Pronuncia della sentenza nel processo del lavoro

Ida Ponticelli
08 Febbraio 2017

La pronuncia della sentenza nel processo del lavoro è disciplinata dall'art. 429 c.p.c. comma 1 secondo cui «nell'udienza, il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza».
Inquadramento

La pronuncia della sentenza nel processo del lavoro è disciplinata dall'art. 429 c.p.c. comma 1 secondo cui «nell'udienza, il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza».

Tale disposizione è la conseguenza dei principi di immediatezza, concentrazione e oralità che caratterizzano il rito lavoro e, in quest'ottica, si pone in termini di vera e propria norma di chiusura del sistema. Nel processo del lavoro, infatti, stante il divieto di udienze di mero rinvio (art. 420 c.p.c.), ogni udienza – compresa la prima – è destinata, oltre che all'assunzione delle prove, alla discussione e quindi all'immediata pronuncia della sentenza, mentre non è prevista un'udienza di precisazione delle conclusioni le quali, salvo modifiche autorizzate dal giudice per gravi motivi, restano pertanto per l'attore quelle di cui al ricorso e per il convenuto quelle di cui alla memoria di costituzione.

Nel rito lavoro è, dunque, esclusa la possibilità per il giudice di riservarsi la decisione, mentre è ammesso l'utilizzo – ancorché irregolare – dell'istituto della riserva nel caso in cui costui, al termine dell'udienza di discussione, si riservi la decisione della causa e, successivamente, con un'ordinanza resa fuori udienza, fissi una nuova udienza di discussione, pronunciando in tale sede la sentenza.

Discussione e conclusioni: il deposito di note difensive

Il modello decisorio cristallizzato al primo comma dell'art. 429 c.p.c. - e basato sulla contestualità di discussione e decisione - non esclude che la discussione orale della causa possa essere preceduta dal deposito di note difensive, la cui ammissibilità è però subordinata alla richiesta (anche di una sola) delle parti, non potendo il giudice disporre detto deposito d'ufficio.

L'art. 429 c.p.c. comma 2, invero, è chiaro nell'affermare che il giudice, se lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, concede loro «un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa all'udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine suddetto, per la discussione e la pronuncia della sentenza».

La concessione di un termine per il deposito di note scritte è rimessa al prudente apprezzamento del magistrato, la cui valutazione costituisce esercizio di un potere discrezionale ed insindacabile.

Si ritiene, in ogni caso, in giurisprudenza che il deposito di note difensive non autorizzate non comporti alcuna nullità, fermo restando il dovere del giudice di non tenerne conto ai fini della decisione.

La lettura del dispositivo

La disciplina delle modalità di pronuncia della sentenza emessa all'esito di procedimenti trattati con il rito del lavoro è stata modificata dall'art. 53, d.l. 112/2008 conv. in l. n. 133/2008, il quale ha sostituito il precedente art. 429, comma 1, c.p.c., nella parte in cui consentiva al giudice di dare immediata lettura solo del dispositivo, mentre il testo completo della sentenza poteva essere depositato in cancelleria nel termine (ordinatorio) di quindici giorni dalla pronuncia (art. 430 c.p.c.); data alla quale deve in ogni caso assegnarsi rilievo ai fini del decorso dei termini di impugnazione della sentenza, poiché è con tale deposito che si perfeziona la fattispecie della pubblicazione.

Già nella vigenza della precedente formulazione dell'art. 429 c.p.c., la giurisprudenza riconosceva al giudice la facoltà di redigere anche la motivazione e darne lettura contestualmente a quella del dispositivo (secondo il modulo decisorio dell'art. 281-sexies c.p.c.); in tale ipotesi, si ha dunque l'enunciazione in udienza anche delle ragioni di fatto e di diritto che sono alla base della decisione, con la conseguenza che la parte motiva e quella dispositiva concorrono entrambe a cristallizzare la statuizione, consentendo, mediante un'interpretazione complessiva, il passaggio in giudicato anche delle enunciazioni contenute soltanto nella motivazione (Cass. 29 gennaio 2004 n. 1673).

Nel testo vigente, invece, la pronuncia contestuale di dispositivo e motivazione – e dunque la lettura in udienza della sentenza integrale – costituisce la regola.

Va comunque evidenziato che, in casi di particolare complessità, l'art. 429 c.p.c. novellato fa salva la possibilità per il giudice di pronunciare in udienza il solo dispositivo, fissando un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza.

E', altresì, ammissibile la motivazione della sentenza anche con riferimento a precedenti conformi del medesimo ufficio sempre che, per consentire un possibile e agevole controllo della motivazione, si dia conto dell'identità di contenuto tra la situazione di fatto e di diritto riferita al precedente e quella riferita alla fattispecie oggetto di decisione (Cass., 22 maggio 2012, n. 8053).

Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, l'omessa lettura del dispositivo in udienza determina la nullità insanabile della sentenza da farsi valere come motivo di gravame, senza che il giudice di secondo grado, che abbia rilevato tale nullità, ove dedotta con l'appello, possa né rimettere la causa al primo giudice - non ricorrendo alcuna delle ipotesi di rimessione tassativamente previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c. - né limitare la pronunzia alla mera declaratoria di nullità, dovendo decidere la causa nel merito (Cass., 9 marzo 2010, n. 5659). Diversamente, ove l'omissione abbia riguardato la decisione assunta dal giudice d'appello, la Corte di cassazione, investita della relativa censura, deve limitare la pronunzia alla declaratoria di nullità con rimessione della causa al primo giudice senza decidere nel merito, trovando applicazione tale ultima regola, desumibile dagli artt. 353 e 354 c.p.c., esclusivamente nei rapporti tra il giudizio di appello e quello di primo grado (Cass., 28 novembre 2014, n. 25305).

Diversa ipotesi è il contrasto tra il dispositivo letto in udienza e quello trascritto in calce alla sentenza depositata. In simili evenienze, la Suprema Corte di Cassazione (Cass., 2 dicembre 2010, n. 44642) ha escluso la nullità della sentenza, affermando la prevalenza del dispositivo letto in udienza su quello trascritto in calce alla motivazione, poiché portato a conoscenza delle parti per mezzo della pubblica lettura, con la conseguenza che a tale dispositivo – e non già a quello risultante in sede di redazione della sentenza – dovrà aversi riguardo per individuare la parte soccombente legittimata a proporre impugnazione.

In evidenza

Nel rito del lavoro, una volta letto in udienza il dispositivo della sentenza ai sensi dell'art. 429 c.p.c., il giudice si spoglia del potere decisionale, sicché l'adozione di un nuovo dispositivo, di contenuto diverso dal precedente da parte del medesimo giudice successivamente costituisce violazionedel principio di immodificabilità della decisione da parte del giudice che l'abbia emessa, con la conseguente nullità radicale della relativa sentenza (Cass. 3 febbraio 2015 n. 1906)

I rapporti tra il dispositivo e la motivazione

Il meccanismo di formazione della sentenza delineato dall'art. 429 c.p.c. ha fatto si che nella pratica si verificassero vizi sconosciuti alla sentenza civile. Nel rito del lavoro, infatti, il dispositivo della sentenza non è – come nel rito ordinario – un atto puramente interno, modificabile dallo stesso giudice fino a quando la sentenza non venga pubblicata, ma è atto a rilevanza esterna, che racchiude gli elementi del comando giudiziale i quali non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione, atteso che la sua lettura in udienza fissa in maniera definitiva tale comando, portandolo ad immediata conoscenza delle parti.

Da ciò discende il principio della non integrabilità del dispositivo con la motivazione, secondo il quale allorquando la motivazione contenga statuizioni mancanti nella parte dispositiva o, viceversa, non siano riportate nel dispositivo statuizioni rinvenibili formalmente solo nella parte motiva, deve assegnarsi necessaria prevalenza al solo dispositivo.

Ulteriore conseguenza è che l'eventuale contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo costituisce un'ipotesi di nullità della sentenza, da far valere in sede di appello con uno specifico motivo di impugnazione, essendo esclusa la rilevabilità d'ufficio di tale vizio da parte del giudice del gravame.

Corollario di tale impostazione rigoristica è che, secondo la giurisprudenza prevalente, in tale ipotesi non può trovare applicazione il procedimento di correzione ex art. 287 c.p.c. (Cass., 21 marzo 2008, n. 7698).

Non mancano tuttavia opinioni differenti, che suggeriscono interpretazioni volte a temperare il rigore dei principi appena esposti.

IL CONTRASTO TRA DISPOSITIVO E MOTIVAZIONE: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Il contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo della sentenza - non consentendo di individuare la statuizione del giudice attraverso una valutazione di prevalenza di una delle contrastanti affermazioni contenute nella decisione - non può essere eliminata con il rimedio della correzione degli errori materiali, determinando invece la nullità della pronuncia ai sensi dell'art. 156, secondo comma, c.p.c.

Cass., 17 dicembre 2008, n. 29490

La regola della non assoggettabilità della fattispecie di contrasto fra dispositivo letto in udienza e motivazione della sentenza ad una interpretazione correttiva o alla correzione ex art. 287 c.p.c. non è regola di portata assoluta e generale, subendo una doverosa deroga - anche nel processo del lavoro - ogni qual volta le parti possano riscontrare agevolmente che si sia in presenza di un errore materiale dalla mera lettura del dispositivo, avendo riguardo all'intero suo contenuto e ponendolo in relazione agli atti processuali a conoscenza delle parti stesse.

Cass., 17 marzo 2006, n. 5894

Nel rito del lavoro, la nullità della sentenza per contraddittorietà tra motivazione e dispositivo non si verifica allorché il contrasto tra di essi è solo apparente, perché può essere risolto attraverso l'interpretazione del dispositivo, a prescindere dalle improprietà terminologiche utilizzate, ed alla luce della motivazione.

Cass., 21 giugno 2016, n. 12841

Interessi e rivalutazione: aspetti sostanziali

Per quanto concerne il contenuto della sentenza, occorre soffermarsi sull'ipotesi, specificamente prevista dalla legge, che la statuizione sia di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro. In simili evenienze l'art. 429 comma 3 c.p.c. dispone che il giudice «deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto».

Tale disposizione contiene, innanzitutto, una statuizione di diritto sostanziale laddove - stabilendo che in ipotesi di inadempimento di crediti di lavoro il lavoratore ha diritto alla corresponsione non solo degli interessi legali ma anche al maggior danno subito a causa della svalutazione monetaria, il tutto con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto, indipendentemente dalla necessità di qualsiasi atto di costituzione in mora – per un verso, offre al giudice il criterio per la determinazione degli interessi e dei danni, per altro verso, solleva il creditore dall'onere di provare il maggior danno subito per effetto della svalutazione monetaria, il quale è dunque presunto juris et de jure.

Costituisce cioè diritto vivente, sulla base della univoca prassi applicativa cui è stata sottoposta questa disposizione, l'interpretazione per cui gli effetti dannosi della svalutazione sono posti sempre a carico del datore di lavoro quali che siano le condizioni economiche del lavoratore e la rivalutazione monetaria deve essere liquidata dal giudice senza che sia necessaria la prova né in ordine al fatto della svalutazione né soprattutto in ordine al danno subito e alla sua prevedibilità.

La norma è stata oggetto di numerosi interventi della Corte Costituzionale, sollecitati da ordinanze che avevano sollevato, sotto più profili, dubbi di legittimità costituzionale sul trattamento privilegiato in tal modo riservato ai crediti dei lavoratori rispetto a quelli del datore di lavoro, sull'esclusione da tale trattamento dei lavoratori non menzionati nell'elencazione di cui all'art. 409 c.p.c., sulla mancata considerazione delle condizioni soggettive di alcune categorie di lavoratori e di datori di lavoro.

La Corte Costituzionale ha invero individuato nella natura privilegiata dei crediti dei lavoratori la ragione prima giustificativa della norma, edella legittimità costituzionale del difforme trattamento a questi riservato: in ragione di tale natura privilegiata dei crediti di lavoro, sono apparse infatti razionali le esigenze cui la norma risponde, ovvero di mantenere inalterato il potere di acquisto in relazione al principio della giusta retribuzione di cui all'art. 36 Cost., di porre una remora al ritardo nell'adempimento, di riequilibrare le posizioni economiche delle parti in causa (Corte Cost. 14 gennaio 1977 n. 13 e 20 gennaio 1977 n. 43).

Quanto ai parametri di calcolo della rivalutazione monetaria, la liquidazione del danno da svalutazione deve effettuarsi alla stregua del criterio legale rappresentato dagli indici ISTAT, di cui all'art. 150 disp. att.

Segnatamente, costituisce orientamento consolidato – a seguito dell'intervento delle Sezioni Unite con sentenza del 29 gennaio 2001 n. 38 - che gli interessi legali devono essere calcolati sul capitale rivalutato, con scadenza periodica dal momento dell'inadempimento fino a quello del soddisfacimento del creditore, atteso che, da un lato, la rivalutazione ex art. 429 c.p.c., mediante il meccanismo dell'indicizzazione del credito, tende ad annullare, al pari del "maggior danno" exart. 1224 c.c., la perdita patrimoniale del creditore soddisfatto tardivamente (danno emergente), mentre gli interessi compensano in misura forfettaria e senza bisogno di prova il mancato guadagno della liquidità (lucro cessante), e che, dall'altro, per il perseguimento di tale duplice finalità non è necessario, nè è previsto da alcuna norma, calcolare gli interessi su un credito superiore a quello che via via matura per effetto della svalutazione monetaria.

In tal modo, il calcolo degli interessi sul capitale comunque rivalutato impone, dunque, al debitore un aggravio aggiuntivo - rispetto all'obbligo risarcitorio – coerente con la già segnalata funzione compulsiva, di pena privata, nei confronti del datore di lavoro inadempiente della disposizione di cui al terzo comma dell'art. 429 c.p.c..

Interessi e rivalutazione: aspetti processuali

Per quanto concerne gli aspetti processuali della disposizione in commento, la giurisprudenza e la dottrina hanno desunto dall'uso del verbo “deve” adoperato dall'art. 429 c.p.c., la conseguenza che il giudice debba provvedere a liquidare interessi e rivalutazione d'ufficio, anche in assenza di una precipua domanda in tal senso del lavoratore, ogni qual volta pronunci sentenza al pagamento di somme di danaro per crediti di lavoro.

Questa impostazione comporta che con riferimento ai crediti di lavoro inerenti ai rapporti di cui all'art. 409 c.p.c. interessi e rivalutazione – diversamente da quanto accade per le ordinarie obbligazioni pecuniarie di origine contrattuale – costituiscono un accessorio inscindibile del credito di lavoro.

Conseguenze di tale affermazione sono la possibilità per la parte di chiedere e per il giudice di disporre, anche d'ufficio, la rivalutazione monetaria e gli interessi in ogni stato e grado del giudizio, sempreché sulla questione non sia già intervenuta una pronuncia, ancorché solo implicita, non contestata dalla parte soccombente, atteso che in tale caso il potere officioso del giudice viene meno per effetto dell'acquiescenza e dalla formazione del giudicato sulla questione (Cass. 26 marzo 2010 n. 7395), nonché, secondo giurisprudenza pressoché costante, la possibilità di azionare autonomamente e separatamente il credito relativo alla rivalutazione rispetto al credito-base.

Casistica

Crediti risarcitori

Costituisce "credito di lavoro", nella sua più ampia accezione, con conseguente applicabilità dell'art. 429 c.p.c. in tema di rivalutazione monetaria e interesse, non solo quello retributivo, ma ogni credito che sia in diretta relazione causale con il rapporto di lavoro e, quindi, anche il credito per il risarcimento dei danni cagionati al lavoratore dall'inadempimento della società datrice di lavoro, fra i quali deve essere ricompreso anche quello derivante dalla violazione degli obblighi di cui all'art. 2103 c.c. (Cass. 14 aprile 2010 n. 8893)

Licenziamento illegittimo

Il cumulo tra interessi e risarcimento del danno da rivalutazione monetaria, previsto dall'art. 429, terzo comma, cod. proc. civ., trova applicazione anche nel caso di crediti liquidati, ai sensi dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, i quali, sebbene non siano sinallagmaticamente collegati con una prestazione lavorativa, rappresentano pur sempre l'utilità economica che da questa il lavoratore avrebbe tratto ove la relativa esecuzione non gli fosse stata impedita dall'ingiustificato recesso della controparte. Ne consegue che sia la rivalutazione monetaria che gli interessi legali vanno attribuiti d'ufficio, con decorrenza dalla data del licenziamento sulla somma capitale via via rivalutata. (Cass. 21 maggio 2014 n. 11235)

Crediti previdenziali

Agli interessi sui crediti previdenziali ed assistenziali divenuti esigibili prima dell'entrata in vigore dell'art. 16, comma 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, non si applica il regime giuridico proprio delle obbligazioni pecuniarie, non avendo essi la natura di veri e propri "accessori" del credito "principale", bensì di componenti essenziali di una prestazione unitaria, sicché il pagamento del solo credito originario si configura come adempimento soltanto parziale della prestazione, alla cui determinazione il giudice deve provvedere anche in assenza di domanda giudiziale. Ne consegue che la domanda di pagamento del residuo credito per rivalutazione monetaria ed interessi legali va maggiorata di rivalutazione monetaria ed interessi legali, in cumulo tra loro, non potendo operare in relazione agli interessi legali la disciplina generale in materia di anatocismo recata dall'art. 1283 cod. civ. (Cass. 3 settembre 2014 n. 18558).

Indennità ex art. 32 l. n. 183/2010

L'articolo 429, comma 3, c.p.c., in tema di rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro trova applicazione anche nel caso dell'indennità di cui all'art. 32 della l. n. 183 del 2010, in quanto si riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva, fermo restando che alla natura di liquidazione forfettaria e onnicomprensiva dell'indennità consegue la decorrenza, della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, dalla data della sentenza che dispone la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato (Cass. 17 marzo 2016 n. 5344).

Parasubordinazione

Il disposto dell'art. 429, terzo comma, c.p.c., relativo alla rivalutazione monetaria (ed interessi) dei crediti di lavoro, trova applicazione - come sottolineato dalla Corte cost. con le sentenze n. 65/1978 e n. 76/1981 - in ordine a tutti i rapporti elencati nell'art. 409 dello stesso codice e, pertanto, opera non solo nell'ambito del lavoro subordinato ma anche in quello autonomo, ove questo sia caratterizzato dalla continuità e dalla coordinazione delle prestazioni eseguite (cd. parasubordinazione) (Cass., 27 settembre 2010, n. 20269).

Crediti del datore di lavoro

Sui crediti del datore di lavoro verso il lavoratore (nella specie, relativi all'esecuzione mal fatta del lavoro) non spettano gli interessi ove non sia stata formulata specifica domanda nè in primo grado, nè in appello, dovendosi escludere l'applicabilità del disposto di cui all'art. 429, terzo comma, c.p.c., e, quindi, dell'automatismo insito in detta previsione, riconosciuto solo in favore del lavoratore (Cass., 12 gennaio 2011, n. 546).