Conversione del credito in capitale

Gabriella Covino
Leonarda Martino
08 Settembre 2017

La c.d. “conversione dei crediti” in sede di aumento di capitale rientra nella categoria delle operazioni straordinarie riorganizzative dell'investimento. La conversione forzosa consiste nella possibilità di imporre alla minoranza dei creditori la soddisfazione della propria pretesa creditoria attraverso l'attribuzione di azioni, quote o altri strumenti finanziari partecipativi ed è attuabile nell'ambito del concordato preventivo in continuità ex art. 186- bis l.fall.
Premessa

La c.d. “conversione dei crediti” in sede di aumento di capitale rientra nella categoria delle operazioni straordinarie riorganizzative dell'investimento.

La conversione forzosa consiste nella possibilità di imporre alla minoranza dei creditori la soddisfazione della propria pretesa creditoria attraverso l'attribuzione di azioni, quote o altri strumenti finanziari partecipativi ed è attuabile nell'ambito del concordato preventivo in continuità ex art. 186- bis l.fall..

È discutibile la compatibilità di una conversione forzosa nel contesto di un accordo di ristrutturazione ai sensi dell'art. 182-septies l.fall. e nei confronti dei creditori estranei soggetti ad estensione forzosa delle clausole negoziali.

L'aumento di capitale a servizio della conversione, volontaria o forzosa, dei crediti è configurabile quale aumento di capitale per cassa e non come aumento di capitale in natura, quindi non soggetto agli adempimenti di cui all'art. 2440 c.c. (che, come noto, richiama la disciplina degli artt. 2342 e 2343 c.c.).

L'aumento di capitale non produce l'incremento di una posta dell'attivo (come normalmente avviene quando si sottoscrivono aumenti di capitale con versamenti in denaro), ma l'eliminazione di una posta del passivo, fermo restando che anche nell'operazione di debt-to-equity swap deve essere sempre rispettato il principio dell'effettività del capitale sociale e, pertanto, il valore dei crediti da portare in compensazione deve essere almeno pari al valore nominale delle azioni emesse e sottoscritte dai creditori.

Ove all'esito della conversione residuino crediti non soddisfatti, secondo l'opinione prevalente, questi crediti non sono soggetti al regime di postergazione ai sensi degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. in virtù dell'art. 182-quater, terzo comma, Legge Fallimentare, come introdotto dal Decreto Sviluppo, secondo cui “si applicano i commi primo e secondo quando il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo”.

L'art. 2443 c.c. consente che l'aumento di capitale a servizio della conversione, volontaria o forzosa, sia delegato al consiglio di amministrazione in alternativa ad una deliberazione dell'assemblea straordinaria.

In ipotesi di capitale ridotto sotto la soglia del limite legale in una situazione di patrimonio netto negativo, trova oggi applicazione l'art. 182-sexies in virtù del quale gli obblighi di ricapitalizzazione e la relativa causa di scioglimento della società sono sospesi.

Anche con riguardo all'aumento di capitale mediante conversione di crediti si pone un tema di coordinamento con il principio di diritto societario di “intangibilità degli effetti organizzativi prodotti.

La soluzione preferibile, e tale da contemperare le differenti discipline applicabili, è rappresentata dall'adozione di delibere condizionate all'omologa dell'accordo di ristrutturazione e/o del concordato.

In caso di risoluzione del concordato o degli accordi di ristrutturazione o degli accordi attuativi dei piani di risanamento con successivo fallimento del debitore, vengono meno gli effetti modificativo-esdebitatori senza che la relativa risoluzione ed il conseguente fallimento determinino la caducazione automatica e retroattiva dell'aumento di capitale già deliberato, sottoscritto ed eseguito.

Aumento di capitale mediante conversione dei crediti

L'aumento di capitale mediante la conversione, anche “forzosa”, di crediti in capitale rientra nella categoria delle operazioni straordinarie riorganizzative dell'investimento, la cui ammissibilità – come già evidenziato nella bussola relativa alle operazioni straordinarie – è oggi pacifica alla luce del mutamento del quadro normativo conseguente alle riforme nell'ambito del diritto societario e nell'ambito del diritto fallimentare.

Tale strumento si rivela particolarmente utile nel contesto di piani di risanamento ai sensi dell'art. 67, comma 3, lett. d), l.fall., nonché nell'ambito di accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis e piani concordatari con continuità aziendale ex art. 186-bis l.fall. (atteso che, con riguardo al concordato liquidatorio, nella proposta il debitore è tenuto ad obbligarsi al pagamento monetario dell'ammontare di almeno il 20% dei crediti chirografari, non sembrando consentita, stando almeno alla lettera, la loro soddisfazione in altro modo).

Non vi sono particolari problematiche rispetto all'attuazione dell'operazione di conversione su base consensuale (fatte salve alcune problematiche applicative di seguito esaminate) sia con riferimento agli accordi in attuazione piani di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d), l.fall., sia con riferimento agli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis (in cui sussiste per definizione il consenso di tutti i creditori partecipanti agli accordi), sia con riguardo alle procedure di concordato preventivo nell'ambito delle quali determinati creditori acconsentano alla conversione del relativo credito in capitale.

La conversione “forzosa” consiste nella possibilità di imporre alla minoranza dei creditori la soddisfazione della propria pretesa creditoria attraverso l'attribuzione di azioni, quote o altri strumenti finanziari partecipativi e si ritiene possa trovare applicazione nell'ambito delle procedure di concordato preventivo (in continuità). È discutibile la relativa applicabilità nel contesto delle soluzioni della crisi tramite lo strumento – di nuova introduzione – dell'art. 182- septies l.fall., in base al quale l'accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all'art. 182-bis può individuare una o più categorie tra i creditori che abbiano la qualifica di banche e intermediari finanziari, accomunati dall'omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici, e, in tal caso, il debitore può chiedere che gli effetti dell'accordo vengano estesi anche ai creditori non aderenti della medesima categoria, quando (i) tutti i creditori della categoria siano stati informati dell'avvio delle trattative e messi in condizione di parteciparvi in buona fede; e (ii) i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti rappresentino almeno il settantacinque per cento dei crediti della categoria.

Nell'ambito del concordato preventivo (in continuità) la norma chiave è l'art. 160 l.fall.. Tale norma, infatti:

  • consente la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti mediante operazioni straordinarie, ivi compresa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito;
  • consente “l'attribuzione delle attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato ad un assuntore; possono costituirsi come assuntori anche i creditori o società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori”;
  • consente il superamento del principio della par condicio creditorum, almeno nella sua rigida applicazione, prevedendo al primo comma, lett. c) e d) L. Fall. la possibilità di suddividere i creditori in classi al loro interno omogenee e, quindi, di poter offrire a diverse classi diversi tipi di strumenti finanziari, sul corretto presupposto che la conversione di credito in capitale non sia una prospettiva appetibile per qualsiasi creditore.

La lettera dell'art. 160 l.fall. lascia ampi margini nella formulazione del piano col quale si propone ai creditori la conversione di propri crediti in capitale. Una prima macro differenziazione si può avere tra piani che prevedano la conversione dei crediti in strumenti emessi dalla stessa società debitrice e piani che prevedano la conversioni dei crediti in strumenti emessi da una società che funga da assuntore del concordato.

La scelta di non mutare l'identità del soggetto titolare delle attività rilevanti può essere conveniente in diverse ipotesi e per le più diverse ragioni di ordine pratico, ad esempio in tutti i casi in cui i costi per il trasferimento della titolarità delle attività della società debitrice all'assuntore siano molto elevati o richiedano il compimento di notevoli formalità. Una seconda ipotesi si potrebbe avere nel caso di società già quotate sui mercati regolamentati, in quanto l'offerta in conversione di strumenti finanziari già ammessi alla negoziazione può essere un elemento molto appetibile per i creditori.

Il piano che invece prevede l'offerta in conversione di strumenti emessi da un assuntore è utile nelle ipotesi in cui vi sia l'intervento di un nuovo investitore, che normalmente preferisce investire in una società di nuova costituzione che acquisisca solo la parte dell'attivo che ritiene più interessante e la parte del relativo passivo.

Altre norme essenziali ai fini del debt-to-equity swap sono:

  • il citato 186-bis l.fall., che disciplina il concordato in continuità;
  • le disposizioni a tutela della prosecuzione dell'attività (161, comma 7) e sul congelamento delle norme sulle perdite (182-sexies);
  • l'art. 185 l.fall., secondo cui, ove la proposta di concordato approvata e omologata preveda un aumento del capitale sociale del debitore e il commissario rilevi che il debitore non sta provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla suddetta proposta o ne sta ritardando il compimento, il commissario giudiziale deve senza indugio riferirne al tribunale, il quale può revocare l'organo amministrativo, se si tratta di società, e nominare un amministratore giudiziario stabilendo la durata del suo incarico e attribuendogli il potere di compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla suddetta proposta, ivi inclusi la convocazione dell'assemblea straordinaria dei soci avente ad oggetto la delibera di tale aumento di capitale e l'esercizio del voto nella stessa.
Aumento del capitale con conversione forzosa

Per quanto riguarda l'aumento di capitale a servizio della conversione forzosa dei crediti si ritiene che si tratti di un aumento di capitale per cassa e non di un aumento di capitale in natura, quindi non soggetto agli adempimenti di cui all'art. 2440 c.c. (che, come noto, richiama la disciplina degli artt. 2342 e 2343, c.c.).

Infatti, i crediti precedenti alla domanda di concordato subiscono una duplice mutazione, poiché da un lato diventano inesigibili, ma dall'altro devono considerarsi scaduti in modo da poter essere soddisfatti secondo quanto previsto nella proposta di concordato. Quindi, la sottoscrizione di un aumento di capitale al servizio di un debt-to-equity swap avviene attraverso la conversione di crediti da considerarsi certi, liquidi ed al momento della sottoscrizione anche esigibili, con la conseguenza che tale forma di aumento di capitale costituisce un aumento di capitale per cassa e non in natura (In giurisprudenza si rileva la presenza di un'isolata sentenza che non ammette la possibilità di sottoscrivere un aumento di capitale tramite compensazione (Cass. 10 dicembre 1992, n. 13095), ma l'orientamento della giurisprudenza di legittimità si è successivamente modificato attestandosi su una posizione favorevole alla fattibilità dell'operazione (Cass. 5 febbraio 1996, n. 936 e Cass. 19 marzo 2009, n. 6711. Si veda inoltre la massima n. 125 del Consiglio Notarile di Milano: “L'obbligo di conferimento di denaro in esecuzione di un aumento di capitale di s.p.a. o s.r.l. può essere estinto mediante compensazione di un credito vantato dal sottoscrittore verso la società, anche in mancanza di espressa disposizione della deliberazione di aumento. Tale compensazione, qualora sia legale e abbia quindi a oggetto debiti certi, liquidi ed esigibili ai sensi dell'art. 1243 c.c., non richiede il consenso della società, nemmeno nel momento in cui viene eseguita la sottoscrizione.”).

L'aumento del patrimonio sociale non avverrà potenziando una posta dell'attivo (come normalmente avviene quando si sottoscrivono aumenti di capitale con versamenti in denaro), ma eliminando una posta del passivo. Resta ovviamente intesto che anche nell'operazione di debt-to-equity swap deve essere sempre rispettato il principio dell'effettività del capitale sociale e pertanto il valore dei crediti da portare in compensazione deve essere almeno pari al valore nominale delle azioni emesse e sottoscritte dai creditori (In genere il prezzo di emissione delle nuove azioni sarà in questi casi alla pari. Comunque non si può escludere che sia previsto un sovrapprezzo che dovrà essere destinato ad un'apposita riserva straordinaria che non può essere distribuita finché la riserva non sarà pari al quinto del capitale sociale ex art. 2431 c.c..)

Il fatto che si tratti di aumento di capitale liberato in denaro e non in natura, pone il tema della tutela del diritto di opzione dei soci.

In tal senso vi sono due possibilità:

1) deliberare, secondo le regole ordinarie, un aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione ai sensi dell'art. 2441, quinto e sesto comma, c.c. (il diritto di opzione può essere escluso “quando l'interesse della società lo esige”);

2) oppure, qualora ci si trovi nella situazione particolare in cui si è perso il capitale sociale e bisogna deliberare la sua reintegrazione, la delibera di reintegrazione non può escludere il diritto di opzione, a meno che vi sia una rinuncia unanime da parte degli azionisti (Cass. civ. 28 giugno 1980, n. 4089; Cass. civ. sez. I, 12 luglio 2007, n. 15614; Cass. civ., sez. I, 17 novembre 2005, n. 23262).

In caso di crisi d'impresa, normalmente non appare difficile individuare il richiesto interesse della società per escludere il diritto d'opzione. Un piano spesso usato nella prassi prevede una modalità alternativa di soddisfazione dei creditori: il credito verrà soddisfatto in denaro, da raccogliersi attraverso un aumento di capitale offerto in opzione ai soci, oppure, per la parte di aumento di capitale rimasto inoptato, il credito verrà soddisfatto attraverso la conversione nelle stesse azioni (o altri strumenti finanziari partecipativi) rimaste inoptate.

Qualora il piano non preveda la conversione totale dei crediti in capitale, si pone il problema se il credito residuo alla conversione deve essere soggetto al regime di postergazione ai sensi degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. a causa dello status di socio in cui verrebbero a trovarsi i creditori a seguito di conversione. L'opinione prevalente ritiene che debba prevalere la soluzione negativa in virtù dell'art. 182-quater, terzo comma, l.fall., introdotto dal Decreto Sviluppo, secondo cui “si applicano i commi primo e secondo quando il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo”.

La delega al consiglio di amministrazione

L'art. 2443 c.c. consente che l'aumento di capitale a servizio della conversione forzosa sia delegato al consiglio di amministrazione in alternativa ad una deliberazione dell'assemblea straordinaria.

È normalmente consigliabile che l'assemblea deliberi l'aumento o la delega al consiglio di amministrazione prima della domanda di concordato, essendo tale elemento essenziale ai fini della fattibilità dello stesso piano concordatario. Si evidenzia, inoltre, che tra le alternative sopra descritte (i.e. delibera assembleare di aumento del capitale sociale e delibera assembleare di delega dell'aumento del capitale sociale al consiglio di amministrazione), la seconda presenta gli indubbi vantaggi di essere maggiormente flessibile e di consentire che la delega sia esercitata in un momento successivo al decreto di omologa, evitando così di subordinare l'aumento di capitale alla condizione sospensiva dell'omologazione del concordato.

Un ulteriore problema che si potrebbe frapporre all'aumento di capitale a servizio dell'operazione di conversione è il fatto che normalmente una società in crisi presenta un capitale ridotto sotto la soglia del limite legale oppure versa in una situazione di patrimonio netto negativo. Prima dell'introduzione dell'art. 182-sexies l.fall. (dispone espressamente che in pendenza di procedure di concordato preventivo e accordi di ristrutturazione non si applichino gli obblighi di capitalizzazione delle società in perdita e di scioglimento per perdita del capitale sociale di cui agli artt. 2446 e 2447, nonché 2482-bis e 2482-ter per le Srl) si doveva applicare la disciplina ordinaria, che impone la ricostituzione del capitale al minimo legale, pena la verificazione di una causa di scioglimento della società e l'apertura della fase di liquidazione con la conseguente impossibilità della prosecuzione delle attività.

Tale situazione è venuta meno con le previsioni dell'art. 182-sexies, in virtù delle quali gli obblighi di ricapitalizzazione e la relativa causa di scioglimento della società sono sospesi e quindi è possibile, anche in presenza di perdite superiori ad un terzo ed anche in caso di patrimonio netto negativo, deliberare un aumento di capitale a servizio della conversione. Si è così disinnescato il circolo vizioso che caratterizzava le norme a tutela del capitale e i tempi e modi di ristrutturazione: da un lato la società non poteva proseguire l'attività senza coprire le perdite e dall'altro per coprire le perdite era necessario completare la ristrutturazione.

Sotto tale profilo è indubbiamente rilevante anche l'affermato orientamento in base al quale è possibile deliberare, nei casi di sottocapitalizzazione, un aumento di capitale pur in assenza di preventiva integrale copertura delle perdite, riduzione di capitale esistente o nuovi apporti.

In evidenza: Massima n. 122 del 2012 del Consiglio Notarile di Milano

La presenza di perdite superiori al terzo del capitale, anche tali da ridurre il capitale ad un importo inferiore al minimo legale previsto per le s.p.a. e le s.r.l., non impedisce l'assunzione di una deliberazione di aumento del capitale che sia in grado di ridurre le perdite ad un ammontare inferiore al terzo del capitale e di ricondurre il capitale stesso, se del caso, a un ammontare superiore al minimo legale.

E' dunque legittimo l'aumento di capitale:

(i) in caso di perdite incidenti sul capitale per non più di un terzo;

(ii) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale non si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in sede di "opportuni provvedimenti" ex artt. 2446, comma 1, e 2482-bis, comma 1, c.c.;

(iii) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale non si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in qualsiasi momento antecedente l'assemblea di approvazione del bilancio dell'esercizio successivo rispetto a quello in cui le perdite sono state rilevate;

(iv) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale non si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in sede di assemblea di approvazione del bilancio dell'esercizio successivo rispetto a quello in cui le perdite sono state rilevate, a condizione che si tratti di un aumento di capitale da sottoscrivere tempestivamente in misura idonea a ricondurre le perdite entro il terzo;

(v) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in sede di assemblea convocata ex artt. 2447 e 2482-ter c.c., a condizione che si tratti di un aumento di capitale da sottoscrivere tempestivamente in misura idonea a ricondurre le perdite entro il terzo.

In ogni caso l'aumento di capitale non esime dall'osservanza degli obblighi posti dagli artt. 2446, comma 1, e 2482-bis, commi 1, 2 e 3, c.c., in presenza dei quali la situazione patrimoniale rilevante le perdite - se non già pubblicizzata - deve essere allegata al verbale, o comunque con lo stesso depositata nel registro delle imprese.

Infine, una questione di ordine sistematico è se il procedimento di conversione di credito in equity produca una novazione oggettiva del credito oppure se determini una soddisfazione dei creditori attraverso una diversa prestazione, secondo lo schema della datio in solutum dell'art. 1197 c.c..

In favore della seconda soluzione deporrebbe la lettera dell'art. 160 l.fall., che parla di soddisfazione mediante attribuzione di azioni, mentre a favore della prima interpretazione depone la significatività del mutamento che i crediti subiscono a seguito di conversione.

Indifferentemente dalla corretta qualificazione giuridica della conversione dei crediti, è pacifico che questa non si perfezioni al solo esito dell'omologa del concordato. Infatti, con l'omologa del concordato i creditori acquistano il diritto ad ottenere lo strumento finanziario offerto, mentre il negozio di sottoscrizione si concluderà solo a seguito del compimento di tutti gli atti societari prodromici e di un atto volontario del titolare del diritto. In sostanza, sarà onere dei titolari dei crediti esigere l'attribuzione degli strumenti finanziari offerti nel piano mediante la formalizzazione del negozio di sottoscrizione (Nel tempo intercorrente tra il decreto di omologa ed il negozio di sottoscrizione non è ben chiaro come dovrebbe essere qualificato il credito. Dal punto di vista dell'emittente, il capitale non può considerarsi aumentato sin quando non si sia perfezionato il negozio di sottoscrizione. A questo proposito, si potrebbe ipotizzare, almeno quando l'emittente sia lo stesso debitore, di considerare il credito come conferimento in conto aumento di capitale.)

La conversione del credito in equity

Per quanto riguarda la conversione del credito in equity all'interno della procedura di accordo di ristrutturazione di debiti ex art. 182-bis (nonché nel contesto degli accordi in attuazione di piani di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d)), come anticipato non vi sono ostacoli alla conversione su base volontaria, mentre non potrà essere attuata una conversione forzosa poiché gli accordi sono vincolanti solo per i creditori che vi aderiscano volontariamente (se raggiungono il 60% dei consensi) ed è espressamente previsto che i creditori non partecipanti debbano essere integralmente soddisfatti.

Una forma di conversione “forzosa” pare astrattamente compatibile con le soluzioni della crisi tramite lo strumento dell'art. 182-septies l.fall., che consente di estendere l'efficacia di un determinato accordo di ristrutturazione dei debiti ad una o più categorie di creditori che abbiano la qualifica di banche e intermediari finanziari, accomunati dall'omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici. In tal caso, il debitore potrebbe prevedere la conversione di un certo ammontare di crediti bancari in equity e domandare che gli effetti dell'accordo vengano estesi anche ai creditori non aderenti della medesima categoria.

Tuttavia, trattandosi di creditori aventi la speciale qualifica di banche e intermediari finanziari, occorrerà – oltre al rispetto dei presupposti già indicati all'art. 182-septies l.fall. – una verifica del rispetto delle norme di vigilanza. Va, infatti, tenuto conto che le Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, Titolo V - Capitolo 4 – Sez. IV consentono alle banche “l'acquisizione di partecipazioni in imprese in temporanea difficoltà finanziaria, mediante conversione dei crediti e al fine di consentirne il riequilibrio”, ed esprimono la convinzione che tale conversione possa essere operata “verificata la sussistenza di una convenienza economica di tali operazioni”, precisando che la conversione di crediti “può rivelarsi vantaggiosa a condizione che la crisi dell'impresa affidata sia temporanea, riconducibile essenzialmente ad aspetti finanziari e non di mercato, e perciò esistano ragionevoli prospettive di riequilibrio nel medio periodo”. L'intervento delle banche che intendono acquisire partecipazioni in imprese in temporanea difficoltà finanziaria deve poi inquadrarsi in una procedura basata sui seguenti punti:

  • redazione di un piano di risanamento finalizzato a conseguire l'equilibrio economico e finanziario in un periodo di tempo di norma non superiore a cinque anni; il piano deve essere predisposto da un numero di banche che rappresentino una quota elevata dell'esposizione complessiva nei confronti dell'impresa in difficoltà;
  • acquisizione di azioni o altri strumenti di nuova emissione e non già in circolazione;
  • in caso di pluralità delle banche interessate, individuazione di una banca capofila con la responsabilità di verificare la corretta esecuzione del piano e il sostanziale conseguimento degli obiettivi intermedi e finali previsti nel piano stesso;
  • approvazione del piano da parte dell'organo con funzione di gestione delle banche interessate e delle relative banche o società finanziarie capogruppo. In particolare, tale organo deve valutare la convenienza economica dell'operazione rispetto a forme alternative di recupero e verificare la sussistenza delle condizioni stabilite per l'acquisizione di partecipazioni in imprese in temporanea difficoltà finanziaria.

Con la conseguenza che, in via di prima analisi, lo strumento del debt-to-equity swap parrebbe non potersi utilizzare ove non sussistano dette condizioni.

Per quanto riguarda i problemi applicativi, invece, non vi è una sostanziale differenza poiché anche le operazioni in attuazione di piani di ristrutturazione devono essere subordinate al provvedimento di omologa del Tribunale ed anche negli accordi di ristrutturazione vengono sospesi gli obblighi di capitalizzazione della società in perdita e la causa di scioglimento per perdita di capitale.

Coordinamento tra disciplina societaria e disciplina fallimentare

Rientrando l'aumento di capitale e la conversione, anche “forzosa”, in capitale dei debiti nella categoria delle operazioni straordinarie riorganizzative dell'investimento, si pone anche in tale contesto il tema del coordinamento tra la disciplina societaria e la disciplina fallimentare, con riguardo al quale, nel rinviare a quanto già evidenziato nella bussola relativa alle Operazioni Straordinarie, rileviamo quanto segue.

La questione centrale consiste nel coordinare il principio di intangibilità degli effetti delle operazioni straordinarie (quale è l'aumento di capitale con conversione dei crediti) e:

  • la disciplina delle conseguenze della mancata omologazione del concordato o degli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis;
  • la disciplina delle conseguenze della risoluzione del concordato, della risoluzione degli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis oppure degli accordi attuativi di piani attestati di risanamento ai sensi dell'art. 67, comma 3, lett. d)

Infatti, in base al principio inderogabile della “intangibilità” o “irregredibilità” degli effetti organizzativi prodotti, vigente nell'ordinamento societario, l'atto avente rilievo organizzativo, una volta perfezionato, non può essere travolto retroattivamente e i relativi effetti vengono conservati non solo in quanto espressione di un'attività, ma perché essi hanno determinato un'irregredibile alterazione della realtà (cfr. Trib. Milano 5 marzo 2009, n. 3014; Beltrami, L'invalidità delle deliberazioni assembleari ex art. 2379-ter c.c., in Società, banche e crisi di impresa, Vol. 1, Milano, 2014, 701). L'inderogabilità di tale principio (posto a tutela degli interessi generali, legati alla stabilità dei traffici e alla certezza del diritto) comporta, di conseguenza, la difficoltà di coordinamento con le norme fallimentari, in base alle quali l'efficacia del concordato preventivo e dell'accordo di ristrutturazione decorrono dal decreto di omologazione, decreto a sua volta soggetto a reclamo.

In evidenza: Tribunale Milano 5 marzo 2009, n. 3014

L'art. 2504-quater c.c. espressamente prevede che, una volta eseguite le iscrizioni dell'atto di fusione, non possa più essere pronunziata l'invalidità del medesimo e la tutela "reale", in cui tale pronunzia si sostanzierebbe, viene sostituita dalla tutela "obbligatoria" del previsto risarcimento del danno. La ratio di una siffatta disposizione, chiaramente, si rapporta alla necessità di tutela del pubblico affidamento (connesso all'intervenuta pubblicazione dell'atto) ed a quello che può, ormai, considerarsi come un principio generale del vigente Ordinamento societario, cioè quello della "irregredibilità degli effetti organizzativi prodotti", di cui si riscontrano puntuali applicazioni, oltre che nell'art. 2504-quater c.c., anche negli artt. 2332, 2500-bis e 2379-ter c.c.

Nella prassi è possibile ricorrere a due soluzioni. La prima consiste nella programmazione o la promessa di assunzione della delibera relativa all'operazione riorganizzativa che si intende attuare. In tal caso il debitore potrebbe inserire la programmazione o promessa di assunzione di delibera nella proposta ai creditori ovvero tra gli impegni assunti ai sensi dell'accordo di ristrutturazione e i relativi effetti dovrebbero essere adeguatamente riflessi nel piano concordatario o nel piano di ristrutturazione. Conseguentemente, il relativo inadempimento potrebbe determinare la risoluzione del concordato ai sensi dell'art. 186 l.fall. ovvero ai sensi di una clausola risolutiva espressa inserita nell'accordo di ristrutturazione. Tuttavia, fatto salvo il caso in cui siano previsti irrevocabili impegni da parte di terzi rafforzati dalla prestazione di garanzie finanziarie, tale opzione risulta poco garantistica e dunque poco appetibile per i creditori sociali, ponendo gli stessi in una situazione di incertezza connessa all'esito di un ulteriore processo decisionale e alle imprevedibili dinamiche societarie (in tal senso Guerrera – Maltoni, Concordati giudiziali e operazioni societarie di “riorganizzazione”, in Riv. Soc., 2008).

La seconda soluzione consiste nell'assunzione di una delibera la cui efficacia è condizionata all'intervenuta definitività del decreto di omologa (per decorrenza del termine di relativa impugnazione ovvero per esaurimento dei relativi mezzi di impugnazione). In tal caso l'operazione straordinaria verrebbe deliberata e iscritta al registro delle imprese sotto condizione sospensiva di emissione del decreto di omologa e intervenuta definitività del medesimo per decorrenza del termine di impugnazione o per esaurimento dei relativi mezzi di impugnazione, di modo che essa divenga definitiva e produttiva di effetti solo al momento del perfezionamento del concordato o dell'accordo di ristrutturazione. Soluzione questa che meglio sembra conciliare le esigenze della disciplina concorsuale con quelle della disciplina societaria (Basso - Jeantet – Pastore – Varoli, La ristrutturazione. Linee guida e strumenti di composizione della crisi d'impresa, Milano 2015, 167).

Un'altra questione che merita una riflessine riguarda le conseguenze della risoluzione del concordato, della risoluzione degli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis l.fall. oppure degli accordi attuativi di piani attestati di risanamento ai sensi dell'art. 67, comma 3, lett. d), rispetto ad un'operazione di aumento di capitale mediante conversione di crediti.

Infatti, considerato che la risoluzione sia degli accordi che del concordato preventivo ha efficacia retroattiva, tale circostanza contrasta con il principio di intangibilità degli effetti organizzativi prodotti da delibera regolarmente iscritta.

Al riguardo si è affermato il principio secondo cui – attribuendo prevalenza ad esigenze di stabilità – le operazioni straordinarie (tra cui l'aumento di capitale con conversione dei crediti) poste in essere nel contesto del piano di risanamento, dell'accordo di ristrutturazione oppure del concordato preventivo restano irreversibili e immutate, completamente insensibili rispetto alla probabile successiva vicenda fallimentare.

In evidenza: Tribunale Reggio Emilia, 16 aprile 2014, in questo portale, con nota di Covino – Jeantet, Conversione di crediti in equity, risoluzione e obbligazione pecuniaria nel fallimento

Dinanzi ad operazioni sul capitale o straordinarie ad effetti irreversibilideliberate e attuate in sede concordataria non può ammettersi la disapplicazione della disciplina societaria, ma, piuttosto, la produzione di quei soli effetti retroattivi della risoluzione ex art. 186 l.fall. che appaiono compatibili con la situazione derivante dalla riorganizzazione concordataria.

Né potrebbero ipotizzarsi, in caso di piano attestato di risanamento oppure di accordo di ristrutturazione, clausole negoziali che facciano dipendere la caducazione di queste operazioni dall'eventuale dichiarazione di fallimento dell'imprenditore in crisi, giacché queste clausole – ferme restando le osservazioni sopra esposte – sarebbero in ogni caso inefficaci ai sensi dell'art. 72, comma 6, l.fall. In altre parole, una volta assunte le necessarie deliberazioni da parte dei competenti organi sociali ed eseguiti i conseguenti atti, l'operazione straordinaria produce definitivamente i suoi effetti, risultando dotata di una stabilità propria senza poter essere annullata od altrimenti invalidata in ragione del venir meno dei presupposti su cui si fondava.

In conclusione

In definitiva ed in linea con la giurisprudenza, la risoluzione del concordato (come pure degli accordi di ristrutturazione e degli accordi attuativi dei piani di risanamento) opera retroattivamente, facendo venir meno gli effetti modificativo-esdebitatori dell'accordo concordatario, ma né la relativa risoluzione, né il conseguente fallimento, determinano la caducazione automatica e retroattiva dell'aumento di capitale già attuato.