Bancarotta preterintenzionale: il rapporto tra operazioni dolose e dissesto dell’ente

27 Settembre 2017

L'art. 223, comma 2, n. 2, l.fall., punisce i soggetti indicati nell'art. 223, comma 1, l.fall. (e cioè i vertici dell'ente societario) che “hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società”. Come si vede, la norma disegna due diverse fattispecie, la prima (aver “cagionato con dolo”), avente forma libera e struttura dolosa, l'altra (aver cagionato il dissesto “per effetto di operazioni dolose”), apparentemente improntata a un modello di responsabilità oggettiva, in cui il reato è attribuito all'agente sulla sola base del nesso eziologico tra condotta e evento, senza che sia necessario l'accertamento dell'elemento soggettivo.
Premessa

L'art. 223, comma 2, n. 2, l.fall., punisce i soggetti indicati nell'art. 223, comma 1, l.fall.(e cioè i vertici dell'ente societario) che “hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società”.

Come si vede, la norma disegna due diverse fattispecie, la prima (aver “cagionato con dolo”), avente forma libera e struttura dolosa, l'altra (aver cagionato il dissesto “per effetto di operazioni dolose”), apparentemente improntata a un modello di responsabilità oggettiva, in cui il reato è attribuito all'agente sulla sola base del nesso eziologico tra condotta e evento, senza che sia necessario l'accertamento dell'elemento soggettivo.

Proprio su tale ultima fattispecie ci si concentrerà in questo breve lavoro.

Come si vedrà, essa pone profondi e irrisolti problemi interpretativi ed è da considerarsi una norma “a rischio”, che porta in tensione i principi costituzionalmente rilevanti di colpevolezza e di determinatezza dalla fattispecie penale, e perciò costituisce banco di lavoro privilegiato per lo studioso, in quanto fonte di potenziale criticità del sistema penale, su cui porre l'attenzione e, al contempo, utile strumento per comprendere l'effettiva essenza, estensione e pervasività di tali principi.

Le principali fonti di tali potenziali criticità sono costituite dall'ampia elasticità della locuzione “operazioni dolose”, che potrebbe essere idonea a ricomprendere una serie non sufficientemente determinata di condotte, e dall'attribuzione in chiave oggettiva del fatto che la lettera della norma sembra apparentemente avallare.

Proprio tali particolari caratteristiche della norma rendono la stessa di agevole e appetibile applicazione processuale, alleggerendo non di poco il lavoro delle Procure in tema di onere probatorio, specie nei casi in cui sia difficile o impossibile provare la commissione, da parte dell'agente, di una condotta illecita distrattiva, rilevante quale bancarotta fraudolenta ai sensi del combinato disposto degli artt. 216 e 223, comma 1, l.fall..

Ebbene, una riflessione critica per una lettura costituzionalmente orientata della norma in esame è tanto più urgente visto il largo uso che di essa si fa nelle aule di Giustizia, specie negli ultimi anni, in cui essa sta vivendo “una straordinaria stagione applicativa”; infatti, “a leggere le massime pubblicate dai repertori e ancor più i capi d'imputazione riguardanti i molti crack finanziari di questi anni, sembra non esservi dissesto societario che non sia stato preceduto da una qualche ‘operazione dolosa che ha cagionato il fallimento'” (D. Micheletti, La bancarotta societaria preterintenzionale: una rilettura del delitto di operazioni dolose con effetto il fallimento, Siena, 2014), tanto che “la fattispecie in parola, da ‘valvola di sicurezza' del sistema penalfallimentare, ove sarebbe chiamata a svolgere una funzione di chiusura e completamento”, si sta “trasformando in un vero e proprio letto di Damaste pronto ad accogliere i vertici di qualunque compagine societaria in procinto di decozione” (cfr., ibid.).

La nozione di operazioni dolose alla prova del principio di tassatività

Il principio di tassatività trova la propria fonte nell'art. 25, comma 2, Cost., e impone che la sanzione penale possa essere applicata solo ed esclusivamente nei casi specificatamente descritti dalla fattispecie incriminatrice.

Corollari di tale principio sono quelli di determinatezza e precisione, rivolti al Legislatore, e quello del divieto di analogia in malam partem, rivolto all'interprete.

Più in articolare, i principi di determinatezza e precisione attengono alla tecnica redazionale del precetto e, cumulativamente intesi, impongono al Legislatore di descrivere la fattispecie in modo chiaro e dettagliato, escludendo quindi l'utilizzo di concetti vaghi, tali da impedire ai consociati di conoscere con esattezza quali siano le condotte vietate.

Il principio del divieto di analogia inibisce al giudicante di applicare il precetto a casi o situazioni analoghe a quella descritta dalla fattispecie. Da ciò consegue che la punizione potrà avere luogo solo nei casi espressamente e tassativamente indicati nella legge penale. Le espressioni utilizzate dal Legislatore nella descrizione della fattispecie dovranno pertanto essere interpretate entro i confini del loro tenore letterale; ciò non toglie che l'operatore, nelle ipotesi – in realtà assai frequenti - in cui la norma contenga espressioni dal contenuto elastico (quale la locuzione “operazioni dolose”), possa legittimamente interpretare le stesse in maniera non restrittiva, ma estensiva, purchè sempre entro i confini del loro tenore letterale.

Il principio di tassatività, così come sommariamente descritto nei suoi corollari, assume una straordinaria rilevanza in termini di garanzia per i consociati in ambito penale, assicurando che essi possano liberamente autodeterminarsi e compiere scelte consapevoli, in quanto destinatari di precetti chiari e precisi dati dal Legislatore, che saranno interpretati dagli organi giurisdizionali entro il significato letterale dei medesimi e in maniera accessibile e prevedibile.

Come si vedrà, la giurisprudenza mostra di accogliere un concetto assai ampio di “operazioni dolose” di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, l.fall., tale da assumere “una valenza tendenzialmente onnicomprensiva” (F. Fontana, Quando assumere fideiussioni integra bancarotta societaria, in dirittoegiustizia.it).

Di qui il “timore di una deriva applicativa” della norma in parola: “si va dal ricorso abusivo al credito, alle varie forme di finanziamento disastroso; dalla frode carosello, alle false fatturazioni e agli altri reati tributari; dalla cessione del ramo d'azienda alle operazioni infra-gruppo, senza dimenticare ovviamente le più disparate e ingegnose manovre societarie, persino quelle – come il leveraged buy-out – che in mancanza del fallimento nemmeno configurerebbero un illecito” (cfr. D. Micheletti, op. cit.).

Più in particolare, la giurisprudenza dominante include nel concetto di “operazioni dolose” ogni tipo di abuso di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, nonché ogni atto intrinsecamente pericoloso per la ‘salute' economico-finanziaria dell'impresa. Pertanto, secondo l'interpretazione nettamente prevalente, anche atti di per sé non costituenti illecito possono costituire “operazioni dolose”, purchè causalmente orientate verso il fallimento dell'ente.

Inoltre, la giurisprudenza ricomprende tra le “operazioni dolose” anche condotte illecite volte ad arrecare non un danno, ma un vantaggio della società, come l'evasione o l'elusione fiscale, o la mancata corresponsione dei contributi previdenziali, che, venute alla luce, abbiano dato luogo a sanzioni che a loro volta abbiano cagionato il fallimento.

Quindi, il concetto di “operazioni dolose” copre in quest'ottica ogni operazione imprenditoriale “rischiosa” che abbia determinato il fallimento, anche se di per sé lecita e anche se abbia avuto di mira un incremento patrimoniale, anziché un danno, per l'ente poi dichiarato fallito.

Le “operazioni dolose” possono essere individuate “non solo in abusi o infedeltà nell'esercizio della carica amministrativa, ma, in una visione più ampia, in ogni atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria dell'impresa (Cass., n. 2905 del 1998; Cass., n. 13767 del 2003).

Anche una condotta omissiva può costituire “operazione dolosa”, ove “produttiva in un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa” (Cass., n. 17690 del 2010; Cass., n. 12426 del 2013).

In altre parole, “la fattispecie postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale, quale è dato riscontrare in qualsiasi iniziativa societaria che implichi un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato” (Cass., n. 17690 del 2010); infatti, la nozione di ‘operazione' “richiama necessariamente un ‘quid pluris' rispetto ad ogni singola azione (o singoli atti di una medesima azione)” (ibib.).

In applicazione dei principi appena illustrati, la S.C. ritiene rilevante ai sensi dell'art. 223, comma 2, n. 2, l.fall. la distribuzione di utili ‘fittizi', “perchè derivanti dall'illecita sottrazione agli obblighi di legge” (Cass., n. 17692 del 2009).

Infatti, “la distribuzione di somme di denaro corrispondenti ad asseriti utili ‘in nero' concreta - ancorchè essi rappresentino il profitto effettivo della gestione - una manomissione del capitale che integra la bancarotta fraudolenta patrimoniale, in quanto, ancorchè l'utile non costituisca di per sè l'oggetto materiale della condotta di distrazione fraudolenta, essendo di spettanza dei soci e non della società, quando la sua assegnazione avvenga senza la pre-deduzione dell'onere tributario e della conseguente penalità tributaria (che sorge al momento della erogazione della ricchezza) si riscontra manomissione della ricchezza sociale poichè la distribuzione eccede quanto di pertinenza dei soci” (Cass., n. 17355 del 2015).

Ancora, con riferimento al noto caso relativo al fallimento della compagnia assicurativa Ambra S.p.A., la S.C. ha osservato come debba ritenersi integrata la fattispecie in esame nel compimento di “manovre dirette all'artificiosa apparenza della integrità patrimoniale” della società, finalizzate “all'occultamento all'organo di vigilanza del già presente dissesto” dell'ente (Cass., n. 17690 del 2010).

La giurisprudenza è poi concorde nel ritenere che “l'art. 223, comma 2, n. 2, l.fall. non richiede che le operazioni dolose dalle quali derivi il fallimento di una società comportino una diminuzione dell'attivo stricto sensu, da intendere in senso algebrico, bensì un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa”; infatti, “la valutazione degli abusi di gestione o dell'infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo concretizzanti tali operazioni non può essere assunta in via generale ed astratta, ma dipende dal rilievo dei peculiari doveri statutari, dalla tipologia dell'organismo societario e dalla situazione economico/patrimoniale in cui la condotta si compie” (ibid.).

La S.C. ha fatto uso di tali criteri in un caso in cui gli organi apicali dell'ente avevano posto in essere operazioni di vendita dei principali asset della società, seppure a prezzi convenienti, così privando l'ente della possibilità di operare sul mercato e cagionandone quindi il fallimento. Più in particolare, non rilevano, secondo la S.C., né il fatto che tali operazioni fossero in sé lecite, né che le cessioni fossero avvenute a prezzi vantaggiosi per l'alienante. Infatti, “la valutazione della fruttuosità dell'operazione non può limitarsi alla presa d'atto del prezzo di vendita, pur da considerare congruo, dovendosi invece leggere in rapporto alla destinazione impressa al denaro costituente il corrispettivo della cessione, ed al contestuale venir meno degli strumenti di operatività dell'azienda (attrezzature, locali, dipendenti) a quel punto destinata inevitabilmente al fallimento. E' quindi “del tutto evidente che il fatto di privare la società della disponibilità dei beni che costituivano l'Indispensabile presupposto dello svolgimento dell'attività sino a quel momento esercitata ha posto la stessa nella condizione di non poter più operare quale soggetto economico”. Infatti, qualora una serie di operazioni non comporti una immediata diminuzione del patrimonio di una società, come quando un bene venga ceduto ad un congruo prezzo di mercato, ma ne derivino in ogni caso l'aggravamento di un dissesto già in atto e l'indefettibile fallimento, il reato deve ritenersi integrato sul piano oggettivo (Cass., n. 41008 del 2015).

La configurabilità della fattispecie di fallimento cagionato da operazioni dolose è stata affermata dalla S.C. anche con rifermento al compimento di reati fiscali. Più in particolare, la S.C. è stata chiamata a pronunciarsi in un caso in cui la società poi fallita aveva emesso fatture nei confronti di società c.d. “cartiere” nel quadro di una vicenda comunemente definita “truffa carosello”. Si è al riguardo osservato quanto segue: “poichè il meccanismo della emissione di fatture per operazioni intracomunitarie inesistenti risponde ad una precisa finalità di violazione delle norme tributarie nazionali (nella prospettiva della generazione del credito di IVA, invece non spettante, verso lo Stato) è altrettanto logico ritenere che il perpetuarsi della operazione in frode all'Erario esponga (nel prevedibile caso di accertamento dei reati, nella specie concretizzatosi) le società protagoniste, a un dissesto di proporzioni tanto più rilevanti quanto più elevato siano il fatturato interessato dalle frodi e la percentuale di incidenza dello stesso sull'intero movimento di affari della società” (Cass., n. 41055 del 2014). Precisa la S.C. come tali condotte illecite, pur se “destinate non già a diminuire, ma ad incrementare (sia pure contra ius) il patrimonio sociale”, vanno ricondotte tra le operazioni dolose ex art. 223, comma 2, n. 2, l.fall. poiché, “una volta scoperte portano ad una “crescita esponenziale del debito, che a sua volta determina il dissesto e il successivo fallimento dell'ente” (Cass., n. 47621 del 2014; Cass., n. 45672 del 2015).

Similarmente, la S.C. ha ritenuto corretta la qualificazione di operazione dolosa data nella sentenza impugnata al “protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l'esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della società” (Cass., n. 47621 del 2015).

Con lo stesso meccanismo, si è ritenuto che anche condotte truffaldine in danno di terzi soggetti compiute dagli organi apicali della società in favore della stessa possano dar luogo a “operazioni dolose” a causa delle sanzioni inflitte per la loro commissione (cfr. F. Fontana, op. cit., 12, in tema di truffe in campo petrolifero).

Alcuni Autori sostengono addirittura che potrebbe integrare un'operazione dolosa anche solo “il rassegnare le dimissioni dalla carica societaria quando ciò si riveli strumentale alla causazione del dissesto fallimentare” (Piccardi, La causazione del fallimento ‘per effetto di operazioni dolose'. Profili soggettivi della fattispecie, in Cass. pen., 2011).

Potrebbero quindi, secondo tale logica, costituire “operazioni dolose” anche, ad esempio, il mancato approntamento di adeguate misure antinfortunistiche o, ancora, il mancato approntamento di un modello di prevenzione ex D.Lgs. n. 231/01, ove le conseguenze di natura sanzionatoria, risarcitoria o interdittiva di tali omissioni abbiano determinato o contribuito a determinare il dissesto e il successivo fallimento dell'ente.

L'indirizzo giurisprudenziale dominante, così come sommariamente descritto, appare criticabile sotto diversi profili.

La Corte Costituzionale ha osservato in numerose pronunce come le espressioni dal contenuto elastico inserite dal Legislatore nel precetto penale vadano interpretate non singolarmente, e cioè nel loro aspetto per così dire atomistico, ma tenendo conto del contesto normativo in cui sono inserite. Si pensi alle sentenze interpretative di rigetto emesse in relazione, ad esempio, al delitto di disastro innominato, all'aggravante dell' “ingente quantità” nel delitto di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309/1990, ai “giustificati motivi” di cui all'art. 650 c.p. (rubricato “Inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità”).

In applicazione di tale principio, l'esatta portata della locuzione “operazioni dolose” dovrà essere ricavata prendendo in considerazione il precetto nel suo insieme; più in particolare, l'interprete dovrà considerare che la norma in questione, come si vedrà meglio infra, costituisce una deviazione dai normali criteri di imputazione dolosa del fatto; tale potenziale frizione con i principi generali in tema di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost. impone una lettura costituzionalmente orientata della locuzione in esame, che possa già sul piano oggettivo far emergere quella volontà criminosa, quella coscienza del disvalore del fatto, che costituisce requisito indefettibile per l'applicazione della sanzione penale.

In tale contesto, si deve ritenere che integrino l'elemento oggettivo del reato in questione solo condotte connotate da un'intensa, pregnante offensività, tale da disvelare in sé l'animus “doloso” che le sorregge.

Quindi, dal filtro dell'interpretazione costituzionalmente orientata dovranno residuare solo quelle condotte che siano già di per sé illecite, che siano rivolte direttamente in danno alla società e che esprimano uno specifico e grave rischio per l'evento, che siano cioè oggettivamente idonee a ingenerare il concreto pericolo di dissesto dell'ente.

Così, ad esempio, dovrebbe escludersi l'integrazione dell'elemento oggettivo del reato nel caso, ricordato sopra, dell'alienazione lecita e a prezzi equi degli asset aziendali, se la volontà sottostante alle operazioni di dismissione non sia orientata verso il fallimento della società. In tale ultimo caso, l'agente avrebbe cagionato con dolo il dissesto dell'ente e sarebbe quindi soggetto a punizione ex art. 223, comma 2, n. 2, l.fall.

Ancora, a identiche conclusioni dovrebbe giungersi nei casi, pure brevemente esaminati sopra, della distribuzione di utili in nero, dei reati fiscali e del mancato pagamento degli oneri previdenziali. Tali condotte, in quanto non rivolte in danno dell'ente, non integrano quella “dolosità” descritta dalla norma incriminatrice come requisito essenziale della condotta tipica, non essendo sorrette da alcuna volontà frodatoria nei confronti della massa dei creditori.

Un altro filtro di selezione delle condotte tipiche del reato in esame deve essere ricavato avendo riguardo alla particolare categoria di soggetti a cui il precetto è rivolto; trattasi all'evidenza di un reato proprio (semiesclusivo, e quindi in caso di concorso dell'estraneo valgono le regole generali di cui all'art. 117 c.p.), i cui destinatari sono i soggetti indicati nell'art. 223, comma 1, l.fall., e cioè i vertici dell'ente societario. Il reato in questione ha quindi un'essenza squisitamente societaria, e infatti la medesima condotta descritta dalla norma incriminatrice non è punibile (rectius, non è vietata ed è quindi assolutamente lecita) se commessa dall'imprenditore individuale.

Tale “precipua connotazione societaria” si sostanzia nello “sfruttamento dello schermo offerto dalla persona giuridica”, e cioè in “un abusivo (e, dunque, ‘doloso') utilizzo della forma e della struttura societaria, nella sua espressione istituzionale o nella sua concreta gestione” (cfr. F. Fontana, op. cit.).

Dovrà quindi considerarsi “operazione dolosa” quel complesso di atti e attività posti in essere dai vertici dell'ente che, abusando dello schermo societario, agiscano in danno dei creditori provocando il dissesto della società.

Tale ricostruzione è senz'altro compatibile con la struttura del reato in esame, che si sostanza in un delitto di evento e a condotta vincolata, e permette di “salvare” la norma dai dubbi di legittimità costituzionale sopra brevemente tratteggiati.

L'elemento soggettivo del reato: preterintenzione e principio di colpevolezza

L'art. 27, Cost. dispone, al primo comma, che “la responsabilità penale è personale”.

Ai sensi dell'art. 42 c.p., “nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge. La legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente come conseguenza della propria azione od omissione”.

Il codice Rocco, di matrice autoritaria, mostra di fare ampio uso di forme di responsabilità che prescindono dalla colpevolezza.

Particolarmente interessante ai fini che ci occupano è la posizione della giurisprudenza in tema di delitto preterintenzionale. In tale ambito, si era in un primo momento inquadrato l'istituto come dolo (del reato meno grave) misto a responsabilità oggettiva (per il reato più grave e strutturalmente omogeneo al primo), conformemente alle coordinate del versari in re illicita; successivamente, al fine di armonizzare l'istituto con il principio di colpevolezza costituzionalmente tutelato, si era ipotizzata una natura del delitto preterintenzionale come dolo misto a colpa, richiedendo quindi per l'integrazione della fattispecie la prevedibilità ed evitabilità in concreto, ex ante e a base parziale dell'evento più grave. Negli ultimi anni, tuttavia, la giurisprudenza sembra si sia orientata verso un sostanziale ritorno alla concezione classica. Si argomenta infatti in numerose pronunce che il delitto preterintenzionale ha struttura dolosa, richiedendo il dolo del reato base, ammettendo al contempo che l'evento più grave sia addossato all'agente sulla sola base del nesso di causalità. Si afferma così il principio secondo il quale non può richiedersi un dovere di diligenza in capo a chi già versa in una situazione illecita. Essendosi quindi l'agente volontariamente, dolosamente, posto in tale illecita situazione, dovrà rispondere in ogni caso dell'evento più grave (omogeneo e posto in rapporto di progressione con il fatto meno grave effettivamente voluto), anche ove lo stesso non fosse né voluto, né previsto o prevedibile al momento in cui la condotta fu posta in essere.

Come detto, il dibattito in tema di delitto preterintenzionale assume particolare rilevanza ai fini che ci occupano; infatti, la giurisprudenza maggioritaria tende ad inquadrare il reato in esame come avente natura preterintenzionale.

L'evento meno grave, a struttura dolosa, consisterebbe nel compimento delle “operazioni dolose”; quello più grave, e non voluto, si identificherebbe nel dissesto dell'ente.

Occorre premettere in argomento che la locuzione di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, l.fall., e cioè l'aver “cagionato il dissesto con dolo o per l'effetto di operazioni dolose” è stata variamente interpretata nel corso del tempo.

In effetti, già il codice di Commercio del 1865 (art. 704) prevedeva una disposizione sostanzialmente analoga a quella di cui alla norma appena citata. Essa venne trasfusa nel successivo Codice di Commercio del 1882 (art. 863, n. 5) e, quindi, nella Legge Fallimentare del 1942.

La Relazione Ministeriale al Re sostiene che le figure criminose dell'aver cagionato il dissesto “con dolo” e “per l'effetto di operazioni dolose” si distinguerebbero sul piano soggettivo, essendo la prima caratterizzata dal dolo diretto e la seconda dal dolo eventuale. La condotta dei due reati sarebbe quindi identica, ma sorretta dalla appena citata diversa gradazione dell'elemento soggettivo. Trattasi di un'interpretazione inconciliabile con i principi fatti propri dal codice penale in tema di elemento soggettivo del reato, in base ai quali la nozione di dolo include sia quello diretto che quello eventuale, e si risolverebbe quindi in un'interpretatio abrogans dell'inciso “per effetto di operazioni dolose”.

Secondo una ulteriore, risalente, impostazione, le due figure si distinguerebbero in quanto la prima richiederebbe, dal punto di vista soggettivo, il dolo intenzionale (e cioè una volontà direttamente protesa verso l'evento), la seconda semplicemente il dolo diretto (o, naturalmente, anche eventuale). Il fatto che le due fattispecie siano punite con identica sanzione esclude la percorribilità di tale impostazione.

La giurisprudenza ha quindi, in un primo momento, interpretato la prima fattispecie (aver procurato con dolo il dissesto) come reato di evento a forma libera e a struttura dolosa; la seconda (aver procurato il dissesto per effetto di operazioni dolose) come reato a forma vincolata e connotato da responsabilità oggettiva, in cui cioè la responsabilità è addossata all'agente sulla sola base del nesso di causalità tra operazione dolosa e dissesto, senza che sia necessario alcun accertamento circa la prevedibilità o volontà del dissesto stesso come conseguenza della condotta “dolosa”.

Tale interpretazione si pone tuttavia in contrasto con il principio di colpevolezza di cui al predetto art. 27 Cost. e non può quindi trovare accoglimento.

Nel tentativo di offrire una lettura costituzionalmente orientata della disposizione in esame, la giurisprudenza ha quindi ricostruito il reato de quo come delitto a struttura intrinsecamente preterintenzionale.

Tuttavia, è ancora irrisolta la problematica relativa al grado e alla natura della connessione psichica tra condotta (operazione dolosa) ed evento più grave (dissesto dell'ente).

Infatti, la giurisprudenza prevalente si limita a richiedere una “astratta prevedibilità” del dissesto quale esito della condotta antidoverosa, “astratta prevedibilità” che comunque viene considerata immancabilmente esistente.

L'approccio ermeneutico in parola non fa quindi altro che offrire una variante lessicale, priva di contenuto concreto, alla tesi della responsabilità oggettiva; certamente, ne sono avvantaggiate le Procure, che vedono alleggerito il proprio onere probatorio, ma grave è il rischio che, per mezzo di tale approccio, possa subire una lesione il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost., così come interpretato dalla Corte Costituzionale, la quale ha affermato come tutti gli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie debbano essere non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente collegati all'agente, quantomeno a titolo di colpa (cfr. Corte Cost., n. 364 del 1998).

In applicazione delle coordinate interpretative di cui si diceva, la giurisprudenza maggioritaria richiede “la mera dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura ‘dolosa' dell'operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell'astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell'azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell'evento fallimentare” (Cass., n. 10265 del 2014).

Infatti, “sul piano dell'elemento soggettivo, mentre nel caso di fallimento cagionato con dolo, l'elemento psicologico è collegato direttamente con l'evento, nell'ipotesi in cui il fallimento sia l'effetto di operazioni dolose, esso rimane una possibilità prevedibile (Cass., n. 19101 del 2004), nel senso che esso è il frutto di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell'operazione ha accettato il rischio della stessa” (Cass., n. 19101 del 2014; Cass., n. 17408 del 2013).

In altre parole, il rapporto che lega l'operazione dolosa al fallimento non suppone la necessaria rappresentazione dell'esito concorsuale (nè, tantomeno, la volontà di siffatto evento). Infatti, “la fattispecie descritta dalla l.fall. art. 223, comma 2, n. 2, si sostanzia in una eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale e per essa esaurisce l'onere probatorio dell'accusa la dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura ‘dolosa' dell'azione, costitutiva dell'operazione, a cui segue il dissesto, in una con l'astratta prevedibilità dell'evento scaturito per effetto dell'azione antidoverosa”, e quindi “l'evento, non volontariamente mirato, quale oggetto di espressa volizione (come nella causazione intenzionale del fallimento), germina quale ‘effetto' dell'operazione dolosa” (Cass., n. 17690 del 2010; si veda anche, in senso conforme, tra le altre: Cass., n. 45672 del 2015; Cass., n. 32728 del 2014).

In contrasto con l'indirizzo dominante si è posta una recente pronuncia della S.C., la quale cassa (parzialmente e con rinvio) l'impugnata sentenza della Corte d'Appello ritenendo non provata “un'adeguata valutazione circa la sussistenza di tale prevedibilità” (Cass., n. 45672 del 2015), la quale non può assumersi come esistente in re ipsa, ma deve essere dimostrata in concreto e sulla base della specifica situazione in cui ha operato l'agente.

Solo l'accertamento nel caso concreto di una reale, palpabile prevedibilità del dissesto quale conseguenza dell' “operazione dolosa”, rifiutando qualunque presunzione di colpa, permette di ancorare la fattispecie in esame al principio di colpevolezza costituzionalmente tutelato; ogni lettura che assuma una prevedibilità presunta o in re ipsa finirebbe per ledere tale fondamentale principio, con conseguente grave pericolo che la norma venga interpretata in maniera non conforme alla Costituzione.

E' sulla base di tali considerazioni che la migliore dottrina auspica “un ulteriore approdo verso un'ipotesi di responsabilità per colpa in concreto, concepita nei suoi requisiti ordinari ed imperniata, quindi, sulla violazione di regole cautelari di condotta e sulla necessità di un accertamento dell'effettiva prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento non voluto da parte dell'agente” (Piccardi, op. cit.).

In conclusione

In definitiva, si è visto che la norma in commento ha una funzione di chiusura e di completamento del sistema penalfallimentare; cionondimeno, il tenore letterale della stessa è assai oscuro, tanto da essere definita dalla dottrina come “sibillina”, “amletica”, “misteriosa”, “una delle più infelici della non felice legge fallimentare” (la rassegna è tratta dal lavoro di D. Micheletti, op. cit.).

L'operatore, di fronte a una norma penale dal significato tanto ermetico, dovrà risolvere i gravi problemi che essa pone facendo tesoro dei principi di garanzia fatti propri dalla Costituzione, che dovranno orientarne l'esercizio ermeneutico.

A mezzo di tale lavoro, che si è visto essere ancora lontano dal dirsi compiuto, la bancarotta preterintenzionale potrà essere ricondotta a schemi che assicurino la salda tenuta del sistema ai principi di responsabilità e legalità.

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