Livia Di Cola
03 Agosto 2017

Per comprendere appieno il fenomeno del giudicato civile bisogna distinguere i suoi due aspetti del giudicato formale (art. 324 c.p.c.) e sostanziale (art. 2909 c.c.). Il primo si ha quando una sentenza o un provvedimento decisorio su di un diritto non è più soggetto alle impugnazioni ordinarie, quindi non può più essere modificato dal giudice superiore, né, tantomeno, dal giudice che lo ha emesso. Il secondo riguarda gli effetti che il provvedimento passato in giudicato formale produce in ambito sostanziale.
Inquadramento

Per comprendere appieno il fenomeno del giudicato civile bisogna distinguere i suoi due aspetti del giudicato formale (art. 324 c.p.c.) e sostanziale (art. 2909 c.c.).

Il giudicato formale si ha quando una sentenza o un provvedimento decisorio su di un diritto non è più soggetto alle impugnazioni ordinarie, quindi non può più essere modificato dal giudice superiore, né, tantomeno, dal giudice che lo ha emesso.

L'art. 324 non distingue tra i vari tipi di sentenze (definitive e non definitive) e non parla di provvedimenti diversi dalla sentenza.

I cosiddetti provvedimenti decisori sommari (decreto ingiuntivo; ordinanza di convalida di fratto) sono mediatamente soggetti alle impugnazioni ordinarie: quando ci si oppone ad esse si deve compiere tutto l'iter procedimentale ordinario, inclusa la fase delle impugnazioni. In caso di mancata opposizione, tuttavia, il provvedimento passa immediatamente in giudicato, perché l'ingiunto o il convenuto con il suo atteggiamento passivo rinuncia alla cognizione ordinaria.

Un altro provvedimento, l'ordinanza che chiude il procedimento sommario di cognizione, per espressa disposizione normativa è soggetta ad appello e se non impugnato passa in giudicato (art. 702 quater c.p.c.).

Il giudicato sostanziale riguarda gli effetti che il provvedimento passato in giudicato formale produce in ambito sostanziale. Tali effetti sono indicati dall'art. 2909 c.c., ai sensi del quale «L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa».

In altre parole, quello che fa stato è l'accertamento sul rapporto sostanziale, quindi gli effetti giuridici dei fatti sottoposti alla cognizione del giudice, ma non l'accertamento sulla singola questione di diritto o di fatto in sé considerata.

In evidenza

Cass. civ., sez. trib., 3 dicembre 2014, n. 25546 ha affermato: «Una lite è coperta dall'efficacia di giudicato di una precedente sentenza resa tra le stesse parti qualora il giudizio introdotto per secondo investa un identico rapporto giuridico rispetto a quello che ha già formato oggetto del primo. Ne consegue che il giudicato non si estende al principio di diritto affermato in una diversa controversia, quantunque in forza di asseriti medesimi presupposti di fatto, ove siano investite singole questioni di fatto o di diritto».

Il giudicato è la “regola del caso particolare”, perché il giudice applica la legge generale ed astratta alla fattispecie sottoposta al suo esame, tenendo conto delle sue peculiarità specifiche.

Questa regola non è derogabile né dalle parti né dal giudice, salvo i casi eccezionali in cui sia possibile agire con le impugnazioni straordinarie.

I provvedimenti idonei al giudicato

Non sono idonei al giudicato i provvedimenti cautelari perché chiudono una fase ancillare rispetto al giudizio di cognizione sul diritto; né sono idonei al giudicato i provvedimenti di volontaria giurisdizione, che sono sempre revocabili e modificabili dal giudice che li ha emessi (art. 742 c.p.c.).

Sono idonei al passaggio in giudicato i provvedimenti con valenza di sentenza di merito, a prescindere dalla forma.

Un caso di provvedimento diverso da sentenza idoneo al passaggio in giudicato è l'ordinanza emessa al termine del provvedimento sommario generale, disciplinato agli artt. 702 bis ss. Per espressa disposizione di legge questa ordinanza è soggetta ad appello, e produce gli effetti di cui all'art. 2909 c.c., se non appellata nel termine di trenta giorni dalla notificazione o comunicazione (art. 702 quater c.p.c.).

Per quel che concerne le sentenze, l'art. 324 non distingue tra i provvedimenti con questa forma per dichiararli idonei o meno al giudicato formale.

Perciò, tutte le sentenze sono irretrattabili e non più revisionabili neanche dal giudice superiore una volta che sia decorso il termine per impugnarle, tuttavia non tutte sono idonee al passaggio in giudicato sostanziale, perché non tutte riguardano il diritto soggettivo complessivamente considerato. Alcune di esse, invece, concernono tappe per arrivare alla definizione della vicenda sostanziale sottoposta a giudizio.

La pronuncia "in rito" dà luogo soltanto al giudicato formale, con la conseguenza che essa produce effetto limitato al solo rapporto processuale nel cui ambito è emanata e, pertanto, non è idonea a produrre gli effetti del giudicato in senso sostanziale (v. tra le molte: Cass. 16 dicembre 2014, n. 26377).

Quanto sopra detto, è confermato dall'art. 44 c.p.c., ai sensi del quale l'ordinanza che dichiara l'incompetenza del giudice che l'ha pronunciata, se non è impugnata con l'istanza di regolamento di competenza, rende incontestabile l'incompetenza dichiarata e la competenza del giudice in essa indicato, purchè la causa sia riassunta in termini e purchè non si tratti di incompetenza per materia o per territorio inderogabile. Questo vuol dire che se il processo si estingue, teoricamente, la causa può essere riiniziata da capo davanti allo stesso ufficio giudiziario, senza che vi sia alcuna preclusione di sorta.

In evidenza

Si veda in proposito Cass. civ., sez. II, 26 novembre 2014, n. 25144, secondo la quale: «La sentenza del giudice che statuisca unicamente sulla competenza non contiene alcuna pronuncia di merito, né esplicita né implicita, idonea a passare in giudicato, anche nell'ipotesi che abbia esaminato e deciso delle questioni preliminari di merito ai fini dell'accertamento della competenza, sicché dà luogo ad un giudicato solo formale e non preclude al giudice dichiarato competente l'esame e l'applicazione, per la decisione di merito, delle norme di diritto sostanziale, ancorché in contrasto con le premesse della sentenza sulla competenza».

Le uniche sentenze di rito a sopravvivere all'estinzione del processo sono per espressa disposizione dell'art. 310, secondo comma, c.p.c. le sentenze che regolano la competenza, cioè le sentenze emesse dalla Corte di Cassazione in sede di regolamento di competenza, alle quali si possono estendere in via analogica le sentenze della Cassazione che disciplinano la giurisdizione.

In generale, la mancata riassunzione del giudizio di rinvio, ai sensi dell'art. 393 c.p.c., determina l'estinzione dell'intero processo, con conseguente caducazione di tutte le attività espletate, salva la sola efficacia del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione.

Neppure tutte le sentenze di merito sono idonee al giudicato formale. Tali non sono le sentenze non definitive su questioni preliminari di merito, che accertano negativamente la sussistenza di fatti impeditivi, modificativi ed estintivi inerenti al rapporto giuridico principale, ma non ancora quest'ultimo. Tali sentenze, ai sensi del secondo comma dell'art. 310, sopravvivono all'estinzione del processo, pur non potendo esplicare alcuna forza di giudicato sostanziale. Ciò vuol dire che esse comportano quantomeno una preclusione di ordine processuale: esse impediscono a qualsiasi altro giudice di merito, che si trovi di fronte allo stesso oggetto di giudizio, di decidere in maniera difforme dalla precedente sentenza sul punto.

Al contrario, si ritiene che le cosiddette sentenze parzialmente definitive (art. 277 c.p.c.), le quali, pur non definendo totalmente il giudizio, decidono interamente alcune delle più domande proposte in cumulo in unico processo, in considerazione del loro oggetto, una volta divenute stabili ex art. 324 c.p.c., producano senz'altro l'autorità di cosa giudicata ex art. 2909 c.c. e non siano travolte dall'estinzione del processo (Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 235).

Queste sentenze si hanno quando vengono presentate in alternativa o subordine tra di loro domande con un comune petitum ma con una causa petendi differente: così, se viene respinta una domanda, abbiamo una sentenza negativa su di un rapporto sostanziale, perciò idonea al passaggio in giudicato, non definitiva perché ancora non si è deciso definitivamente su l'attribuzione dell'oggetto del giudizio. Il processo prosegue per decidere sull'altra domanda e definitivamente sul petitum.

Dovrebbero passare in giudicato sostanziale anche le sentenze che decidono su parte della domanda, come la condanna generica (art. 278 c.p.c.), da considerare parte di una fattispecie processuale e, quindi, sostanziale complessa, in via di formazione progressiva.

I limiti oggettivi del giudicato

Un comune brocardo vuole che il giudicato copra “il dedotto ed il deducibile”.

Vediamo quale è il suo significato.

In primo luogo, l'accertamento incontrovertibile scende sull'oggetto sottoposto alla cognizione del giudice, cioè sull'oggetto del giudizio, individuato dalla domanda o dalle domande delle parti.

Questa conclusione è perfettamente logica se si tengono presenti i principi che governano il nostro processo: il principio della domanda (art. 99 c.p.c.; art. 2907 c.c.) ed il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 c.p.c.).

Quindi, per identificare l'oggetto del giudicato bisogna aver riguardo a quelli che sono gli elementi identificativi della domanda.

Gli elementi oggettivi di ciascuna domanda sono dati da: petitum mediato, cioè l'oggetto materiale del diritto soggettivo; la causa petendi, ovvero la ragione giuridica del domandare, che coincide con i fatti costitutivi del diritto, posti in relazione ai fatti lesivi del diritto, nella maggior parte dei casi.

Oggetto del giudizio e del giudicato: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Divisa è la dottrina intorno all'oggetto del giudizio e del giudicato.

Un primo orientamento ritiene che il diritto soggettivo materiale, una volta introdotto nel processo, debba essere valutato nella sua interezza e negli stessi termini debba essere dichiarato in modo obbligatorio per il futuro, nel senso che sono coinvolti, come possibile materia di discussione prima e di cognizione poi, con conseguente onere per le parti di deduzione a pena di preclusione, tutti i fatti costitutivi e tutti i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi.

Perciò, a fronte di un diritto assoluto (diritti autodeterminati) il giudicato cadrebbe su tutti possibili fatti costitutivi (causa petendi) collegabili allo stesso oggetto sostanziale (petitum). Questo perché i diritti assoluti verrebbero identificati dal loro oggetto materiale.

A fronte di un diritto relativo, invece, il giudicato si formerebbe con riferimento alla specifica causa petendi dedotta in giudizio. Infatti, potendosi avere più diritti relativi, tra le stesse parti e con il medesimo oggetto, l'elemento distintivo di ciascuno diventerebbe il fatto costitutivo dello stesso.

V. Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, cit., 197 ss.; Id., Reigiudicata civile, in Dig. civ., Torino, 1997, IV, 404 ss.; Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2015, I, cap. VI.

Meno seguita la tesi che vuole che l'oggetto del giudizio e del giudicato abbiano confini meno ampi rispetto al diritto materiale dedotto in giudizio e coincidenti con il titolo costitutivo del diritto fatto valere con la domanda di tutela.

Seguendo questa linea di pensiero verrebbe azzerata la differenza di trattamento tra diritti relativi (diritti eterodeterminati) e diritti assoluti (diritti autodetermininati).

In teoria, inoltre, si potrebbe sempre agire per far valere lo stesso diritto assoluto nei confronti della stessa parte quando collegata ad una differente causa petendi.

V. Montesano, Diritto sostanziale e processo civile di cognizione nell'individuazione della domanda, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 63 ss., specie 70 ss.; Id., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994, 262 ss.

Il riferimento al deducibile, fa si che il giudicato impedisca di far valere tutte le quelle questioni (di rito o di merito; di fatto o di diritto) che non sono state sollevate in precedenza, e che sarebbero idonee a mettere in discussione la decisione raggiunta e non più soggetta a possibilità di revisione.

Limiti soggettivi del giudicato

Ai sensi dell'art. 2909 c.p.c., l'accertamento contenuto nella sentenza estende i suoi effetti alle parti processuali, ma anche ad i loro eredi ed aventi causa.

Destinatari del giudicato sono quindi le parti in senso sostanziale, cioè oltre a coloro che sono indicate come formalmente parti nella sentenza, anche i loro successori a titolo universale (eredi) e quelli a titolo particolare (aventi causa).

Gli eredi e gli aventi causa dell'art 2909 c.c. sono coloro che subentrano nella situazione di diritto sostanziale quando l'accertamento è già stato compiuto.

Se la successione nel diritto controverso avviene nel corso del processo, quindi quando il giudicato non si è ancora formato, si applicano gli artt. 110 – 111 c.p.c. e, per il caso di morte di una delle parti, le disposizioni interruzione del processo 299 ss. c.p.c.

L'efficacia del giudicato sostanziale rispetto ai terzi: opinioni a confronto

Secondo una prima opinione che si fa risalire a Liebman (Efficacia ed autorità della sentenza, Milano, 1935; Id., Ancora sulla sentenza e sulla cosa giudicata, in Riv. dir. proc., 1936, I, 237 ss.) bisognerebbe distinguere tra: l'efficacia dell'accertamento del diritto sostanziale, che si esplicherebbe verso tutti; l'autorità di giudicato che riguarderebbe invece solo le parti. Questo sarebbe dovuto al fondamento pubblicistico del processo che imporrebbe di non estendere gli effetti del giudicato a coloro che non abbiano avuto modo di agire e di difendersi all'interno di esso.

Uno svolgimento evolutivo di questa opinione (Cavallini, L'efficacia (riflessa) della sentenza nel pensiero di E.T. Liebman, in Riv. dir. proc., 2007, 1221 ss.) considera il giudicato sostanziale limitato alle parti, ad eccezione dei casi espressamente contemplati dalla legge (ad esempio 1485 c.c. e 111, comma 4 c.p.c.).

Una seconda opinione che si fa risalire ad Allorio (L'autorità di cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935), pur partendo dal presupposto del fondamento pubblicistico del processo, considera contemporaneamente la complessità dei rapporti sostanziali tra privati, spesso intrecciati tra di loro. Perciò, il giudicato spiegherebbe efficacia riflessa nei confronti di soggetti estranei al rapporto processuale, quando questi siano titolari di un diritto dipendente dalla situazione definita in quel processo o, comunque, di un diritto subordinato a tale situazione (cosi, tra le altre, Cass., 8 gennaio 2015, n. 57).

Il giudicato rebus sic stantibus

Anche quando il giudizio ha ad oggetto un rapporto sostanziale di durata, la sentenza che conclude il giudizio passa in giudicato, quindi non è più revocabile né modificabile. Tuttavia, trattandosi di un rapporto di durata è possibile che le condizioni di fatto mutino nel tempo e che l'oggetto del provvedimento sia superato dalla realtà. Perciò, si dice che il giudicato è rebus sic stantibus, ovvero che vale come legge del caso concreto fino a quando non cambiano i presupposti fattuali ai quali è legato.

In questa eventualità si può tornare dal giudice per chiedere una nuova pronuncia sullo stesso rapporto, tra le stesse parti, ma con condizioni di fatto differenti.

In evidenza

Così ad esempio Cass. 3 febbraio 2017, n. 2953, in Giust. civ., Mass., 2017, stabilisce: «Ai sensi dell'art. 9 della l. n. 898/1970 (così come modificato dall'art. 2 della l. n. 436/1978 e dall'art. 13 della l. n. 74/1987), le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata "rebus sic stantibus", rimanendo cioè suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all'affidamento dei figli in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi, mentre la rilevanza dei fatti pregressi e delle ragioni giuridiche non addotte nel giudizio che vi ha dato luogo rimane esclusa in base alla regola generale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile. Pertanto, nel caso di mancata attribuzione dell'assegno divorzile, in sede di giudizio di divorzio per rigetto o per mancanza della relativa domanda, la determinazione dello stesso può avvenire solo in caso di sopravvenienza di fatti nuovi concernenti le condizioni o il reddito di uno dei coniugi».

Il giudicato interno

Tutte le sentenze non definitive, aventi ad oggetto questioni astrattamente idonee a definire il giudizio, di rito o di merito, rilevabili d'ufficio o solo su istanza di parte, se non impugnate nei termini né fatte oggetto di riserva di impugnazione, passano in giudicato interno. In tal modo, non sarà più possibile per tutto il corso del procedimento, inclusa la fase delle impugnazioni, affrontare di nuovo la questione coperta da giudicato.

In evidenza

Cass. 22 gennaio 2007, n. 1284 ha stabilito: «Qualora una questione abbia formato oggetto di decisione del giudice di primo grado e tale decisione non sia stata impugnata, né sotto il profilo della violazione delle norme del processo, né sotto quello della violazione delle norme di diritto, ed il giudice dell'impugnazione, altrimenti adito, non abbia rilevato d'ufficio il fatto che si era formato un giudicato interno per cui l'appello avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, spetta alla Corte di cassazione, adita con ricorso, rilevare d'ufficio il giudicato, cassando senza rinvio la sentenza di secondo grado, perché il processo non poteva essere proseguito».

Le questioni pregiudiziali o preliminari di merito, rilevabili d'ufficio, sono coperte da giudicato interno anche se implicitamente risolte dal giudice, purchè il capo della sentenza comportante, con una decisione di merito, la definizione implicita delle dette questioni non sia investito da impugnazione.

Il giudicato implicito richiede, per la sua formazione, che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si vuole essere stata risolta implicitamente sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, tale da determinare l'assoluta inutilità di una decisione sulla seconda questione, oltre alla mancata impugnazione della questione decisa in modo espresso (V. Cass. 27 ottobre 2011, n. 22416).

L'eccezione di giudicato interno ed esterno

Il giudicato sia esterno che interno può essere eccepito dalla parte o rilevato d'ufficio dal giudice.

In evidenza

In proposito la recentissima Cass. 27 aprile 2017, n. 10379, in Guida al diritto, 2017, 25, 30

ha precisato: «Il giudicato esterno è rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità, in quanto il giudicato - esterno o interno - è patrimonio non esclusivo delle parti, ma è rivolto a garantire l'interesse pubblico della stabilità delle decisioni, collegata all'attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata e dunque la relativa eccezione non trova ostacolo nel divieto posto dall'art. 372 c.p.c. il quale, riferendosi esclusivamente ai documenti che potevano essere prodotti nel giudizio di merito, non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato. Questi ultimo, infatti - comprovando la sopravvenuta formazione di una regula iuris cui il giudice ha il dovere di conformarsi - attengono a una circostanza che incide sullo stesso interesse delle parti alla decisione e sono quindi riconducibili alla categoria dei documenti riguardanti l'ammissibilità del ricorso. Qualora il giudicato si sia formato dopo la notifica del ricorso per cassazione, i relativi documenti giustificativi possono essere prodotti, dalla parte regolarmente costituitasi, fino all'udienza di discussione».

Riferimenti
  • Allorio, L'autorità di cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935;
  • Liebman, Efficacia ed autorità della sentenza, Milano, 1935;
  • Id., Ancora sulla sentenza e sulla cosa giudicata, in Riv. dir. proc., 1936, I, 237 ss.;
  • Menchini, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano, 1987, 197 ss.;
  • Id., Il giudicato civile, Torino, 1988;
  • Id., Reigiudicata civile, in Dig. civ., Torino, 1997, IV, 404 ss.;
  • Montesano, Diritto sostanziale e processo civile di cognizione nell'individuazione della domanda, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 63 ss.;
  • Id., La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1994;
  • Cavallini, L'efficacia (riflessa) della sentenza nel pensiero di E.T. Liebman, in Riv. dir. proc., 2007, 1221 ss.; Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2015, I.

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