Sicurezza in condominio: luogo di vita o di lavoro?

09 Ottobre 2017

La qualità del vivere in condominio e più in generale nella proprietà immobiliare è sempre più spesso all'attenzione delle istituzioni: vivere bene vuole anche dire non rischiare di ferirsi per attività o installazioni imprudenti e non far male agli altri per trascuratezza o violazione di leggi. La proprietà immobiliare occupa di fatto una nicchia nel grande mondo della sicurezza sul lavoro ma possiede caratteristiche peculiari.
Luoghi di vita o di lavoro?

Scrivere di sicurezza in condominio vuole dire necessariamente scrivere di «sicurezza», ma soprattutto scrivere di «condominio», cioè di proprietà immobiliare, che molto spesso è sinonimo di «luoghi in cui si vive». Scrivere di sicurezza nei luoghi in cui si vive è molto diverso dallo scrivere di sicurezza nei luoghi di lavoro: in una fabbrica, in un negozio, in un ufficio, in un cantiere si lavora solamente, mentre nella proprietà immobiliare si vive e si lavora. Per il legislatore questa condizione di partenza fa moltissima differenza, al punto che possiamo distinguere numerosi tipi di sicurezza in condominio:

  • la sicurezza nei luoghi in cui si vive (definiti «ambienti di vita»);
  • la sicurezza di chi compie attività fai-da-te a casa propria;
  • la sicurezza dei lavoratori domestici;
  • la sicurezza dei lavoratori condominiali;
  • la sicurezza dei lavoratori esterni (imprese in appalto o lavoratori autonomi).

Il legislatore si è occupato in dettaglio soprattutto delle ultime due categorie, lasciando al buon senso ed ai principi generali di cautela del codice civile le altre, con una gradazione di obblighi e responsabilità che, comunque, permette al cittadino di non farsi male e non far male agli altri. E' ovviamente opportuno, anzi addirittura necessario che gli obblighi esistenti siano conosciuti da tutti e che quelli inesistenti siano confutati e sottratti ad una vulgata incompetente per scelta commerciale o inadeguatezza professionale. Opportuno è cominciare riaffermando il concetto di «lavoro», che è qualcosa di ben preciso e non trattabile o equivocabile, perché dove non c'è lavoro, non c'è possibilità applicativa della «sicurezza sul lavoro».

Di che cosa parliamo quando parliamo di lavoro

Per parlare di lavoro bisogna prima intendersi sul significato del termine. Evitiamo di soffermarci sui differenti concetti di lavoro autonomo, lavoro subordinato e impresa e proviamo a cercare di comprendere che cosa non è lavoro.

Se svuoto la mia cantina sto lavorando? Se mi faccio aiutare da un amico? Se mi faccio aiutare da uno svuotacantine?

L'art. 2222 c.c., relativo al lavoro autonomo, così recita: «Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio...». Il lavoro presuppone un tornaconto, un corrispettivo, un trasferimento di «cose» (non «denaro» perché è lavoro anche l'insegnamento gratuito); dove manca il corrispettivo, dove si fanno attività per se stessi o per aiutare amici, non c'è lavoro; diverso è il caso del volontariato per solidarietà, che è normato e in materia di tutela viene equiparato al lavoro autonomo. Senza corrispettivo non si può parlare di lavoro; lavare i piatti o montare le tende in casa non è lavorare. Se non c'è lavoro, non c'è applicazione delle leggi sulla sicurezza del lavoro: la scelta del legislatore è stata da sempre chiara, tutelando solo i lavoratori.

In casa propria, con alcune limitazioni legate a precise attività normate (manutenzione straordinaria degli impianti, per esempio) si può fare ciò che si vuole: non ci può essere contestazione perché manca il supporto giuridico.

Questo ragionamento normalmente sfugge ai turisti della sicurezza sul lavoro, che applicano a pioggia leggi nate per chi lavora, non la massaia o lo zio giardiniere della domenica. E neppure il privato cittadino ha formali obblighi di controllo di lavoratori che incarica per lavori in casa propria, edilizia a parte. Quella che sembra una macroscopica lacuna legislativa è invece la conferma di un criterio applicato da sempre nel nostro paese: storicamente il privato cittadino non ha mai avuto obblighi di applicazione o di controllo sulla sicurezza delle attività che eseguiva o commissionava occasionalmente, purché – nel secondo caso – i lavoratori incaricati fossero idonei tecnicamente e professionalmente; soltanto nel 1997 si è iniziato a parlare di obblighi per il generico committente, ma solo per opere edili.

La cronistoria dell'evoluzione legislativa è illustrata magistralmente dalla sentenza Cass. pen., sez. IV, 23 maggio 2013, n. 36398.

Ed ora preoccupiamoci di capire che cosa fa, se non lavora, chi esegue attività interne alla proprietà immobiliare.

Il fai-da-te in casa e in condominio

Il condominio, nelle parti comuni, è casa del singolo condomino.

In casa propria ognuno è libero di eseguire qualunque attività nella modalità che preferisce: usare il phon a bagno nella vasca non è reato, è solo molto pericoloso. E comunque, come ogni altra attività casalinga, non è lavoro.

Più avanti approfondiamo questo tema e le sue conseguenze nel box dedicato alle applicazioni pratiche.

Il lavoro domestico

Parliamo di lavoro partendo dal livello giuridicamente più carente, ancora una volta per una precisa scelta legislativa: il lavoro domestico.

Gli addetti ai servizi domestici e familiari (colf, badanti, assistenti domiciliari, chiunque lavori in casa del suo datore di lavoro) vengono citati dalla legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro solo nella definizione di «lavoratore», che clamorosamente li esclude dalla tutela. In altre parole, riferendosi alla normativa speciale sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, un datore di lavoro di lavoratore domestico o familiare non è «datore di lavoro» perché il prestatore d'opera non è «lavoratore» come definito dalla legge. L'unico supporto giuridico per la salute e la sicurezza di un lavoratore domestico è l'art. 2087 c.c., che prevede una generica tutela dell'integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro.

Quindi per estensione i custodi ed i portieri in condominio svolgono lavoro domestico e non sussiste alcun datore di lavoro? La risposta deve essere negativa, perché il lavoro per un condominio non è mai lavoro domestico: lo spiega dettagliatamente la fondamentale sentenza Cass. civ., sez. lav., 24 febbraio 1979, n. 1235 per la quale, «il rapporto di lavoro prestato alle dipendenze di una collettività di condomini o di coinquilini di un medesimo stabile diviso in distinti appartamenti o unità immobiliari autonomi non rientra nel rapporto di lavoro domestico».

Il lavoro condominiale

In questa ampia categoria, che al contrario delle precedenti è stata accuratamente presa in considerazione dal legislatore, rientrano sia i dipendenti del condominio (portieri, custodi, pulitori, giardinieri, ma anche guardiani notturni, manutentori, bagnini, ecc.) sia i lavoratori chiamati per prestazioni temporanee come ditte in appalto o lavoratori autonomi. L'applicazione della legislazione di riferimento richiede approfondimenti a cui sono dedicate altre schede tecniche. Anticipiamo solamente la brevissima e importante casistica delle figure che una collettività di proprietari può assumere a seconda delle condizioni di lavoro.

Un condominio può essere:

1) datore di lavoro, se ha alle dipendenze almeno un lavoratore;

2) datore di lavoro committente, se, avendo alle dipendenze almeno un lavoratore, commissiona lavori a ditte in appalto o lavoratori autonomi;

3) semplice committente (e non datore di lavoro) se commissiona lavori a ditte in appalto o lavoratori autonomi, in assenza di lavoratori alle proprie dipendenze.

L'incredibile teoria che vorrebbe il condominio datore di lavoro committente – e non solo committente – di lavoratori in appalto (il caso 3), per quanto diffusa anche in qualche improvvido provvedimento sanzionatorio impugnato e annullato dalla giurisprudenza, è superficiale e denota un approccio dilettantistico alla materia.

E in assenza di lavoro in condominio?

I tre casi del punto precedente non esauriscono la casistica di possibilità di farsi male internamente al condominio, perché la proprietà immobiliare come ambiente di vita può nascondere insidie o pericoli a prescindere dalla presenza di lavoratori. Per cattiva progettazione o costruzione, per incuria o carente manutenzione, per materiali potenzialmente nocivi o ambienti malsani, per comportamenti impropri o sbagliati.

Con il proposito di migliorare la vita dei cittadini – anche e soprattutto in assenza di lavoro – da alcuni anni si assiste ad una produzione legislativa o molto generale o eccessivamente particolare, che non risulta di grande aiuto per aumentare la qualità della vita. Ci si riferisce alla nuova formulazione dell'art. 1130 c.c., che (a partire dal 2013, entrata in vigore della l. n. 220/2012) richiede l'inserimento nel registro di anagrafe condominiale di «ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza delle parti comuni» senza però precisare quali siano i dati necessari, nonchè alle legislazioni territoriali – ultima il regolamento edilizio del Comune di Milano – che hanno provato ad imporre fascicoli del fabbricato e idoneità statiche, con lo scopo di tutelare la cittadinanza ma a fronte di spese talmente ingenti per i proprietari che finora tutti i ricorsi ai tribunali amministrativi sono stati vincenti.

Purtroppo o per fortuna, a seconda dei punti di vista, la proprietà immobiliare è spesso un territorio franco in materia di leggi, se escludiamo le leggi impiantistiche e di prevenzione incendi. Gli immobili di nuova costruzione non devono prevedere barriere architettoniche, vetri frangibili, scale pericolose, debolezze strutturali: ma gli immobili già esistenti, spesso costruiti quando le legislazioni nazionali ancora non erano state emanate o completate, non devono rispettare alcuna legge retroattiva e rimangono pieni di barriere architettoniche, vetri frangibili, scale pericolose, debolezze strutturali, senza che questo costituisca reato di alcun genere. Comprendere che nella proprietà immobiliare il buon senso è necessario, facilitare la conoscenza di quanto poco sia obbligatorio affinché la qualità della vita possa crescere in modo consapevole, è la vera sfida in assenza di leggi che possano costringere. Perché queste leggi in assenza di lavoro mancano completamente.

Applicazioni pratiche: il fai-da-te

Proviamo ad affrontare questo argomento quasi tabù, che a molti amministratori di condominio fa distogliere lo sguardo, alzare le spalle ed affermare «basta che io non ne sappia niente»: le attività del tipo fai-da-te svolte da singoli condomini volonterosi in casa propria e nelle parti comuni. Il tema è spinoso principalmente perché è stato approfondito poco, ma anche perché si presta a facili fraintendimenti e perché manca giurisprudenza specifica.

Suddividiamo bene i concetti:

  • Per fai-da-te intendiamo l'atto di eseguire interventi di manutenzione edile o impiantistica o attività domestiche nella propria casa (domum) o più genericamente interventi o attività eseguiti dal proprietario all'interno della proprietà immobiliare. Dove il proprietario diventa esecutore.
  • La manutenzione edile eseguita in fai-da-te non è vietata dalla legge, e difatti nessuno si ritiene un delinquente se tinteggia le pareti della cameretta del figlio o sostituisce la piastrella rotta sulla parete del bagno; è possibile che qualche paletto limitativo venga introdotto dai regolamenti edilizi locali, ma in generale la manutenzione edile fai-da-te non è «tollerata», è lecita: chi la esegue in proprio non ricopre il ruolo di committente e non è quindi soggetto agli obblighi in materia di sicurezza nei cantieri. Diverso è il discorso per le opere edili che non siano classificabili come manutenzioni, quali per esempio la ristrutturazione e la nuova costruzione, ma non dimentichiamo che esiste anche la cosiddetta «autocostruzione», una particolare pratica edilizia non solo lecita, ma anzi favorita. Diverso ancora è il giusto rilievo sulla pericolosità che un committente che fa cose nel suo cantiere edile potrebbe introdurre verso i lavoratori in appalto; il caso però esula da queste note, dove si intende esaminare solo il proprietario che fa-da-sè senza lavoratori intorno.
  • La manutenzione impiantistica ordinaria (fatti salvi casi specifici quali, per esempio, gli ascensori e gli impianti di produzione calore) non richiede alcuna particolare abilitazione. Fin dall'avvento della l. n. 46/1990 e del suo regolamento di attuazione (d.P.R. n. 447/1991) l'ordinaria manutenzione – cioè gli interventi «finalizzati a contenere il degrado normale d'uso nonché a far fronte ad eventi accidentali che comportino la necessità di primi interventi, che comunque non modifichino la struttura essenziale dell'impianto o la loro destinazione d'uso» – è perfettamente lecita in fai-da-te. E nessuno, si spera, si sente in colpa quando sostituisce una lampadina sull'abat-jour del proprio comodino, visto che persino le norme CEI ammettono che le lampadine possano essere sostituite in autonomia da persone comuni.
  • Le attività domestiche che si fanno in casa propria sono concettualmente diverse dal lavoro domestico, che per definizione è «lavoro» ed è regolato da precisi obblighi assicurativi e previdenziali, seppur non di prevenzione infortuni. Il fai-da-te in quanto tale non è mai lavoro domestico, proprio perché non è «lavoro».
  • Il fai-da-te non è neppure volontariato, che è definito dalla l. n. 266/1991 come l'attività prestata «tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà». Cosa ben diversa dal fai-da-te.
  • Ancora, non è fai-da-te l'atto di eseguire manutenzioni o attività domestiche per conto terzi a fronte di un corrispettivo; il fai-da-te si contraddistingue dal «lavoro» per le caratteristiche necessarie di gratuità ed autonomia.
  • Allargando l'orizzonte al mondo condominiale, non è fai-da-te l'eventuale coercizione che potrebbe ravvisarsi in una delibera che imponga a qualcuno di eseguire opere in spazi comuni: «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge» (art. 23 Cost.). Ed inoltre «l'assemblea dei condomini ha la facoltà di decidere in ordine alle spese ed alle modalità di riparto, deliberando l'approvazione del bilancio preventivo e consuntivo, ma le è esclusa la possibilità di imporre al singolo condomino l'obbligo di pulire le scale in un dato momento, o di provvedervi attraverso un proprio pulitore. Nel caso l'assemblea assuma una simile delibera, questa sarebbe radicalmente nulla, avendo i condomini statuito oltre le proprie competenze, violando i diritti del singolo condomino sui quali la legge non consente ad essa di incidere» (Cass. civ., sez. II, 22 novembre 2002, n. 16485).
  • È quindi lecita o illecita l'autopulizia delle scale comuni da parte dei condomini, nel caso in cui si stia parlando di scelta libera, autonoma e gratuita? Questa è una domanda alla quale la Cass. 16485/2002 sembra aver dato una risposta indiretta: è illecita la coercizione e nulla si dice contro l'iniziativa autonoma.
  • Tra i diritti del singolo condomino ci sono le facoltà previste dall'art. 1102 c.c.: «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa». Il miglior godimento della cosa comune può prevedere modificazioni che includano la piccola manutenzione edile o impiantistica, nei limiti previsti dalla legge? E perché no?
  • Giurisprudenza, codici e leggi alla mano, quali sono i poteri-doveri dell'amministratore per eventualmente impedire che un condomino, di propria libera iniziativa ed a costo zero, esegua piccole opere di manutenzione sulle parti comuni, di cui è appunto con-dominus? Questa è ancora un'altra domanda, alla quale l'art. 1102 c.c. potrebbe fornire una prima risposta, mentre spunto di riflessione deve essere l'assenza di condanne ad amministratori per opere eseguite (spontaneamente e gratis) da condomini infortunati o deceduti. E casi purtroppo ce ne sono.
  • Perché l'amministratore dovrebbe impedire il fai-da-te condominiale, ove non vietato dalla legge? Questa domanda è forse la più interessante: «per evitare fastidi» potrebbe essere una buona risposta, «per evitare responsabilità» potrebbe essere un'altra buona risposta, ma allora torniamo al punto precedente: dove sono i poteri-doveri dell'amministratore? Dove risiede l'obbligo giuridico di cui all'art. 40 c.p.? Se non troviamo obblighi giuridici perché parlare di responsabilità?
  • Cosa deve evitare l'amministratore per non rischiare? Certamente, deve evitare di promuovere o eseguire delibere che coinvolgano se stesso o l'assemblea su attività in fai-da-te; le indispensabili e determinanti caratteristiche di gratuità e, soprattutto, di autonomia rendono il tema di nessuna pertinenza assembleare, producendo quindi eventuali delibere nulle ed anzi sospette di pagamenti occulti e attività coercitive già valutate dalla Suprema Corte. Il fai-da-te è per definizione libero, soggetto a ripensamenti in qualunque momento e per questo motivo non regolabile (cioè contrattualizzabile) in alcun modo.
  • L'amministratore deve anche evitare di farsi coinvolgere per l'utilizzo di attrezzature condominiali che, di fatto, lo renderebbe corresponsabile: scalette vecchie abbandonate/riposte nelle parti comuni, scale portatili nuove acquistate «per i condomini o per gli operai», sono certamente da evitare . Gli operai devono provvedere autonomamente alle attrezzature di lavoro, affinché la responsabilità non esca dal perimetro della ditta o del lavoratore autonomo, mentre i soggetti che si attivano per il fai-da-te, se vogliono esercitare i loro diritti, devono usare attrezzature proprie. Non è materia da amministrazione condominiale, non è interesse della collettività: è libero arbitrio del singolo che, fino a prova contraria, non può essere contrastato se non con strumenti giuridici, quasi sempre assenti.

Si aggiunga che – ovviamente – i luoghi condominiali in genere non devono essere pericolosi e gli impianti devono rispettare la legge, ma anche che l'amministratore non deve fingere di ignorare palesi situazioni irregolari e tollerate o promosse dai condomini in nome di un presunto risparmio: «è configurabile un rapporto di lavoro subordinato, con il conseguente obbligo di versamento dei contributi previdenziali relativi all'assicurazione generale obbligatoria, nell'ipotesi di un condomino che, senza disporre di una propria organizzazione autonoma, svolga giornalmente attività di pulizia delle scale in favore del condominio» (Pret. Parma, 31 marzo 1980). Infatti «il perfezionamento del rapporto di lavoro può ben avvenire per fatti concludenti, anche nei confronti di un soggetto giuridico non personificato, qual è il condominio» (Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2014, n. 5297) ed essere obbligati ad assumere un condomino che fingeva di svolgere fai-da-te, con tutti i risvolti sanzionatori del caso e le conseguenze civili e penali, è un'esperienza non augurabile e che deve essere prevenuta in tutti i modi possibili.

Criticità operative

Non avere obblighi stringenti a volte permette di «dimenticare» situazioni di pericolo che, se creano danni a terzi, difficilmente verranno ignorate dal giudice. Conoscere per evitare è l'unica via.

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