesi particolare in cui con il gravame si contesti la decisione di prime cure sull'inammissibilità del concordato preventivo.

Sappiamo infatti che in simili casi le ragioni di censura riguardanti la decisione sul concordato, parte inscindibile di un unico giudizio sulla regolazione concorsuale della crisi di impresa, considerato il loro carattere pregiudiziale, devono essere fatte valere in sede di reclamo avverso la sentenza di fallimento in forza del principio di cui all'art. 162, comma 3, l.fall., applicabile in tutte le ipotesi in cui alla cessazione della procedura di concordato preventivo faccia seguito la dichiarazione di fallimento (si veda la giurisprudenza richiamata in Paganini, L'impugnazione e la forma del provvedimento con cui il Tribunale annulla un concordato preventivo precedentemente omologato, in questo portale 21 marzo 2013).

Nel caso di specie la Corte d'Appello aveva ritenuto non ammissibili le eccezioni sollevate dalla curatela nel giudizio di reclamo perché considerate tardive in quanto non svolte nella fase pre-fallimentare dinanzi al Tribunale.

Al contrario, stante il carattere devolutivo pieno del reclamo, le parti sono abilitate in tale sede a proporre anche questioni non affrontate prima (con inapplicabilità specifica degli artt. 342 c.p.c. e 345 c.p.c.) sia attinenti a fatti anteriori non allegati nel corso del procedimento in primo grado (ad esempio perché il debitore non si era neppure presentato), sia relative a nuove eccezioni in senso proprio.

La pienezza dell'effetto devolutivo è peraltro coerente con i poteri di indagine officiosi previsti dal comma 10 dell'art. 18 l.fall. e con la possibilità di svolgere un reclamo prospettando semplicemente tesi difensive già sostenute in primo grado, senza neppure lo “sforzo” di individuare con chiarezza le statuizioni colpite dal gravame, le censure in concreto mosse al provvedimento impugnato e il ragionamento logico-giuridico volto ad incrinare le motivazioni della decisione contestata.

L'unico limite che il giudice del reclamo incontra – ribadiscono i Giudici di Piazza Cavour – è quello di non poter valutare d'ufficio la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della fallibilità che non siano in contestazione tra le parti.

Di conseguenza, spiegano gli Ermellini, come il fallito che non ha svolto le proprie difese in primo grado può sollevare nel reclamo questioni nuove non esaminate dal Tribunale, così anche il curatore, per parità di posizioni, identità di ratio ed economia processuale può segnalare i profili di inammissibilità del concordato non emersi dinanzi al giudice di prime cure.

Nel caso di specie la curatela nel reclamo aveva resistito all'impugnazione ex art. 18 l.fall. avverso la dichiarazione di fallimento, adducendo numerosi profili di inammissibilità della proposta concordataria.

Tali rilievi erano stati sollevati dal Curatore nella memoria di costituzione nel giudizio di reclamo, ma la fallita non aveva accettato il contraddittorio sul punto ritenendoli inammissibili in quanto non oggetto del procedimento pre-fallimentare e della sentenza di fallimento.

La Corte d'Appello aveva condiviso la tesi della fallita, mentre la Cassazione in ragione dell'effetto devolutivo pieno del reclamo ex art. 18 l.fall. li ha giudicati ammissibili.

Negli stessi termini si erano già pronunciati i giudici della S.C. nei precedenti n. 12964 del 22 giugno 2016 (anche in tale fattispecie il curatore aveva dedotto diverse considerazioni in fatto nella propria memoria di costituzione nel reclamo ex art. 18 l.fall. non valutate nella fase pre-fallimentare) e n. 1169 del 18 gennaio 2017 (in una vicenda relativa a condotte rilevanti ex art. 173 l.fall.).

Ovviamente in tali provvedimenti la Cassazione ha precisato che la natura devolutiva piena del reclamo, nei casi in cui la pronuncia di fallimento consegue alla dichiarazione di inammissibilità del concordato preventivo, abbraccia complessivamente sia il decreto di interruzione della soluzione concordataria, sia la sentenza dichiarativa di fallimento.

In altre parole si “devolve” alla Corte d'Appello l'intera controversia in modo unitario, senza distinguere tra fase concordataria e fase fallimentare.

La Cassazione ha pertanto accolto il ricorso e ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello affinché decida attenendosi ai principi richiamati.

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