La preclusione stabilita dal novellato art. 615 e la difficile compatibilità con il regime dell'intervento di cui all'art. 499 c.p.c.

Pasqualina Farina
02 Gennaio 2017

Nel tentativo di precludere al debitore l'accesso all'opposizione a ridosso della fase finale dell'espropriazione, il novellato art. 615 c.p.c. stabilisce che il termine ultimo di tale rimedio è segnato dal provvedimento di autorizzazione a vendita. In forza della nuova disciplina, il debitore che propone opposizione tardiva è destinato a subire la perdita del bene, salvo sussista un'ipotesi di non imputabilità del ritardo. Quanto all'ambito di applicazione della nuova disciplina va rilevato che nulla dice il legislatore sulla possibilità del debitore di proporre opposizione avverso l'atto di intervento.
Breve premessa: le modifiche apportate all'opposizione all'esecuzione

L'art. 4, comma 1°, lett. l), del d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito dalla l. 30 giugno 2016, n. 102, ha modificato il comma 2° dell'art. 615 c.p.c. per introdurre un termine nell'opposizione di merito. La nuova disposizione prevede, infatti, che l'opposizione è tardiva e, dunque, inammissibile se proposta dopo che è stata disposta la vendita o l'assegnazione a norma degli artt. 530, 552, 569 c.p.c., salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero l'opponente dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile. Si tratta di un'innovazione significativa che rompe un principio sistematico alquanto risalente: per assicurare la stabilità degli atti esecutivi compiuti, il legislatore del 1942 aveva previsto un termine di decadenza per la sola opposizione agli atti esecutivi, posto che il rimedio di cui all'art. 615 c.p.c. aveva la funzione di raccordare, per tutta la durata dell'espropriazione, l'accertamento portato dal titolo esecutivo del creditore procedente alla effettiva sussistenza del diritto sostanziale.

Allo scopo di controbilanciare la limitazione apposta al diritto di difesa del debitore l'art. 4, comma 1°, lett. a) del d.l. n. 59 del 2016 ha, inoltre, integrato la disciplina del comma 3° dell'art. 492 c.p.c. Ed infatti a tutela delle ragioni del debitore il pignoramento deve contenere oltre all'avvertimento sul termine entro cui il debitore può accedere alla conversione del pignoramento, anche un nuovo, ulteriore avvertimento. In particolare il debitore deve essere informato che l'opposizione all'esecuzione è inammissibile «se proposta dopo che è stata disposta la vendita o l'assegnazione a norma degli articoli 530, 552 e 569, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero che l'opponente dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile».

La preclusione di cui al novellato art. 615 c.p.c. e le contestazioni sull'intervento del creditore privo del titolo esecutivo (ovvero con titolo ma successivo all'udienza di autorizzazione a vendita)

Premessi i brevi cenni sull'evoluzione normativa che ha interessato l'opposizione all'esecuzione e l'atto di pignoramento, occorre chiarire se la preclusione di cui al novellato art. 615 c.p.c. possa trovare applicazione anche laddove il debitore intenda contestare i crediti vantati dai creditori intervenuti.

Sul punto va subito avvertito che le forme proprie dell'opposizione all'esecuzione sono necessarie solo laddove la contestazione del debitore abbia ad oggetto l'intervento del creditore munito di titolo esecutivo. Ed infatti la necessità dell'opposizione all'esecuzione deriva direttamente dal titolo esecutivo del creditore intervenuto, posto che solo il titolo contiene il potere di espropriare e quello di incassare; pertanto se fosse sufficiente una mera contestazione per ottenere la sospensione dell'esecuzione, si priverebbero di qualsivoglia valore i provvedimenti che fondano l'esecuzione.

È appena il caso di aggiungere che questa distinzione riposa sull'assunto che solo il creditore munito di titolo esecutivo conserva il diritto di esercitare atti di impulso; non così per il creditore che ne è sfornito, al quale l'ordinamento processuale riconosce un mero diritto al riparto (nonché dopo le riforme del 2005, all'accantonamento delle somme).

In base alle precedenti considerazioni è, dunque, agevole comprendere come l'introduzione di un termine decadenziale nell'opposizione all'esecuzione risulti inidonea ad interferire sulle contestazioni sollevate dal debitore nei confronti dei creditori intervenuti privi di titolo esecutivo, contestazioni che andranno proposte a norma dell'art. 512 c.p.c..

Considerato poi che il termine per l'opposizione all'esecuzione coincide con quello per l'intervento tempestivo (artt. 525, 551, 563 c.p.c.), va escluso che la preclusione del nuovo art. 615 c.p.c. riguardi l'opposizione proposta nei confronti dell'intervento tardivo; il deposito di tale ricorso integra, infatti, una vera e propria fattispecie sopravvenuta che legittima la proposizione dell'opposizione anche dopo la pronuncia dell'ordinanza di vendita o assegnazione. Stesso discorso vale a fortiori riguardo all'intervento, spiegato dal creditore privilegiato, dopo che è stata disposta la vendita o l'assegnazione a norma degli artt. 528, comma 2°, e 566 c.p.c.

La preclusione di cui all'art. 615 c.p.c. e le contestazioni sull'intervento tempestivamente depositato dal creditore munito di titolo

Se si volge la dovuta attenzione alla lettera della legge, la preclusione di cui all'art. 615 non sembra destinata ad operare nemmeno quando il debitore contesti l'atto di intervento tempestivamente depositato da un creditore munito di titolo esecutivo.

Depongono in tal senso due diversi ordini di motivi.

Innanzitutto pare decisiva la considerazione che, in analogia a quanto stabilito in materia di conversione del pignoramento, l'art. 4, comma 1°, lett. a), d.l. n. 59 del 2016 ha ampliato soltanto il comma 3° dell'art. 492 c.p.c., lasciando del tutto inalterata la formulazione dell'art. 499 c.p.c. Nulla prevede, infatti, il dato normativo in ordine al dovere del creditore di inserire l'avvertimento (della preclusione di cui all'art. 615 c.p.c.) anche nell'atto di intervento.

In secondo luogo l'esclusione della preclusione di cui all'art. 615 c.p.c. sembra trovare indirettamente conferma anche nell'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità. Come noto le Sezioni unite, hanno affermato che le vicende relative al titolo esecutivo del creditore procedente (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) non impediscono la prosecuzione dell'espropriazione sull'impulso del creditore intervenuto il cui titolo abbia mantenuto la propria forza esecutiva. Il Collegio ha, così, equiparato l'azione dei creditori, muniti di titolo, a quella del creditore procedente, enfatizzando il ruolo del titolo esecutivo come strumento di legittimazione (Cass., Sez. Un., 14 gennaio 2014, n. 61, ma contra Cass. 13 febbraio 2009, n. 3531).

Tuttavia la Corte pur avendo qualificato l'intervento spiegato dal creditore titolato come esercizio di azione esecutiva, ha subordinato la legittimazione alla prosecuzione del processo di espropriazione alla sussistenza – non alternativa - di due diverse condizioni.

Più precisamente, l'intervento consente al creditore munito di titolo di proseguire l'espropriazione a condizione che:

  1. l'azione esecutiva del creditore procedente si sia arrestata dopo l'intervento; ciò in quanto senza un valido pignoramento sul quale innestare l'atto di intervento, il processo viene irrimediabilmente caducato ex tunc, salva l'applicazione dell'art. 187 bis disp. att. c.p.c.;
  2. il difetto del titolo del creditore procedente deve essere sopravvenuto, perché se originario impedirebbe ai creditori intervenuti con titolo la legittima prosecuzione del processo.

In altre parole è proprio la ricostruzione offerta dalle Sezioni unite ad escludere che gli effetti dell'atto di pignoramento coincidano integralmente con quelli dell'intervento del creditore in possesso di titolo. L'intervento, a differenza del pignoramento, è - e rimane - scelta rischiosa: il creditore che interviene si affida alla stabilità del titolo esecutivo sul quale è fondato il pignoramento e che giustifica l'azione esecutiva. È agevole, dunque, comprendere come rimangano attuali le ragioni che hanno portato la dottrina a qualificare la domanda-azione esecutiva esercitata dal creditore interveniente come minore e derivata, rispetto a quella spiegata dal creditore procedente.

Se è vero, dunque, che atto di pignoramento ed atto di intervento sono soggetti ad un diverso regime perché continuano ad avere effetti e funzioni peculiari (basti pensare alla circostanza che solo l'atto di pignoramento immobiliare si trascrive), si deve ritenere necessariamente che:

  1. l'avvertimento di cui al novellato comma 3° dell'art. 492 c.p.c. non possa estendersi in via analogica anche al ricorso depositato a norma dell'art. 499 c.p.c.;
  2. la preclusione di cui all'art. 615 c.p.c. non operi laddove il debitore intenda contestare un credito di un interveniente munito di titolo.
Il rischio di violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio

A ritenere, per assurdo, che la preclusione contenuta nel novellato art. 615 c.p.c. trovi applicazione anche per le contestazioni del debitore aventi ad oggetto l'atto di intervento, si corre il rischio di ledere il diritto di difesa del debitore ed il principio del contraddittorio.

Basti al riguardo segnalare che il termine per depositare tempestivamente l'atto di intervento coincide con quello entro il quale il debitore può legittimamente proporre opposizione all'esecuzione. Ora, se nessun problema si pone quando il ricorso per intervento è depositato nelle prime fasi della procedura (il debitore ha a disposizione un certo lasso di tempo per organizzare la propria difesa), la situazione cambia in tutte le ipotesi di intervento spiegato (dal creditore munito di titolo esecutivo) a ridosso – o addirittura il giorno stesso -dell'udienza di autorizzazione a vendita; ipotesi che chiaramente non possono essere annoverate tra i fatti sopravvenuti alla pronuncia dell'ordinanza di vendita o di assegnazione.

Vero è che in questa situazione il giudice dell'esecuzione potrebbe concedere termine al debitore per l'opportuno vaglio del nuovo intervento (il debitore dovrebbe esaminare il contenuto dell'intervento e della nota di precisazione con nota spese), tuttavia una simile soluzione comporterebbe un rallentamento della procedura, in evidente contraddizione con la Relazione ministeriale di accompagnamento alla riforma del 2016 secondo la quale le modifiche all'art. 615 c.p.c. perseguono una finalità acceleratoria (sic!). Né può trascurarsi che laddove il giudice dell'esecuzione neghi un congruo rinvio, il diritto di difesa del debitore e il principio del contraddittorio subirebbero una evidente violazione.

Se tali considerazioni sono corrette, si deve concludere che il debitore conserva la legittimazione ad opporsi ex art. 615 c.p.c. al ricorso per intervento del creditore munito di titolo esecutivo, senza limitazioni, anche quando tale ricorso contenga un avvertimento analogo a quello stabilito dall'art. 492, comma, ult. parte, c.p.c. Per altro verso il creditore munito di titolo che intenda circoscrivere l'opposizione del debitore in un lasso temporale circoscritto, deve avvalersi di un pignoramento successivo e non limitarsi ad intervenire a norma dell'art. 499 c.p.c.

In conclusione

Dopo aver esaminato il difficile rapporto intercorrente tra la nuova preclusione di cui all'art. 615 c.p.c. e l'atto di intervento, occorre valutare se il debitore, opponente tardivo, recupera il potere di contestare il titolo esecutivo del creditore procedente in sede di controversie ex art. 512 c.p.c.. La circostanza che il dato normativo prevede il termine finale dell'opposizione nella pronuncia del provvedimento di vendita o assegnazione ex artt. 530, 552, 569 c.p.c., porta ad escludere tale possibilità. A conferma di tale assunto si aggiunga che nelle controversie ex art. 512 c.p.c., non si contesta il titolo esecutivo ma solo il diritto al riparto e che la sentenza resa dal giudice dell'opposizione non è appellabile (come accade nell'opposizione all'esecuzione) ma solo ricorribile ex art. 111 Cost. La stessa struttura della controversia distributiva esclude che possa rappresentare l'equivalente di un'opposizione all'esecuzione, o che possa contenerla. Di qui la conclusione che il debitore possa avvalersi del rimedio di cui all'art. 512 c.p.c. per escludere dal riparto un creditore intervenuto (con o senza titolo), o contestare l'ammontare di un determinato credito o una causa di prelazione, senza poter incidere sulla legittimità dell'azione esecutiva.

Guida all'approfondimento
  • Per approfondimenti si rimanda alla giurisprudenza segnalata nel testo.
  • Per la dottrina tradizionale v. Satta, La distribuzione del ricavato e l'opposizione all'esecuzione, in Riv. dir. proc., 1953, I, 98, secondo il quale la necessità dell'opposizione all'esecuzione avverso l'atto di intervento deriva dal titolo portato dal creditore, posto che solo il titolo giustifica il potere di espropriare e quello di incassare; pertanto se fosse sufficiente una mera contestazione per ottenere la sospensione dell'esecuzione, si priverebbe di qualsivoglia valore i provvedimenti che fondano l'esecuzione. Per la ricostruzione delle posizioni dottrinarie che impongono le forme dell'art. 512 c.p.c. alle opposizioni sollevate nei confronti dei creditori privi di titolo, v. Ziino, Esecuzione forzata ed intervento dei creditori, Palermo 2004, p. 202, sub n. 7.
  • Più di recente sul tema: Capponi, Manuale di diritto dell'esecuzione civile4, Torino 2016, p. 224; Pilloni, Accertamento ed attuazione del credito nell'esecuzione forzata, Torino 2011; Vincre, Profili delle controversie sulla distribuzione del ricavato, Padova 2010.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario