Poteri del difensoreFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 84
28 Agosto 2017
Inquadramento
Alla disciplina dei poteri del difensore sono dedicati i due commi dell'art. 84 c.p.c., il quale stabilisce che egli può compiere e ricevere tutti gli atti del processo nell'interesse della parte, salvo quelli riservati espressamente dalla legge ad essa, e non può invece compiere atti di disposizione del diritto in contesa, se non ne ha ricevuto espressamente il potere. Da un lato, dunque, la procura alle liti, dalla quale il difensore ripete i suoi poteri, possiede un contenuto tipico stabilito direttamente dalla legge, che lo abilita a compiere tutti gli atti del processo, dall'altro lato gli sono preclusi gli atti di disposizione del diritto in contesa, sicché occorre che la procura contempli espressamente il potere del difensore di transigere, conciliare, rinunciare alla lite, rilasciare quietanza, riscuotere pagamenti, ecc.. Tutti poteri spettanti al difensore presuppongono, oltre che la sua qualità di procuratore legalmente esercente, la costituzione in giudizio: la procura alle liti, cioè, conferisce al difensore il potere di compiere o ricevere atti processuali nell'interesse della parte, secondo la previsione dell'art. 84 c.p.c., solo se e dal momento in cui questa si costituisca in giudizio per mezzo del difensore medesimo (Cass. 17 giugno 1983, n. 4171). In caso di procura conferita a più difensori — perfettamente legittima stante l'assenza di disposizioni che limitano il numero di difensori che ciascuna parte può nominare — ciascuno di essi, in difetto di una espressa ed inequivoca volontà della parte circa il carattere congiunto e non disgiunto del mandato, ha pieni poteri di rappresentanza processuale (Cass., 29 marzo 2007, n. 7697). Il difensore, oltre a compiere direttamente gli atti del processo, può nominare sostituti, dotati della necessaria qualifica professionale, sotto la propria responsabilità (v. art. 9, 3° comma, r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578). Ed inoltre può anche affidare talune attività meramente esecutive a collaboratori che non abbiano la qualifica di procuratore legalmente esercenti richiesta dall'art. 83 c.p.c. (per l'iscrizione a ruolo v. Cass. 29 agosto 1997, n. 8189; Cass. 14 febbraio 1994, n. 1467; per il deposito del fascicolo di parte (Cass. 1° giugno 2001, n. 7449; Cass. 23 marzo1995, n. 3383). La norma non fa alcun riferimento all'assistenza stragiudiziale. Tuttavia la giurisprudenza riconosce che il conferimento dell'incarico al difensore comprende normalmente anche quello di prestare assistenza stragiudiziale alla parte, in relazione alle stesse vicende cui l'incarico si riferisce: e dunque nell'ambito di una procedura giudiziale civile il professionista può prestare, in relazione alla stessa pratica, sia attività giudiziale che attività stragiudiziale (Cass. 24 ottobre 2003, n. 16016). Si aggiunge, tuttavia, che la procura alle liti abilita il difensore allo svolgimento delle attività stragiudiziali «strettamente dipendenti da un mandato relativo alla difesa» (Cass. 5 marzo 2009, n. 5415). Ciò determina ricadute anche sul piano del compenso spettante al difensore. Difatti, affinché il professionista che stia prestando assistenza giudiziale, possa avere diritto ad un distinto compenso per prestazioni stragiudiziali, occorre che tali prestazioni abbiano autonoma rilevanza: viceversa, gli compete solo il compenso per l'assistenza giudiziale (v. oggi art. 20 D.M. Ministero Giustizia 10 marzo 2014, n. 55; v. in relazione alla disciplina previgente Cass., Sez. Un., 24 luglio 2009, n. 17357). La soluzione adottata si ricollega al complessivo tema dell'estensione dei poteri spettanti al difensore in dipendenza del contratto di patrocinio, riconducibile alla figura del mandato. La procura alle liti presuppone un contratto di mandato tra il difensore e il cliente, il cui contenuto è determinato dalla natura del rapporto controverso e dal risultato perseguito dal mandante nell'intentare la lite o nel resistere ad essa (Cass. 4 aprile 1997, n. 2910). Trattandosi di contratto di mandato, trova applicazione la disposizione dell'art. 1708 c.c., secondo cui il mandato comprende non solo gli atti per i quali e stato conferito, ma anche quelli — ivi comprese le attività stragiudiziali strettamente dipendenti — che sono necessari al loro compimento (Cass. 6 marzo 1979, n. 1392; Cass. 18 aprile 2003, n. 6264). Dunque, le attività dotate di una autonoma rilevanza rispetto all'esplicazione del mandato difensivo concernente un determinato giudizio si inseriscono nell'esecuzione del medesimo contratto, con quanto ne consegue sul piano della liquidazione dei compensi; al contrario, le attività che abbiano autonoma rilevanza esulano dall'ambito del mandato e, quindi, danno vita ad un diverso rapporto di prestazione d'opera professionale, da compensarsi a parte. Nell'ambito dei poteri che dal mandato alle liti derivano al difensore, questi gode della massima autonomia nell'effettuazione delle scelte della difesa tecnica, quali che siano le eventuali indicazioni provenienti dal cliente: il difensore, cioè, deve operare per lo scopo del conseguimento del risultato perseguito dal mandante con riguardo al rapporto controverso, ma, nel fare ciò, ha ampio margine di individuazione delle più opportune soluzioni tecniche da adottare. A fronte di ciò la parte non ha alcun potere di condizionare le scelte tecniche del difensore, ma può soltanto revocare la procura al difensore e sostituirlo con altro difensore, ex art. 85 c.p.c.: se così non fosse lo stesso principio dell'onere di patrocinio — l'onere di servirsi dell'intermediazione di un legale in grado di affrontare le difficoltà tecniche del processo e di assicurare, così, una effettiva difesa — ne rimarrebbe travolto. In un caso in cui una parte si doleva della dichiarazione di inammissibilità di alcune istanze proposte mediante lettere inviate al giudice, in contrasto con la difesa tecnica impostata dal suo legale, la Suprema Corte ha evidenziato l'insussistenza di « un ipotetico ed ampiamente opinabile diritto della parte che abbia già nominato il proprio avvocato ad esercitare attività difensiva indipendentemente — e quindi eventualmente anche in contrasto — con le scelte tecniche del proprio difensore, il che sarebbe quanto meno fonte di inefficienza e/o confusione per l'intero processo (particolarmente in campo civilistico); oltre che di potenziale menomazione (a causa di detta possibile inefficienza e/o confusione) persino per la difesa della parte medesima » (Cass. 20 ottobre 2009, n. 22186). Il mandato ad litem attribuisce così al procuratore, a norma dell'art. 84 c.p.c., la facoltà di proporre tutte le domande che siano comunque ricollegabili con l'originario oggetto, restando escluse dai poteri del procuratore soltanto le domande con le quali si introduce una nuova e distinta controversia eccedente l'ambito della lite originaria (Cass. 26 luglio 2005, n. 15619). In quest'ottica, spetta al difensore di proporre anche le domande riconvenzionali, atteso che esse, anche quando introducono un nuovo tema di indagine e mirano all'attribuzione di un autonomo bene della vita, restano sempre fondamentalmente connotate dalla funzione difensiva di reazione alla pretesa della controparte (Cass. 7 aprile 2006, n. 8207; Cass. 7 aprile 2000, n. 4356; Cass. 7 febbraio 1995, n. 1394), indipendentemente dall'atto su cui è apposta la procura, e cioè anche se in calce o a margine della copia notificata della citazione (Cass. 11 maggio 1998, n. 4744). In tema di chiamata in causa del terzo le regole da applicare — coerenti ai principi appena indicati — possono riassumersi in ciò, che il difensore può effettuare quelle chiamate che non determinano l'instaurazione di una nuova controversia e non eccedono i limiti della lite originaria, ma si collocano in stretto collegamento con l'oggetto in contesa già introdotto. Non occorre dunque un'apposita procura alle liti ai fini dell'integrazione necessaria del contraddittorio nei confronti di litisconosorte pretermesso (Cass. 30 marzo 1979, n. 1839). Vi è poi la chiamata — da ricondursi all'ipotesi della comunanza di cause di cui all'art. 106 c.p.c. — che il convenuto indirizza nei confronti del soggetto indicato come effettivamente e direttamente obbligato alla prestazione pretesa dall'attore: caso, quest'ultimo, che la S.C. ha ampiamente esaminato dall'angolo visuale dell'estensione della domanda dell'attore nei confronti del terzo chiamato, domanda che automaticamente si estende ad esso senza necessità di una istanza espressa, costituendo oggetto necessario del processo, nell'ambito di un rapporto oggettivamente unico, l'individuazione del soggetto effettivamente obbligato (Cass. 8 giugno 2007, n. 13374; Cass. 1° giugno 2006, n. 13131; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1522). Anche in tale ipotesi è da ritenere che la procura alle liti conferita dal convenuto conferisca al suo difensore il potere di chiamare in causa il terzo quale esclusivo responsabile di quanto dedotto dall'attore (Cass. 29 settembre 2015, n.19223; Cass. 17 ottobre 2001, n. 12672; Cass. 31 marzo 2000, n. 3998). Eguale responso fornisce la giurisprudenza nell'ipotesi parzialmente diversa in cui la parte convenuta chiami in causa un terzo in qualità di coobbligato (Cass. 3 marzo 2010, n. 5057). Maggiori difficoltà si incontrano con riguardo alla chiamata in garanzia, cui pure si riferisce il già citato art. 106 c.p.c.. Occorre anzitutto rammentare, sull'argomento, che la giurisprudenza ha per lungo tempo mantenuto ferma la distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria, distinzione che è stata approfondita essenzialmente in relazione al dettato dell'art. 32 c.p.c., il quale stabilisce che la domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la causa principale. Si trova così affermato essere «pacifico che l'art. 32 c.p.c. si riferisce alle ipotesi di garanzia propria, e non già di garanzia impropria» (Cass. 5 agosto 2002, n. 11711), sicché nell'un caso il simultaneus processus, in ossequio all'art. 32 c.p.c., è possibile, nell'altro no. E, più in generale, è parimenti richiamata come «sufficientemente pacifica la giurisprudenza di legittimità sulla distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria, nel senso che la prima si ha quando la causa principale e quella accessoria hanno in comune lo stesso titolo e anche quando ricorra una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande; la seconda, quando il convenuto tende a riversare le conseguenze del proprio inadempimento su di un terzo in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale, ovvero in base ad un titolo connesso al rapporto principale solo in via occasionale» (Cass. 2 aprile 2009, n. 7991). Volendo dunque semplificare, per i fini che qui interessano, nell'ipotesi di garanzia propria vi sarebbe un rapporto giuridico tendenzialmente unico, quantunque complesso, mentre nell'ipotesi di garanzia impropria ricorrerebbe una pluralità di rapporti: e dunque la chiamata in garanzia propria non eccederebbe i limiti della lite originaria, mentre il contrario accadrebbe con la chiamata in garanzia impropria. La distinzione così delineata ha trovato applicazione anche con riguardo alla delimitazione dei poteri spettanti al difensore. In quest'ottica è stato dunque affermato che la procura conferita per resistere alla domanda attrice abilita il difensore del convenuto a chiamare in causa un terzo in garanzia cosiddetta propria, o comunque per esigenze difensive, non anche ad esperire contro detto terzo azioni fondate su un titolo autonomo e distinto, implicanti un'estensione dell'ambito della lite (Cass. 17 maggio 1986, n. 3274), il che è quanto accade per l'appunto nella garanzia impropria. In fattispecie riconducibilii a quest'ultima ipotesi è stato viceversa affermato, in coerenza con la distinzione tra l'una all'altra forma di garanzia, che la chiamata in garanzia è nulla se effettuata da procuratore sfornito di apposita procura alle liti (Cass. 29 settembre 2009, n. 20825). E pertanto parrebbe potersi dire, guardando alle soluzioni così adottate, che la giurisprudenza riconosca al difensore il potere di effettuare la chiamata in garanzia propria, ma non quella impropria, salvo non si munisca allo scopo di un'apposita procura. Più di recente, tuttavia, la stessa distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria è stata sostanzialmente abbandonata (Cass., Sez. Un., 4 dicembre 2015, n. 24707), rivestendo carattere meramente descrittivo. Sicché si è infine affermato che la procura alle liti conferita in termini ampi ed omnicomprensivi (nella specie, «con ogni facoltà») è idonea, in base ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale attuativa dei principi di economia processuale, di tutela del diritto di azione nonché di difesa della parte ex artt. 24 e 111 Cost., ad attribuire al difensore il potere di esperire tutte le iniziative atte a tutelare l'interesse del proprio assistito, ivi inclusa la chiamata del terzo in garanzia cd. impropria (Cass., Sez. Un., 14 marzo 2016, n.4909). La S.C. ha poi comunque più volte affermato che il terzo chiamato in causa da un difensore sfornito della procura a proporre istanze eccedenti l'ambito originario della lite, il quale si costituisce in giudizio accettando il contraddittorio sul merito, non può dedurre la nullità dell'atto di chiamata (Cass. 5 ottobre 2001, n. 12293; Cass. 11 marzo 1992, n. 2929; Cass. 7 agosto 1990, n. 7984; Cass. 17 maggio 1986, n. 3274). Il difensore, nel determinare l'assetto delle domande connesse al mandato alle liti ricevuto, può, secondo diverse pronunce della S.C., rinunciare ad un singolo capo della domanda o ridurre le originarie domande (Cass. 14 marzo 1986, n. 1743; Cass. 28 ottobre 1988, n. 5859; Cass. 5 luglio 1991, n. 7413; Cass. 1° dicembre 1994, n. 10268; Cass. 28 gennaio 1995, n. 1047; Cass. 15 maggio 1997, n. 4283; Cass. 10 aprile 1998, n. 3734; Cass. 8 gennaio 2002, n. 140; Cass. 4 febbraio 2002, n. 1439). Viene precisato, in proposito, che simili rinunce si distinguono da quella agli atti del giudizio, la quale può invece essere fatta solo dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale nelle forme previste dall'art. 306 c.p.c. e non produce effetto senza l'accettazione della controparte. Altre volte, tuttavia, è stato affermato che la rinuncia, sia pure parziale, richiede un apposito mandato (Cass. 2 giugno 1999, n. 5394). Ed è stato stabilito che la limitazione della domanda ad alcuni soltanto dei capi prima formulati, fatta dal procuratore costituito non munito di procura speciale in sede di precisazione delle conclusioni, non solo non costituisce valida rinuncia agli atti del giudizio ex art 306 c.p.c., e quindi non esclude il diritto della controparte di insistere per la pronuncia di rigetto della domanda nel merito, ma neppure può configurarsi come valida rinuncia sostanziale alla relativa pretesa, mancando nel procuratore il necessario potere dispositivo, con la conseguenza che la domanda, in ordine alla quale e stata operata la limitazione, può essere riproposta in un successivo giudizio (Cass. 8 luglio 1981, n. 4488). Rientrano parimenti nel potere scaturente dal mandato alle liti, e sono quindi consentiti al difensore, atti come le rinuncia ad un'eccezione o il mutamento della domanda originaria, sempre che siano riconducibili alla mera scelta del mezzo tecnico più idoneo alla tutela degli interessi del cliente e non incidano sostanzialmente sul diritto controverso, determinandone la perdita o la riduzione, nel qual caso occorre un mandato speciale (Cass. 16 febbraio 1989; Cass. 23 gennaio 1995, n. 722). Sicché, mentre esula dai poteri del difensore, incaricato di richiedere la demolizione di una costruzione in appoggio al muro di confine eseguita dal convenuto, l'adesione alla domanda riconvenzionale da questi spiegata tendente alla costituzione della comunione del muro (Cass. 16 luglio 1997, n. 6477), egli può modificare la domanda di adempimento in quella di risoluzione (Cass. 11 febbraio 1993, n. 1698; Cass. 11 maggio 1987, n. 4325), rinunciare ad uno dei motivi d'impugnazione (Cass. 6 novembre 1990, n. 10657; Cass. 6 novembre 1990, n. 10658; Cass. 7 novembre 1990, n. 10704; Cass. 25 febbraio 1995, n. 2196; Cass. 15 maggio 2006, n. 11154), anche nel corso della discussione orale (Cass. 23 ottobre 2003, n. 15962), rinunziare ad eccezioni concernenti la nullità della consulenza tecnica (Cass. 17 marzo 2006, n. 5905). Il difensore, nella stessa prospettiva, può inoltre rinunciare a far valere la prescrizione dell'azione proposta ex adverso, qualora tale rinuncia discenda dalle difese svolte dal procuratore della parte, non potendo in tal caso rilevare in contrario la mancanza di potere dispositivo nel procuratore alle liti, la quale occorre per la rinuncia espressa, ma non per le conseguenze che possono derivare per implicito dalla linea difensiva adottata dal difensore, che, nell'adempimento del mandato conferitogli, come si diceva, sceglie in piena autonomia la condotta tecnico-giuridica ritenuta più confacente alla tutela del proprio cliente (Cass. 28 gennaio 1987, n. 782; Cass. 12 aprile 2002, n. 5226). D'altro canto, proprio perché è dominus della difesa tecnica, la responsabilità professionale del difensore non è esclusa né ridotta per la circostanza che una determinata scelta difensiva sia stata sollecitata dal cliente: così, ad esempio, per la proposizione di una domanda di risarcimento dei danni per lite temeraria, ex art. 96 c.p.c., proposta non già dinanzi al giudice della causa temerariamente introdotta, bensì dinanzi ad altro giudice (Cass. 28 ottobre 2004, n. 20869), ovvero per la richiesta di una prova testimoniale diretta a dimostrare la stipulazione di un contratto da provarsi per iscritto (Cass. 18 maggio 1988, n. 3463). Tra gli atti del processo che dalla legge non sono espressamente riservati alla parte, atti che il difensore può compiere avvalendosi della procura alle liti e, dunque, senza necessità di dotarsi di ulteriore apposito mandato, sono stati ricompresi, nell'ottica fino ad ora riassunta i casi che seguono.
Quanto al rilievo delle dichiarazioni del difensore sfavorevoli al proprio assistito occorre distinguere. Se inserite in atti di parte, recanti anche la sottoscrizione del diretto interessato, tali dichiarazioni hanno valore di confessione giudiziale, giacché vanno considerate come caratterizzate da animus confitendi ed indirizzate alla controparte, occorrendo ritenere che la parte abbia avuto la piena conoscenza di quelle ammissioni e ne abbia assunto anch'essa la titolarità (Cass. 27 febbraio 2017, n. 4908; Cass. 30 marzo 2001, n. 4727; Cass. 9 aprile 1996, n. 3275). Deve trattarsi, tuttavia, di sottoscrizione apposta sull'atto e non semplicemente di sottoscrizione apposta sulla procura alle liti (Cass. 6 dicembre 2005, n. 26686; Cass. 30 aprile 2010, n. 10607). Le dichiarazioni contenute in scritti difensivi non suscettibili di essere qualificati come « atti di parte » (memorie illustrative, comparse conclusionali, comparse di replica ecc.), come tali mancanti della sottoscrizione della parte, recando quella del solo difensore, possono essere utilizzate come elementi indiziari, valutabili ai sensi e alle condizioni dell'art. 2729 c.c., nel quadro del ragionamento presuntivo e, cioè, in considerazione complessiva e critica dell'intero materiale probatorio disponibile (Cass. 1° dicembre 1992, n. 12830; Cass. 18 aprile 2000, n. 4974; Cass. 4 marzo 2005, n. 4744; Cass. 15 giugno 2006, n. 13804; Cass. 20 maggio 2009, n. 11720). In questo contesto, quando il giudice impiega a fini probatori le dichiarazioni provenienti dai difensori, deve innanzitutto chiarire se si tratti o meno di dichiarazioni recanti anche la sottoscrizione della parte e, in caso di assenza di essa, può attribuire efficacia probatoria a dette dichiarazioni solo nella ricorrenza delle condizioni di gravità, precisione e concordanza del ragionamento presuntivo: di guisa che, incorre in violazione di legge il giudice che attribuisce valore confessorio alle dichiarazioni del difensore senza precisare se siano o meno sottoscritte dalla parte; incorre invece in vizio di motivazione il giudice che valuti le dichiarazioni del difensore, non sottoscritte dalla parte, tralasciando completamente altre risultanze probatorie di segno contrario (Cass. 5 maggio 2003, n. 6750). in ogni caso, sia in un senso che nell'altro, le dichiarazioni del difensore vanno prese in considerazione dal giudice (Cass. 8 agosto 2002, n. 11946). Il difensore non può compiere atti che incidano sostanzialmente sul diritto in contesa, determinandone la perdita o la riduzione. Un espresso conferimento del potere è dunque in linea generale necessario — in simmetria con quanto si è già accennato nel paragrafo precedente — nei casi seguenti.
Occorre un apposito mandato, naturalmente, per la conciliazione giudiziale, la quale esula dai poteri del difensore e, incidendo direttamente sul diritto controverso, può validamente essere compiuto dalla parte senza il ministero del difensore stesso: di guisa che il verbale di conciliazione è valido ed efficace anche quando non sia sottoscritto dal difensore, né questi abbia partecipato all'udienza nella quale le parti si sono conciliate (Cass. 18 settembre 2009, n. 20236). Regole diverse si applicano nel procedimento davanti al giudice di pace, giacché, ai sensi dell'art. 317, comma 2, c.p.c., il mandato a rappresentare comprende sempre quello a transigere e a conciliare. Se la parte, nel conferire la procura alle liti al difensore, gli conferisce anche il potere di transigere la controversia, l'estensione dei conseguenti poteri dispositivi va valutata, con accertamento di fatto che si sottrae al giudizio di legittimità, se congruamente motivato, non solo in relazione alla controversia in atto, ma anche in prevenzione di una lite futura avuto riguardo al disposto dell'art. 1965 c.c. (Cass. 4 aprile 1997, n. 2910). Riferimenti
M. Di Marzio, La procura alle liti. Poteri, obblighi e responsabilità dell'avvocato, Milano, 2011 |