Innovazioni vietate

Alberto Celeste
21 Settembre 2017

In tema di innovazioni, si manifesta il più ampio potere riconosciuto all'assemblea in ordine alla «gestione» dinamica delle cose comuni; trattasi di un potere abbastanza esteso ed incisivo, che, però, va esercitato circoscrivendolo nell'alveo delle attribuzioni demandate all'assemblea stessa: la legittimità della delibera dipenderà, quindi, dal suo oggetto, a seconda che concerna la gestione o sconfini nella disposizione, settore quest'ultimo devoluto, invece, esclusivamente all'autonomia privata; in questa prospettiva, l'art. 1120, comma 4, c.c., prevede, per la delibera assembleare che approva le innovazioni, il limite della loro dannosità sia alla collettività che ai singoli condomini.
Inquadramento

Il comma 4 (ex comma 2) dell'art. 1120 c.c. specifica, in materia di condominio, che «sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano taluni parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino», mentre, nella comunione, con l'art. 1108 c.c., si assiste a limiti meno severi, inibendo solo quelle opere che possano provocare un pregiudizio ad alcuno dei partecipanti o importino una spesa eccessivamente gravosa.

Il Legislatore, in tal modo, ha posto dei limiti ben precisi alle decisioni dell'assemblea, anche se adottate con i quorum elevati di cui al comma 5 dell'art. 1136 c.c., intendendo così salvaguardare i diritti della collettività e dei singoli partecipanti del condominio da eventuali abusi della maggioranza; in altri termini, quest'ultima può approvare qualsiasi innovazione, purché diretta a migliorare la cosa comune o il godimento della stessa, ma non può danneggiare né le parti comuni né gli interessi dei condomini.

Sotto il profilo della tecnica legislativa adoperata, è interessante notare come la norma menziona l'effetto (fattuale) in luogo della causa (giuridica); le innovazioni pregiudizievoli anziché la causa specifica dell'illegittimità delle relative delibere, ma ciò trova la sua spiegazione tenendo conto del nesso che intercorre tra le attività materiali e l'esercizio dei poteri giuridici: per esprimere l'illegittimità delle delibere, l'art. 1120, comma 4, c.c. fa riferimento ai risultati di fatto, ossia le innovazioni che pregiudicano la stabilità, la sicurezza, il decoro architettonico o rendono inservibili talune cose comuni al godimento anche di un solo condomino, mentre l'illegittimità della statuizione assembleare afferisce alla circostanza che la stessa pregiudica la collettività - intendendo l'edificio nel suo complesso, cagionando nocumento indistintamente a tutte le porzioni di cui è composto - ed i singoli proprietari di queste ultime.

Il pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza

Il primo dei tre limiti richiamati dal comma 4 dell'art. 1120 c.c., ossia il pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza, assume carattere assoluto, nel senso che non può essere derogato nemmeno con il consenso della totalità dei condomini.

In questa ipotesi, infatti, non si tratta tanto di tutelare l'aspetto estetico del fabbricato (decoro architettonico), né di garantire ad ogni condomino il diritto di utilizzare le parti comuni dell'edificio (inservibilità all'uso o al godimento), quanto piuttosto di salvaguardare l'esistenza stessa dello stabile, con valutazione da effettuarsi ex ante - se le innovazioni «possano» arrecare pregiudizio -non avendo rilevanza gli eventuali danni verificatisi ex post a causa della cattiva esecuzione dei lavori, né l'eventuale difformità dalla concessione edilizia.

Per il concetto di «stabilità», si richiamano le caratteristiche statiche dell'edificio ogni qual volta la modifica profili un attuale, serio o probabile pericolo di indebolimento delle strutture portanti o, addirittura, di crollo di tutto o parte del fabbricato (si tratta soprattutto di valutazioni di natura tecnica, da rapportarsi anche alle condizioni dello stabile in cui l'opera è eseguita), nonché un rischio per l'incolumità degli abitanti e dei terzi estranei (si pensi ai lavori di escavazione nel sottosuolo che interessino le fondamenta o i muri maestri, salva l'adozione di idonei accorgimenti tecnici, oppure alla trasformazione di terrazzi in locali chiusi).

Il suddetto divieto, però, non impedisce che l'innovazione possa consistere anche nella parziale demolizione di un vecchio edificio e nella successiva ricostruzione, sempre che le opere di demolizione non coinvolgano le parti di fabbricato di proprietà esclusiva del condomino dissenziente, e che la nuova costruzione non incida sulle parti comuni in guisa da alterarne comunque il godimento secondo la primitiva destinazione impressavi dalla volontà dei partecipanti alla comunione o espressa dal titolo (Cass. civ., sez. II, 17 aprile 1973, n. 1095, la quale ha aggiunto che, tra le norme contenute negli artt. 1120 e 1128 c.c., non esiste alcun collegamento, contemplando esse situazioni radicalmente diverse e, correlativamente, discipline coerenti con le differenti ipotesi e finalità specificamente previste, sicché non è consentito applicare la disciplina dettata da una delle due norme alla situazione ipotizzata dall'altra, né utilizzare l'una norma per dare contenuto all'altra).

Dal canto suo, il concetto di «sicurezza» coinvolge la vita personale ed il godimento patrimoniale all'interno del condominio che possono essere minati o turbati da eventi vari, sia connessi all'attività dell'uomo (come, ad esempio, furti agevolati dall'ampliamento del cancello di ingresso che lo rende più accessibile ai ladri), sia posti in relazione a fenomeni naturali, come, ad esempio, incendi provocati dall'impiego di materiali infiammabili, e lo stesso dicasi per alluvioni, intemperie, terremoti, e quant'altro.

L'alterazione del decoro architettonico

Passando ad esaminare il secondo dei limiti imposti alla realizzazione delle innovazioni nell'àmbito condominiale dal comma 4 dell'art. 1120 c.c., ossia il divieto di alterazione del decoro architettonico - talvolta invocato come ultima arma di difesa per opporsi alle scelte assembleari - il Legislatore, mediante l'imposizione di un obbligo negativo (non alterare, non pregiudicare), ha inteso salvaguardare un bene comune, privo di consistenza materiale, ma pur sempre economicamente quantificabile, se si pensa al correlativo deprezzamento del valore commerciale delle proprietà sia comuni che individuali.

In quest'ottica, la giurisprudenza - in argomento, v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 31 luglio 1987, n. 6640; Cass. civ., sez. II, 15 maggio 1987, n. 4474 - ha precisato, da un lato, che l'alterazione del decoro architettonico va ravvisata quando comporti un deprezzamento dell'intero fabbricato e delle singole porzioni in esso comprese, non tanto come diminuzione del valore d'uso quanto piuttosto del valore di scambio dell'immobile e perciò degli appartamenti, e, dall'altro lato, che la sussistenza del predetto pregiudizio economico può senz'altro consistere nell'accertato danno estetico considerando la sua rilevanza - la modifica non deve essere del tutto trascurabile e non deve aver arrecato anche un vantaggio (compensando così la modestia con l'utilità) - e la sua incidenza negativa sull'aspetto esterno del fabbricato condominiale e sulla simmetria dell'immobile.

Per la predetta alterazione, è sufficiente la sussistenza di quei mutamenti che siano idonei ad apportare una disarmonia nell'insieme e si risolvano in un deterioramento del suo carattere estetico e dell'aspetto decorativo: basta, quindi, che la realizzazione delle nuove opere, l'inserimento dei nuovi elementi o la semplice modifica di quelli esistenti siano idonei ad infrangere l'equilibrio desumibile dalle linee e dalle strutture dello stabile, che rivendicano una loro dignità (indipendentemente dal prestigio), invocando rispetto da ogni intervento esterno; il che, però, non significa che quest'ultimo debba assurgere al livello della deturpazione che rappresenta un quid pluris rispetto all'alterazione medesima, in quanto deturpare significa deformare, rendere brutto, o addirittura ripugnante.

L'alterazione del decoro architettonico potrebbe riguardare anche soltanto singoli elementi o singole parti comuni che abbiano, però, una certa autonomia rispetto all'insieme architettonico dell'edificio, non rilevando in tal senso che analogo manufatto sia stato realizzato su un diverso fronte dello stabile (Cass. civ., sez. II, 15 gennaio 1986, n. 175), o che comunque incidano sull'aspetto generale del medesimo stabile, avendo riguardo, peraltro, alla mole dello stesso (Cass. civ., sez. II, 18 novembre 1975, n. 3872).

E' stato puntualizzato - nello stesso senso, sia pure con sfumature diverse, si possono, altresì, confrontare Cass. civ., sez. II, 14 dicembre 2005, n. 27551; Cass. civ., sez. II, 8 giugno 1995, n. 6496; Cass. civ., sez. II, 7 dicembre 1994, n. 10507; Cass. civ., sez. II, 23 ottobre 1993, n. 10513; Cass. civ., sez. II, 13 aprile 1981, n. 2189; Cass. civ., sez. II, 5 febbraio 1980, n. 832 - che, per decoro architettonico, deve intendersi l'estetica data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali, che costituiscono la nota dominante, connotano il fabbricato ed imprimono alle varie parti dell'edificio nonché all'edificio stesso nel suo insieme, una determinata, armonica, fisionomia, e, al riguardo, non occorre che si tratti di uno stabile di particolare pregio artistico; ne consegue che di «decoro architettonico» non può solo parlarsi nei casi in cui l'edificio sia stato costruito su progetto curato da tecnici specializzati od elaborato da artisti, ma anche nei casi in cui la costruzione, pur avendo carattere popolare, abbia una sua «linea», risponda ad un disegno idoneo a dare all'edificio medesimo caratteristiche strutturali tali da attribuirgli una sua particolare fisionomia, suscettibile, quindi, di essere danneggiata da opere che la modifichino, anche quando dette opere siano state eseguite per assicurare particolari utilità per l'uso o godimento delle parti comuni o delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei partecipanti al condominio.

Dunque, il «bene decoro» - inteso come equilibrio di forme e dimensioni, come insieme di linee e di motivi architettonici, come disegno gradevole ed armonico - sussiste per tutti gli edifici, aventi una certa unità stilistica, più o meno pregiata: in un primo momento, esso è frutto del lavoro di colui che ha redatto il progetto nonché opera particolare di colui che lo ha costruito, ma, poi, diventa un bene comune cui sono interessati tutti i condomini, concorrendo a determinare il valore della proprietà sia sulle parti comuni che su quelle di proprietà esclusiva (nulla esclude che i partecipanti al condominio decidano successivamente di mutare complessivamente lo stile dell'edificio, con un nuovo decoro di pari valore estetico).

Al fine di stabilire se le opere modificatrici abbiano alterato il decoro architettonico di un fabbricato condominiale, devono, tuttavia, essere tenute presenti le condizioni in cui quest'ultimo si trovava prima dell'esecuzione delle opere stesse, con la conseguenza che una modifica non può essere ritenuta pregiudizievole per il predetto decoro se apportata ad un edificio la cui estetica era già stata menomata a seguito di precedenti lavori ovvero che sia di mediocre livello architettonico.

In altri termini, se è vero che un fabbricato pregiudicato sensibilmente sotto il profilo estetico non autorizza, di per sé, un ulteriore aggravio dello stesso - ad avviso di Cass. civ., sez. II, 9 maggio 1997, n. 4086, una volta accertato il compimento, da parte di un condomino, di innovazioni lesive del decoro architettonico dell'edificio condominiale, è irrilevante, al fine di ritenere la legittimità delle stesse, che anche altri abbiano posto in essere altre opere, lesive dello stesso decoro - è altrettanto vero che non si può parlare di snaturamento delle linee architettoniche di uno stabile, se il suo prospetto esterno risulta già fortemente compromesso per la presenza di una serie disordinata di manufatti non a filo con i muri perimetrali, infissi di varia natura, balconi «tamponati» con verande di ogni tipo, ringhiere con disegni bizzarri, persiane multicolori, tende con diverso aspetto cromatico, preesistenza di contatori del gas con relative tubazioni, e quant'altro.

In questa prospettiva, va accolto con favore quell'indirizzo secondo cui il giudice, nel decidere dell'incidenza di un'innovazione sul decoro architettonico, deve adottare, caso per caso, criteri di maggiore o minore rigore in considerazione delle caratteristiche del singolo edificio e/o della parte di esso interessata, accertando anche se esso avesse originariamente ed in quale misura un'unitarietà di linee e di stile, suscettibile di significativa alterazione in rapporto all'innovazione dedotta in giudizio, nonché se su di essa avessero o meno inciso, menomandola, precedenti diverse modifiche operate da altri condomini (Cass. civ., sez. II, 27 ottobre 2003, n. 16098; Cass. civ., sez. II, 15 aprile 2002, n. 5417; Cass. civ., sez. II, 29 luglio 1989, n. 3549); diverso discorso attiene all'individuazione delle responsabilità in ordine alle condotte indiscriminate che hanno legittimato, di fatto, tale situazione irrimediabile di degrado a seguito di un'omessa tempestiva reazione.

Nella stessa linea di pensiero, la valutazione delle innovazioni, al fine della tutela del decoro architettonico, deve essere - sempre con i limiti di cui sopra - meno rigorosa per quanto concerne un edificio di moderna costruzione, caratterizzato dalle linee essenziali e geometriche, rispetto ad uno stabile nobile, di architettura antica o addirittura d'epoca (si pensi all'apposizione di un manufatto nel balcone che, nei primi, potrebbe inserirsi perfettamente nella facciata dell'edificio, senza snaturarne la simmetria o addirittura apportando alla stessa un miglioramento, e, nei secondi, potrebbe rappresentare il classico «pugno in un occhio»); con questo non si vuol affermare che l'aspetto degli edifici moderni non sia nella stessa misura oggetto di tutela (o, detto in altri termini, il valore «decoro» in questi casi si affievolisca), ma non si può nascondere che la valutazione dell'alterazione non può prescindere, in concreto, dal tipo di immobile interessato all'innovazione, nonché dalle sue peculiarità strutturali ed estetiche.

Parimenti, un minor rigore dovrebbe correlarsi alla scarsa visibilità dell'innovazione - si pensi all'appoggio di un condizionatore d'aria (purché non mastodontico) sul muro che affaccia nel cortile interno dello stabile - poiché si tende a salvaguardare soprattutto quelle parti dell'edificio soggette all'esposizione (e, quindi, all'apprezzamento estetico e economico), chiudendo … un occhio per quelle sottratte all'altrui vista, o non agevolmente percepibili dall'esterno, anche se realizzate sulla parete esterna del fabbricato (contra, appare Cass. civ., sez. II, 16 gennaio 2007, n. 851).

Resta inteso che la lesione del decoro va verificata tenendo conto solo l'edificio in sé, indipendentemente dall'ambiente circostante in cui lo stabile si trova: il rapporto tra edificio ed ambiente sarebbe, quindi, regolato dalla legislazione speciale amministrativa, sicché la valutazione va fatta riguardo alle caratteristiche proprie dell'edificio individualmente considerato e non con riferimento alla situazione degli immobili vicini (Cass. civ., sez. un., 28 giugno 1975, n. 2552); inoltre, il divieto di innovazioni che alterino il decoro estetico riguarda i rapporti tra condomini e presuppone l'esistenza di un edificio in condominio, sicché le innovazioni apportate ad un edificio non attribuiscono al vicino, proprietario di un adiacente edificio, il diritto al risarcimento del danno per asserito pregiudizio estetico all'intero complesso immobiliare unitariamente considerato (Cass. civ., sez. II, 21 febbraio 1998, n. 1873; Cass. civ., sez. II, 27 aprile 1989, n. 1954).

Come si vede, il decoro architettonico, comunque, è un concetto piuttosto elastico, per cui, lungi dal potersi ritenere oggettivo - essendo connotato di infinite sfumature, risulta difficilmente inquadrabile in formule definitorie - risulta continuamente sottoposto a precisazioni ed elaborazioni da parte degli interpreti; nel contempo, è un concetto mutevole nel tempo, in quanto anche le espressioni comunemente usate - classicità, serietà, pompa, austerità, razionalità, dignità, signorilità, lustro, splendore, ecc. - risultano strettamente legate alla comune coscienza sociale nei vari periodi storici, tenendo in considerazione l'evoluzione tecnologica in termini di comodità nel godimento della cosa comune, strumentale alle esigenze di comfort e di abitabilità delle singole unità immobiliari che compongono lo stabile condominiale.

In buona sostanza, un lieve decoro architettonico può affievolirsi a fronte delle esigenze di modernità funzionale dello stabile condominiale, o, detto in altri termini, se l'innovazione accresce in maniera rilevante l'utilità dell'edificio, senza alterarne apprezzabilmente il decoro, l'assemblea la può approvare.

Da un lato, la maggioranza, nel realizzare le innovazioni, è tenuta a rispettare il particolare decoro architettonico dell'edificio, tenendo presente la sua destinazione e la sua consistenza, e non deve alterare le sue linee fondamentali, svilendo l'estetica dell'insieme del fabbricato e la sua connaturale fisionomia; dall'altro, però, non si può considerare a priori vietata ogni opera che comporti una modifica dell'originario aspetto esteriore dello stesso fabbricato, poiché il criterio estetico non va inteso in senso assoluto, ma rapportato al criterio utilitario e sempre correlato alla sua (maggiore o minore) compromissione.

Gravità ed incidenza, si badi, da valutarsi, ovviamente, in base a criteri oggettivi, e non in relazione alla particolare sensibilità estetica del singolo condomino, come anche l'alterazione del decoro architettonico deve essere rilevabile in base a cognizioni medie di estetica ed architettura, sicché la «stonatura», per essere giuridicamente apprezzabile, non deve essere percepita soltanto da tecnici dal palato (troppo) raffinato!

In evidenza

Nel dirimere la controversia sottoposta al suo esame, il magistrato, valutando la singola innovazione (con tutte le circostanze rilevanti nel caso concreto e le specifiche condizioni in cui la stessa viene ad incidere), è tenuto anche ad operare un ragionevole bilanciamento tra contrapposti interessi - il beneficio tratto dal miglioramento, o uso più comodo o maggior rendimento della cosa comune, da un lato, il pregiudizio causato dalla lesione del decoro architettonico, dall'altro - scegliendo, ove necessario, quello maggiormente tutelabile, e subordinandogli pertanto quello che, pur meritevole di tutela, appare nel caso concreto di minore intensità.

L'inservibilità al godimento anche di un solo condomino

Venendo, infine, all'ultimo limite contemplato dal comma 4 dell'art. 1120 c.c., è interessante notare che l'art. 8 del r.d. n. 56/1934 stabiliva come vietate le innovazioni che rendessero inservibili le parti comuni dell'edificio all'uso o al godimento di «tutti i condomini», mentre l'attuale norma prevede il divieto di quelle innovazioni che possano portare a tale inservibilità «anche di un solo condomino».

Si tratta di una precisazione quanto mai opportuna, perché ciascun condomino, per il suo diritto di (com)proprietà, ha parità di diritti, parimenti agli altri partecipanti, sulle cose comuni, che sono strumentali all'uso delle unità immobiliari di proprietà esclusiva; in quest'ottica, la maggioranza assembleare non può violare tale diritto, anche nei riguardi di un solo condomino, in quanto, rendendogli inservibile all'utilizzo una delle parti comuni, in pratica ridurrebbe o annullerebbe, nei suoi confronti, la possibilità di godimento della proprietà separata; in parole povere, se la maggioranza - non la totalità che, entro certi limiti, può fare tutto quello che vuole - potesse incidere sulle facoltà di godimento del singolo (annullandole o soltanto diminuendole fortemente), andrebbe contro la finalità primaria dell'istituto del condominio, che è il godimento da parte dei condomini.

E' in questa prospettiva che va inteso il concetto di «inservibilità»: l'assemblea dei condomini non ha il potere di disporre modifiche della cosa comune che impediscano anche ad un solo partecipante di usufruire di parti comuni dell'edificio; dunque, sulla premessa che ciascun condomino ha diritto di utilizzare il bene comune, la maggioranza non può disporre innovazioni che incidano sul quantum del diritto del godimento del singolo fino ad arrivare ad esautorarlo.

Non si deve, però, confondere la violazione del diritto di godimento in capo ai condomini con il mutamento della destinazione: se, infatti, la maggioranza decida di adibire il cortile, prima usato come stenditoio, a ricovero delle autovetture, realizza un'innovazione legittima (purché approvata con i quorum elevati prescritti dal codice), anche se impedisce il godimento del cortile come tale, altro è che la stessa maggioranza, realizzando un box nell'androne comune, destinato ad attività commerciale, precluda l'ingresso all'appartamento sito al pian terreno.

Del resto, ciò si spiega con il fatto che è inconcepibile un'intangibilità assoluta delle condizioni dell'edificio, proibendo alla maggioranza di decidere l'esecuzione di nuove opere - finalizzate ad un maggiore comfort nell'abitabilità dell'edificio e favorite dalle moderne tecniche edilizie - che, assieme al vantaggio dei più, comportino qualche limitazione a carico di alcuno dei partecipanti al condominio, in termini di inconveniente o pregiudizio, mai di impossibilità di godere della cosa comune; ragionare altrimenti, considerando che è quasi impossibile apportare modifiche ed eseguire lavori ragguardevoli ma utili, senza menomare, in qualche misura, il godimento di taluno, significherebbe in pratica precludere qualsiasi iniziativa volta all'ammodernamento dello stabile, ripristinando, di fatto, quello ius prohibendi che il principio maggioritario mira a superare.

Dunque, l'assemblea non può disporre dei diritti dei condomini, determinare la sostituzione nella titolarità, il trasferimento o l'estinzione dei diritti, o deliberare le nuove opere che comportano l'impedimento nell'esercizio, nel senso di sottrazione della res o di impossibilità assoluta di utilizzo delle cose comuni, ma le è consentito limitare tale godimento; saranno legittime, quindi, tutte quelle delibere che autorizzano innovazioni - quali, ad esempio, la realizzazione di un ascensore, la collocazione del riscaldamento centrale, l'installazione di un impianto radiotelevisivo, ecc. - anche se l'intervento comporti la sottrazione di una piccola parte delle cose comuni all'uso di qualcuno, o possa determinare inconvenienti non rilevanti per altri.

A fortiori, l'opera sarà vietata qualora, pur riguardando beni comuni, abbia riflessi negativi sulla proprietà esclusiva di un condomino, e sotto questo profilo non è rilevante la circostanza che, per ragioni contingenti e transitorie, il bene di proprietà individuale non sia attualmente utilizzato secondo la sua naturale destinazione (in argomento, v. Cass. civ., sez. II, 5 settembre 1989, n. 3858).

Al riguardo, a proposito dell'occupazione con opere permanenti, da parte del singolo partecipante, di una porzione di una parte comune dell'edificio, va registrato che non sussiste un orientamento univoco da parte della giurisprudenza; premesso, però, che la fattispecie va sempre valutata caso per caso, verificando l'ampiezza della trasformazione in relazione al bene comune interessato dalla relativa iniziativa, per quanto possa essere ampio il godimento del condomino sulle parti comuni dell'edificio, lo stesso non può estendersi a sottrarre, in modo potenzialmente definitivo, una porzione delle stesse alla funzione primaria che il bene comune è chiamato a svolgere all'interno del condominio, poiché, altrimenti, la medesima porzione oggetto della predetta trasformazione potrebbe cessare di costituire un accessorio dell'edificio nel suo complesso e diventare tale, invece, a favore dell'unità immobiliare al cui servizio il condomino agente l'ha destinata.

In quest'ottica, non si può liquidare il discorso affermando che gli altri condomini nessuna lamentela possono, attualmente o in futuro, avanzare in proposito, in quanto difficilmente potrebbero fare uso di quella porzione oggetto delle opere o dei lavori oppure agevolmente potrebbero continuare ad utilizzare la rimanente parte del bene comune, perché, a seguito dell'intervento definitivo, la porzione stessa è ormai attratta nella sfera esclusiva del singolo e distolta definitivamente dalla sua destinazione.

Stessa cosa non può ravvisarsi, al contrario, ogni qual volta vi sia un pregiudizio temporaneo e saltuario - ad esempio, deposito momentaneo di materiali sul cortile per eseguire determinati lavori nello stabile - sicché il limite della «inservibilità» sopra richiamato deve essere interpretato come sensibile menomazione dell'utilità che il condomino ritraeva secondo l'originaria costituzione della comunione, rendendone molto gravoso il relativo godimento (una cosa è il rifacimento del portone di ingresso che lo renda leggermente più stretto, altro è che, per attraversarlo, si costringa a strisciare contro gli stipiti).

Ne consegue, pertanto, che devono ritenersi consentite quelle modifiche - o, detto a contrario, non vanno considerate vietate quelle innovazioni - che, recando utilità a tutti condomini tranne uno, comportino per quest'ultimo un pregiudizio limitato o trascurabile - si pensi alla realizzazione di una scala che impedisca soltanto di calare il cestino della posta - e comunque, tale da non superare i limiti della normale tollerabilità, salva, ovviamente, l'adozione di tutti gli accorgimenti tecnici idonei a ridurre il più possibile gli eventuali inconvenienti (Cass. civ., sez. II, 21 ottobre 1998, n. 10445).

Casistica

CASISTICA

Eliminazione della areazione

E' nulla per impossibilità dell'oggetto la delibera condominiale che pregiudichi la sicurezza del fabbricato mediante la copertura di spazi comuni, aventi la connaturata destinazione all'aereazione delle unità immobiliari dei singoli condomini che su di esso prospettano, senza l'adozione di misure sostitutive atte ad assicurare un ricambio d'aria adeguato alle necessità anche potenziali di dette unità (nella specie, relativa alla richiesta avanzata nel 1991, da parte di nuovi condomini, di demolizione di una tettoia del cortile comune realizzata nel 1963, che impediva la circolazione dell'aria e limitava la possibilità degli istanti di installare una caldaia per riscaldamento autonomo nel loro balcone di proprietà esclusiva, la suprema corte nel cassare la sentenza d'appello che aveva respinto la domanda, ha precisato che restava ferma l'osservanza, quanto alla possibilità di installazione della caldaia a gas, della disciplina dettata dall'art. 890 c.c. e dalla l. 6 dicembre 1971 n. 1083, in dipendenza della pericolosità e potenziale nocività dell'impianto) (Cass. civ., sez. II, 25 gennaio 2007, n. 1626).

Inglobamento di ambienti comuni

Il decoro architettonico, quando possa individuarsi nel fabbricato una linea armonica, sia pure estremamente semplice, che ne caratterizzi la fisionomia, è un bene comune, ai sensi dell'art. 1117 c.c., il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono apportare (nella specie, si è ritenuto lesivo il comportamento del condomino proprietario delle unità abitative al piano terra e primo che, per realizzare un vano di circa mq. venticinque da adibire a servizi igienici e cucina, aveva inglobato uno degli archi laterali asimmetrici del piano terra del fabbricato, interrompendo l'armonia del prospetto architettonico costituito dall'arco centrale di ingresso all'androne e da ciascuno dei due archi sugli altri lati) (Cass. civ., sez. II, 4 aprile 2008, n. 8830).

Costruzione di un ascensore

Nell'identificazione del limite all'immutazione della cosa comune, disciplinato dall'art. 1120, comma 2 (ora 4), c.c. il concetto di inservibilità della stessa non può consistere nel semplice disagio subìto rispetto alla sua normale utilizzazione - coessenziale al concetto di innovazione - ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità; si può tener conto di specificità - che possono costituire ulteriore limite alla tollerabilità della compressione del diritto del singolo condomino - solo se queste costituiscano una inevitabile e costante caratteristica di utilizzo (nel caso di specie, è stata ritenuta legittima la costruzione di un ascensore che ha ridotto le dimensioni del pianerottolo senza però comprometterne l'utilizzabilità) (Cass. civ., sez. II, 12 luglio 2011, n. 15308).

Guida all'approfondimento

Coppolino, Innovazioni: le nuove maggioranze ed i nuovi limiti, in Arch. loc. e cond., 2014, 25;

Rinaldi, L'istituto delle innovazioni nel nuovo condominio, in Immob. & proprietà, 2013, 285;

Triola, Condominio, innovazioni ed esecuzione di opere su parti comuni, in Corr. giur., 2007, 237 ss.

Nicoletti, Le innovazioni e la sopraelevazione nel condominio, Padova, 1996, 225;

Sutti, Innovazioni vietate nel condominio di edifici e servitù, in Foro pad., 1993, I, 187;

Ditta, Le “innovazioni nel condominio degli edifici” nella giurisprudenza (1986-1989), in Nuova giur. civ. comm., 1990, II, 457;

Batà, Doppio vincolo alle innovazioni condominiali?, in Corr. giur., 1989, 1081;

Marchesi, Innovazioni utili e mutamento di destinazione in pregiudizio dei diritti dei singoli condomini, in Arch. loc. e cond., 1986, 113;

Rondinini, Innovazioni nel condominio degli edifici, in Nuova giur. civ. comm., 1986, II, 370.

Sommario