Prova testimoniale

Alessandro Farolfi
08 Settembre 2017

La prova testimoniale rappresenta, unitamente all'interrogatorio formale ed al giuramento, una tipica prova costituenda, destinata cioè a formarsi nel processo e nel contraddittorio con la controparte. Questo spiega innanzitutto perché la disciplina della prova per testi, a differenza ad esempio della prova documentale - a sua volta paradigmatica prova precostituita - sia minuziosamente rivolta a dettare le regole circa le modalità della sua assunzione e svolgimento.
Inquadramento

La prova testimoniale rappresenta, unitamente all'interrogatorio formale ed al giuramento, una tipica prova costituenda, destinata cioè a formarsi nel processo e nel contraddittorio con la controparte. Questo spiega innanzitutto perché la disciplina della prova per testi, a differenza ad esempio della prova documentale - a sua volta paradigmatica prova precostituita - sia minuziosamente rivolta a dettare le regole circa le modalità della sua assunzione e svolgimento. La prova per testi, sino all'introduzione dell'art. 257-bis c.p.c. avvenuta con l'art. 46, comma 8, L. n. 69/2009, è stata infatti da sempre considerata una dichiarazione orale circa la verità o meno di fatti rilevanti ai fini della decisione della causa, una narrazione utile a far conoscere al giudice la conoscenza in ordine all'accadimento dei fatti che hanno portato alla controversia. Rispetto alle altre due prove costituende appena richiamate, invece, la testimonianza si connota per provenire da un soggetto terzo rispetto alle parti in causa, del tutto indifferente in ordine alla sorte della lite. Da questo punto di vista possiamo notare che la confessione è una dichiarazione della parte alla quale la stessa può nuocere, mentre il giuramento è pur sempre una dichiarazione di parte che, anche in ragione della sua solennità, può favorire la stessa (ed anzi di essa giovarsi al massimo grado fino a determinare l'esito della lite). Invece il nostro ordinamento non conosce la testimonianza della parte, ma soltanto quella di soggetti terzi rispetto ad essa, appunto i testimoni.

La tipologia di questa prova (consistente in una narrazione orale di fatti spesso da tempo accaduti), il suo carattere mediato (basata sulla percezione soggettiva dei fatti da parte del teste e non sulla loro obiettiva registrazione), il fatto di provenire da persone che seppure terzi possono a loro volta riferire ricordi influenzati dalla narrazione che dei fatti stessi hanno compiuto soggetti diversi e finanche le stesse parti, la stessa labilità dei ricordi narrati, spiega come mai il nostro ordinamento guardi alla prova testimoniale con un certo disfavore, circondandola perciò di limiti.

In evidenza: le dichiarazioni scritte dei terzi

Pur dopo l'introduzione della testimonianza scritta, di cui all'art. 257-bis c.p.c., resta la natura di prova atipica delle varie dichiarazioni scritte in cui soggetti terzi esprimono il proprio convincimento sui fatti di causa e narrano come gli stessi risultano accaduti. Infatti, al di fuori dei rigidi presupposti oggi richiesti per la testimonianza scritta (basati sull'accordo delle parti, sulla preventiva valutazione del giudice circa la sua ammissione avuto riguardo alla natura della causa e ad ogni altra circostanza, nonché sull'utilizzazione di un modello formale previsto dall'art. 103 bis disp. att. c.p.c.), eventuali dichiarazioni scritte sui fatti di causa, anche se verbalizzate da un pubblico ufficiale, non possono acquisire il valore di prova piena ma, muovendosi al di fuori del modello codicistico tipico dell'assunzione della prova in contraddittorio, potranno al più acquisire il valore probatorio di una prova indiziaria o argomento di prova. Sul punto si è osservato che nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, quali le dichiarazioni scritte provenienti da terzi, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze istruttorie, senza che ne derivi la violazione del principio di cui all'art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio (Cass., sez. I, 1 settembre 2015, n. 17392).

Questo limite vale, ovviamente, per il processo ordinario di cognizione, posto che nei procedimenti sommari e cautelari informazioni scritte possono essere liberamente apprezzate dal giudice che, come prevede l'art. 669-sexies c.p.c., “omessa ogni formalità non essenziale al contradditorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili”. Tale distinzione appare evidente nel caso di giudizio possessorio, ove si è osservato che le deposizioni rese nella fase sommaria del giudizio possessorio sono valutabili alla stregua di una prova testimoniale ove assunte in contraddittorio tra le parti, sotto il vincolo del giuramento e sulla base delle indicazioni fornite nei rispettivi atti introduttivi, mentre quelle raccolte ai fini dell'eventuale adozione del decreto "inaudita altera parte", ex art. 669-sexies, comma 2, c.p.c., sono qualificabili in termini di sommarie informazioni, pur essendo utilizzabili anche ai fini della decisione quali indizi liberamente valutabili (Cass., sez. II, 7 gennaio 2016, n. 107).

Il contenuto: fatti e testimonianza scritta

Se la narrazione che costituisce il contenuto, l'oggetto della testimonianza è rappresentata da fatti, non va dimenticato che la loro esternazione orale da parte di un soggetto che ne ha avuto esperienza comporta, in qualche misura, un ineliminabile intreccio fra dichiarazioni volte a rappresentare accadimenti fattuali e giudizi od impressioni che di essi il teste ha avuto e percepito. Tuttavia la prova, in senso stretto, riguarda soltanto i fatti e non i giudizi o le valutazioni soggettive che il teste molto spesso, quasi inevitabilmente, può essere portato a riferire accanto ai primi. Tale principio si manifesta non soltanto “a valle”, in ordine alla valutazione del contenuto probatorio delle dichiarazioni rese dal testimone, ma anche a monte, nel senso di costituire un limite sulla stessa ammissibilità della prova, come meglio si vedrà in relazione a quanto prevede l'art. 244 c.p.c. (v. par. Modalità di deduzione e decadenza).

Vi sono casi nei quali le specifiche competenze tecniche del teste consentono al medesimo, non già di esprimere generiche valutazioni, ma di percepire ed apprezzare la reale dimensione oggettiva dei fatti. Da questo punto di vista riveste un certo interesse distinguere fra consulenza tecnica e testimonianza tecnica. Le differenze attengono, in primo luogo, alle diverse modalità di ingresso nel processo: sottratta alla disponibilità delle parti ed oggetto di discrezionale ammissione del giudice quanto alla consulenza; oggetto di necessaria richiesta di parte e preventiva valutazione di ammissibilità e rilevanza quanto alla testimonianza c.d. tecnica, da capitolarsi comunque secondo le regole previste dall'art. 244 c.p.c. e richiedersi prima dello spirare delle preclusioni istruttorie (mentre l'esercizio del potere del giudice di nomina di un consulente potrebbe essere sollecitata od esercitarsi d'ufficio anche dopo l'esaurimento della precedente istruttoria orale e quindi in uno stadio avanzato del processo). Concernono, inoltre, le diverse e specifiche modalità di assunzione e formazione della prova nel processo. La Cassazione ha affermato che in materia di prova testimoniale, benchè i giudizi non possano costituire oggetto di prova, essendo vietato demandare ai testi la valutazione dei fatti, laddove si tratti di apprezzamenti di assoluta immediatezza, praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico, essi possono concorrere al convincimento del giudice. Così in tema di dichiarazione sullo stato scivoloso del pavimento di un museo, cfr. Cass., sez. III, 22 aprile 2009, n. 9526, mentre in tema di immissioni rumorose la Cass., sez. II, 31 marzo 2006, n. 2155 ha ritenuto che è ammissibile la prova testimoniale quando la stessa, avendo ad oggetto fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, non può ritenersi espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi), e ciò tanto più nell'ipotesi in cui – trattandosi di emissioni rumorose discontinue e spontanee – le stesse difficilmente sarebbero riproducibili e verificabili su un piano sperimentale (in questa materia cfr. altresì la recente Cass., sez. II, 20 gennaio 2017, n. 1606).

La testimonianza de relato

Con riferimento alla fonte della conoscenza dei fatti narrati dal teste si suole distinguere fra testimonianza diretta ed indiretta, o de relato. Mentre nel primo caso gli accadimenti sono caduti direttamente sotto la percezione sensoriale del dichiarante (nella pratica suggestivamente definito testimone “oculare”), si parla di testimonianza de relato quando il teste si rifà per la conoscenza dei fatti narrati a soggetti terzi, da cui ha appreso detta conoscenza. Si è di fronte, in altri termini, ad una narrazione di secondo grado, nel senso che il fatto oggetto della dichiarazione è stato percepito da un diverso soggetto che, a propria volta, ne ha riferito al dichiarante. Da ciò la terminologia usata dall'art. 257 c.p.c., secondo cui “«se alcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice istruttore può disporre d'ufficio che esse siano chiamate a deporre».

Evidente da un lato è il minor valore probatorio che la testimonianza de relato assume e, dall'altro, in vista dell'opportunità di consentirne una verifica e rafforzamento della forza persuasiva, la concessione eccezionale al giudice del potere di disporre, anche d'ufficio, che il teste di riferimento venga a sua volta chiamato a deporre. Tale potere officioso può essere esercitato anche dopo lo spirare delle preclusioni assertive, presupponendo il suo esercizio il preventivo esperimento della prova testimoniale dedotta dalle parti. Proprio per questo si deve ritenere che l'esercizio di tale facoltà non richieda la concessione di termini né abiliti all'ulteriore prova contraria di cui all'art. 183 comma 8 c.p.c. (che restrittivamente attiene ai nuovi mezzi di prova disposti d'ufficio e non, come nel caso esaminato, al mezzo di prova disposto per completare una prova già dedotta dalle parti ed ammessa dal giudice).

A seconda della qualità del soggetto riferente, dottrina e giurisprudenza distinguono fra dichiarazione de relato ex parte (quando cioè il soggetto cui ci si riferisce per la conoscenza è la parte medesima, di cui non è quindi possibile la chiamata ex art. 257 c.p.c.), priva sostanzialmente di alcun valore probatorio e dichiarazione de relato vera e propria (in cui la qualità di terzo del soggetto riferente consente la citazione d'ufficio come teste indotto).

Si è affermato che in tema di rilevanza probatoria delle deposizioni di persone che hanno solo una conoscenza indiretta di un fatto controverso, occorre distinguere i testimoni de relato actoris e quelli de relato in genere: i primi depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto medesimo che ha proposto il giudizio, cosicchè la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla, in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte del giudizio e non sul fatto oggetto dell'accertamento, che costituisce il fondamento storico della pretesa; gli altri testi, quelli de relato in genere, depongono invece su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni si presenta attenuata perchè indiretta, ma, ciononostante, può assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice, nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffraghino la credibilità (così Cass. n. 313/2011). Si è tuttavia ritenuto che possa acquisire valore probatorio quando la conoscenza del dichiarante derivi dalla parte ma attenga a circostanze sfavorevoli alla stessa, considerato che si pone la possibilità di valutare se il teste abbia ricevuto una confessione stragiudiziale che, in quanto fatta ad un terzo, resta comunque liberamente apprezzabile ex art. 2735 c.c.: in questo senso Cass., sez. lav., 19 gennaio 2017, n. 1320, secondo cui in tal caso la deposizione indiretta può risultare sufficiente a fondare, anche in via esclusiva, il convincimento del giudice ed a suffragare altra testimonianza de relato.

Limiti alla prova testimoniale: per valore

Il nostro ordinamento contiene alcuni limiti alla prova testimoniale dei contratti, disciplinati nel codice civile agli artt. 27212725 c.c.. L'art. 2726 c.c., a sua volta, estende tali limitazioni alla prova del pagamento e alla remissione di debito. La portata di tale estensione è discussa: secondo Cass. sez. I, 15 luglio 2009, n. 16538 gli atti di accreditamento e di versamento in conto corrente non sono qualificabili quali autonomi negozi giuridici o quali pagamenti, vale a dire come atti estintivi di obbligazioni, ma quali atti di utilizzazione di un unico contratto (di conto corrente) ad esecuzione ripetuta; ne consegue che per essi non valgono i limiti di ammissibilità della prova testimoniale stabiliti, con riferimento ai contratti, dagli art. 2721 ss. c.c., che non sono riferibili ai meri fatti storici, sia pur connessi con il contratto stesso, ed i relativi documenti non costituiscono prova di debito o di credito, ma solo della correttezza della posta contabile che concorre al saldo esigibile dall'una o dall'altra parte. Più in generale si è escluso che l'art. 2726 c.c. possa essere applicato a tutti gli atti unilaterali di contenuto patrimoniale, avendo una portata limitata agli atti giuridici espressamente contemplati (cfr. Cass. 14 luglio 2003 n. 10989).

La ratio tradizionale del limite di valore per la prova dei contratti risiede nella sfiducia che il legislatore nutre per questa tipologia di prova orale e per il rilievo di esperienza secondo cui, generalmente, le parti ricorrono alla formalizzazione scritta dei propri accordi quando questi fanno riferimento a valori di rilevante importo. Va aggiunto che nella pratica il limite di Euro 2,58 non ha un reale contenuto precettivo, non essendo mai stato aggiornato il relativo valore numerico, sì che è soprattutto il secondo comma dell'art. 2721 c.c. a svolgere un reale ruolo discriminante nella fase di ammissione della prova, prescrivendo che il giudice può ammettere la prova testimoniale oltre a tale (risibile) valore, tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza.

I limiti di valore previsti dall'art. 2721 per la prova testimoniale operano esclusivamente quando il contratto sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi tra le parti contraenti e non anche quando se ne evochi l'esistenza come semplice fatto storico influente sulla decisione del processo ed il contratto risulti stipulato non tra le parti processuali, ma tra una sola di esse ed un terzo, come nel caso del curatore che agisca in revocatoria fallimentare (Cass. n. 3336/2015). Da notare che l'art. 421 c.p.c., con riferimento al rito del lavoro, consente al giudice di ammettere la prova testimoniale anche oltre i limiti posti dal codice civile.

Segue: patti aggiunti o contrari, patti posteriori

Assai rilevante, nella pratica, è il divieto di fornire la prova per testimoni di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento contrattuale scritto, laddove la loro stipulazione sia anteriore o contemporanea alla redazione di detto documento (art. 2722 c.c.). Nel caso in cui, invece, la loro pattuizione sia successiva alla formazione dello scritto la prova può essere ammessa se, avuto sempre riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e ad ogni altra circostanza, appare verosimile che le parti abbiano apportato delle modifiche o delle aggiunte verbali al contratto stesso (art. 2723 c.c.).

La giurisprudenza più recente ha precisato che in tema di negozio fiduciario, la prova per testimoni del pactum fiduciae è sottratta alle preclusioni stabilite dagli art. 2721 e ss. c.c. soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di contratto stipulato, ma senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento; qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto risulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l'applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento (Cass. 23 marzo 2017, n. 7416). Più in generale, i limiti legali di ammissibilità della prova orale non operano quando la stessa sia diretta non già a contestare il contenuto di un documento, ma a renderne esplicito il significato; in particolare il divieto dell'ammissione della prova testimoniale stabilito dall'art. 2722 c.c., in ordine ai patti aggiunti o contrari al contenuto negoziale di un documento, riguarda solo gli accordi diretti a modificare, ampliandolo o restringendolo, il contenuto del negozio, mentre non investe la prova diretta ad individuarne la reale portata attraverso l'accertamento degli elementi di fatto che determinarono il consenso dei contraenti (Cass. 22 febbraio 2017, n. 4601 e Cass. 12 giugno 2012, n. 9526).

In materia di simulazione, non è ammissibile la prova testimoniale (così come quella per presunzioni) della simulazione assoluta della quietanza, che dell'avvenuto pagamento costituisce documentazione scritta; vi osta, infatti, l'art. 2726 c.c., che, estendendo al pagamento il divieto, sancito dall'art. 2722 c.c., di provare con testimoni patti aggiunti o contrari al contenuto del documento contrattuale, esclude che con tale mezzo istruttorio possa dimostrarsi l'esistenza di un accordo simulatorio concluso allo specifico fine di negare l'esistenza giuridica della quietanza, nei confronti della quale esso si configura come uno di quei patti, anteriori o contestuali al documento, che, appunto, il combinato disposto dei citati artt. 2722 e 2726 c.c. vieta di provare con testimoni in contrasto con la documentazione scritta di pagamento (Cass. 31 agosto 2015, n. 17329).

In ordine alla conseguenze, si è precisato che l'inammissibilità della prova testimoniale, ai sensi degli artt. 2722 e 2723 (come quella relativa al superamento del limite di valore) non derivando da ragioni di ordine pubblico processuale, quanto dall'esigenza di tutelare interessi di natura privata, non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell'ammissione del mezzo istruttorio; qualora, peraltro, nonostante l'eccezione d'inammissibilità, la prova sia stata egualmente espletata, è onere della parte interessata eccepirne la nullità, nella prima istanza o difesa successiva all'atto, o alla notizia di esso, ai sensi dell'art. 157, comma 2 c.p.c. L'una eccezione, quella d'inammissibilità, non deve infatti essere confusa con l'altra, quella di nullità, né può ad essa sovrapporsi, perché la prima eccezione opera ex ante, per impedire un atto invalido, mentre la seconda agisce ex post, per evitare che i suoi effetti si consolidino (cfr. Cass. n. 21443/2012 e Cass. 19 settembre 2013, n. 21443).

Segue: eccezioni al divieto di prova testimoniale

La cogenza dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale dei contratti è circoscritta da alcune eccezioni che, soprattutto per ragioni di ordine pratico volte a non rendere eccessivamente difficile la prova per le parti, sono contenute nell'art. 2724 c.c. Esse riguardano:

  1. l'esistenza di un principio di prova scritta che faccia apparire verosimile il fatto allegato;
  2. l'impossibilità morale o materiale per la parte di procurarsi una prova scritta;
  3. la perdita incolpevole del documento da parte del contraente.

Con riferimento al caso sub 1, un recente provvedimento (cfr. Cass. 20 marzo 2017, n. 7093) ha precisato che il documento che può costituire principio di prova per iscritto (art. 2724, n. 1 c.c.), sì da consentire l'ammissione della prova testimoniale per accertare, tra le parti, la simulazione assoluta (art. 1417 c.c.) di un contratto con forma scritta ad substantiam (art. 1350 c.c.), deve provenire dalla controparte e non dalla parte che chiede la prova, né da un terzo e non è necessario un preciso riferimento al fatto controverso, ma l'esistenza di un nesso logico tra lo scritto e il fatto stesso, da cui scaturisca la verosimiglianza del secondo (nella specie si è dato rilievo ad un assegno circolare firmato per girata dall'acquirente simulata, nipote della defunta apparente venditrice).

Costituiscono esempi di principio di prova scritta una scrittura non firmata, purché le dichiarazioni in essa contenute siano state espressamente o tacitamente accettate dal dichiarante (Cass. n. 15845/2015), ovvero le dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio, verbalizzate e sottoscritte (Cass. n. 12980/2002).

Con riferimento alla fattispecie sub 2, invece, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che l'impossibilità morale di procurarsi la prova scritta che, ai sensi dell'art. 2724, comma 1, n. 2, c.c., rende ammissibile il ricorso alla prova testimoniale, non è configurabile a fronte della mera astratta posizione di preminenza della persona dalla quale la dichiarazione scritta doveva essere pretesa, o di un vincolo affettivo con la persona stessa, ma non è comunque esigibile l'allegazione di circostanze ostative assolute, sicché tale situazione non può essere negata in presenza di circostanze, anche di dettaglio, particolari o speciali, concorrenti a specificare la situazione di oggettivo impedimento psicologico, dovendosi volgere l'operato del giudice, con specifica sensibilità, alla valutazione delle circostanze allegate, sia in relazione al tipo di rapporto dedotto inter partes, sia alla possibile incidenza di eventi o situazioni particolari (Cass. 7 luglio 2016, n. 13857 e Cass. 13 dicembre 2001, n. 15760).

Con riguardo alla terza categoria di eccezioni, spetta alla parte contraente dedurre e provare lo smarrimento della prova documentale e che tale accadimento non è ad essa colposamente imputabile. In particolare, ai fini della sussistenza di tale ipotesi è necessario che la condotta del contraente, rapportata alle circostanze nelle quali la perdita ebbe a verificarsi, si presenti immune dai caratteri della imprudenza e della negligenza (Cass. n. 2017/1994). Inoltre, la perdita del documento non può ritenersi incolpevole sol perché esso è stato affidato a terzi, dovendo risultare, viceversa, che il comportamento dell'affidante sia stato adeguato e che l'affidatario sia esente da colpa (Cass. n. 1944/2014).

Divieto nei contratti formali

Nei contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam o ad probationem, anche nel caso di forma convenzionale, la prova per testimoni del contratto e del suo contenuto è sempre vietata, come pure è vietato il ricorso alle presunzioni, come precisa l'art. 2729 ult. co.. Trattasi di una limitazione rilevante, se si considera l'alto numero di contratti formali (da quelli avente oggetto immobiliare, anche preliminare ex art. 1350 e 1351 c.c., al contratto di agenzia ex art. 1742 co. 2 c.c., fino all'assicurazione, ex art. 1888 c.c. ed alla transazione, ex art. 1967 c.c.). Unica eccezione al divieto, fra quelle previste dal precedente art. 2724 c.c., è in questo caso quella relativa alla perdita incolpevole del documento contrattuale, di cui al n. 3 della stessa disposizione.

Da notare che, secondo Cass. 24 marzo 2016, n. 5919, la parte di un contratto per cui è prevista la forma scritta ad substantiam, priva del possesso della scrittura per averla consegnata all'altro contraente che si rifiuta di restituirla, non può provare l'esistenza del rapporto avvalendosi della prova testimoniale, poiché non si verte in un'ipotesi di perdita incolpevole del documento ai sensi dell'art. 2724, n. 3, c.c., bensì di impossibilità di procurarsi la prova del contratto ai sensi del n. 2 del medesimo articolo.

Diversamente dalla violazione del limiti per valore o relativi alla prova dei patti aggiunti e contrari, si è ritenuto che i limiti di ammissibilità della prova testimoniale sull'esistenza di un contratto soggetto a forma scritta ad substantiam sono dettati da ragioni di ordine pubblico, sicché l'inammissibilità della prova assunta oltre quei limiti in primo grado non è sanata dalla mancata tempestiva opposizione della parte interessata, la quale può eccepire il vizio con motivo di appello (Cass. n. 23934/2015). Si ritorna alla regola generale della tutela di interessi meramente privati, invece, con riferimento, ai contratti richiedenti la forma scritta ad probationem, per i quali la nullità della prova comunque espletata non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata nella prima istanza o difesa successiva al suo configurarsi (Cass. n. 7765/2010).

Particolari prescrizioni formali valgono nel caso del contenzioso tributario. Secondo l'art. 7 D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, è vietato il ricorso alla prova testimoniale davanti alle commissioni tributarie. E'invece consentita la produzione di dichiarazioni scritte, anche di terzi, le quali potranno assumere unicamente il valore di prova indiziaria, utile con altri elementi probatori a formare il convincimento del giudice (cfr. Cass. 7 aprile 2017, n. 9080).

Altro caso tradizionale di ampia applicazione del divieto di prova testimoniale nel processo esecutivo è dato dall'art. 621 c.p.c., che per ragioni di certezza giuridica e di tutela dell'affidamento del creditore esecutante vieta al terzo opponente di provare l'esistenza di propri diritti sui beni mobili pignorati nella casa o nell'azienda del debitore, salvo che l'esistenza del diritto stesso sia resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dal terzo o dal debitore (si pensi al servizio di lavasecco e custodia di capi di pellame). Le prescrizioni formali connesse al pignoramento richiedono, altresì, che il terzo dia prova con atto avente data certa dell'affidamento anteriore del bene al soggetto esecutato. Tale onere probatorio è esteso alle rivendiche da parte di terzi di beni rinvenuti nell'azienda o casa del fallito (Cass. 20 luglio 2007, n. 16158).

I nuovi limiti nei sinistri stradali

Con l'entrata in vigore della recentissima normativa in tema di concorrenza (L. 4 agosto 2017, n. 124, pubblicata sulla G.U. n.189 del 14/08/2017) il legislatore ha introdotto significative limitazioni alla prova testimoniale nelle controversie relative a sinistri stradali con soli danni a cose. In nome di una generalizzata sfiducia in tale tipo di prova e della ritenuta esistenza di controversie fittizie condotte ai danni delle imprese di assicurazione (ma con la finalità indiretta – ad oggi di difficile raggiungimento - di calmierare il rialzo dei premi assicurativi) è stata prevista una regolamentazione formale volta a fissare nelle fasi iniziali della controversia, prima che la stessa sfoci in giudizio, il novero dei testimoni che potranno essere escussi a riguardo. Tecnicamente, quindi, non si tratta di un limite assoluto alla prova testimoniale, ma di un limite relativo, con riferimento ai soggetti che potranno essere indicati come testi, discendente dalla mancata o intempestiva indicazione per iscritto delle persone informate dei fatti.

L'art. 135 Cod. Ass. è stato così modificato, attraverso l'inserzione di alcuni nuovi commi. In particolare, il nuovo comma 3 bis prevede che nei sinistri con soli danni a cose, l'identificazione di eventuali testimoni sul luogo di accadimento dell'incidente deve risultare dalla denuncia di sinistro o comunque dal primo atto formale del danneggiato nei confronti dell'impresa di assicurazione; in mancanza, deve essere richiesta entro 60 gg. dalla denuncia di sinistro dall'impresa di assicurazione con espresso avviso all'assicurato delle conseguenze processuali della mancata risposta che deve, a sua volta essere data entro il termine di sessanta giorni dalla ricezione della richiesta. Anche l'impresa di assicurazione deve procedere all'individuazione ed alla comunicazione di eventuali ulteriori testimoni entro il termine di sessanta giorni. Sono fatte salve le indicazioni contenute nei verbali dell'autorità di polizia intervenuta sul luogo del sinistro (in altri termini eventuali persone presenti al fatto indicate nei verbali non necessitano dello scambio informativo di cui sopra al fine di renderne possibile una successiva chiamata quali testimoni nel processo). Si deve ritenere, pur in mancanza di provvedimenti giudiziari applicativi, che il limite sia relativo, quindi rinunciabile e sanabile in difetto di eccezione, nonchè operante reciprocamente solo a favore del danneggiato (per i testi diversi eventualmente indicati dalla compagnia assicurativa) e dell'assicurazione della r.c.a. (per i testi diversi indotti dal danneggiato). Non sembra invece che tali limitazioni siano invocabili dal danneggiante/assicurato. D'altra parte, il successivoco. 3-ter contiene una norma di chiusura secondo cui il giudice può comunque ammettere la prova di testi non precedentemente indicati se risulti comprovata l'oggettiva impossibilità della loro tempestiva identificazione. Infine, il comma 3-quater prevede per tutte le controversie derivanti da sinistro stradale (e quindi anche per quelle con danni a persone oltre che a cose) un dovere di segnalazione alla Procura da parte del giudice che rilevi la ricorrenza degli stessi nominativi quali testimoni in più di tre sinistri negli ultimi cinque anni rilevati in un'apposita ed istituenda banca dati. Tale dovere di segnalazione (che opera evidentemente quale forma di dissuasione indiretta rispetto al fenomeno di testimoni “seriali”) non vale per gli ufficiali ed agenti di polizia verbalizzanti.

Modalità di deduzione e decadenza

La prova testimoniale si riconduce al principio dispositivo e, quindi, deve essere richiesta tempestivamente dalla parte interessata prima dello spirare dei termini per le richieste istruttorie, mediante la indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti che ne costituiscono l'oggetto e sui quali ciascuna di esse sarà ascoltata, formulati in articoli separati.

La formulazione specifica e per articoli separati risponde ad almeno tre ordini di esigenze: 1) da un lato è espressione di quel disfavore che il legislatore nutre verso questa tipologia di prova “volatile”, basata sulla narrazione di soggetti e sull'esigenza che gli stessi si esprimano sui fatti di causa e non riferiscano proprie generiche impressioni o valutazioni; 2) dall'altro, è correlata al principio del contraddittorio ed alla possibilità per la controparte di formulare una efficace prova contraria; 3) infine, solo una formulazione specifica consente in sede di ammissione della prova una preventiva valutazione di rilevanza della stessa rispetto ai fatti di causa effettivamente controversi.

Le prove per interrogatorio formale e per testi, secondo quanto richiesto negli art. 230 e 244 c.p.c. devono essere dedotte per articoli separati e specifici. Ne consegue la inammissibilità della richiesta di ammissione su tutto il contenuto della comparsa di risposta che non consenta, per la genericità ed indeterminatezza del testo, di individuare capitoli di prova che rispondano ai requisiti richiesti dalle norme processuali citate, né può essere richiesto al giudice di estrapolare egli stesso detti capitoli di prova (tramite una c.d. «lettura estrapolativa» nell'atto di parte), contrastandovi il principio della disponibilità della prova (Cass. 7 giugno 2011, n. 12292). Si è però osservato che non osta alla ammissibilità della prova il fatto che i capitoli non siano separati dalla narrativa in fatto e numerati quando l'articolazione della narrativa si componga di capitoli separati nei quali vengono schematicamente ed analiticamente indicati i fatti su cui la domanda si fonda (Cass. 22 luglio 2004 n. 13753).

La deduzione della prova testimoniale, inoltre, come anticipato, deve essere tempestiva, ossia richiesta (in modo specifico) prima dello spirare dei termini per le richieste istruttorie, di cui all'art. 183 comma 6 c.p.c. Si tratta di termini che, come ormai evidenziato dall'unanime giurisprudenza di legittimità e di merito, presiedono ad un regolare e sollecito svolgimento del processo e – pertanto - rispondono ad interessi pubblicistici e non meramente privati delle parti interessate. Correlativamente, tali termini non possono essere prorogati e la loro violazione è rilevabile d'ufficio dal giudice e non può essere rinunciata sull'accordo delle parti.

Il rispetto dei termini ricordati vale anche per la indicazione del nominativo dei testimoni. Secondo Cass., sez. III, 19 luglio 2016, n. 14706, qualora nell'atto introduttivo del giudizio sia stata proposta istanza istruttoria di prova testimoniale senza indicare il nome del teste, e quest'ultimo, tuttavia, sia stato successivamente indicato entro i termini che il rito consente per il completo dispiegamento delle istanze istruttorie, è precluso al giudice attribuire a tale legittima scelta dell'istante un significato a lui sfavorevole ex art. 116 c.p.c. Si è però precisato – con affermazione che oggi va riportata al ricordato termine ex art. 183 comma 6 n. 2 - che nel processo civile disciplinato dalla l. n. 353/1990, che ha abrogato gli ultimi due commi dell'art. 244 c.p.c., il termine assegnato dal giudice istruttore ai sensi dell'art. 184, comma 1, c.p.c. per deduzioni istruttorie concernenti la prova testimoniale riguarda non solo la formulazione dei capitoli ma anche l'indicazione dei testi, sicché, una volta che il giudice abbia provveduto sulle richieste avanzate dalle parti, non è più possibile effettuare tale indicazione od integrare la lista testi, in quanto l'unica attività processuale giuridicamente possibile circa le prove ammesse consiste nell'assunzione delle medesime (Cass., sez. III, 9 giugno 2016, n. 11790 e Cass. 16 giugno 2005, n. 12959). Del pari, secondo Cass., sez. VI, 22 aprile 2016, n. 8161, quando il giudice dichiara chiusa l'istruttoria ed invita le parti a precisare le conclusioni, le parti medesime decadono dai mezzi istruttori (nella specie, dalla prova testimoniale) non assunti indipendentemente da un'espressa dichiarazione di decadenza.

La decadenza dalla prova testimoniale può verificarsi, come subito si vedrà al paragrafo successivo, anche una volta che la prova stessa sia stata ammessa. Sul provvedimento del giudice di ammissione della prova, per necessità di sintesi, si rinvia invece all'apposita bussola Ammissione delle prove, dovendosene comunque ricordare il carattere ordinatorio e la sua modificabilità e revocabilità.

Assunzione della prova

Anche la fase di assunzione della prova (su cui vds. anche l'apposita voce) è circondata di particolari cautele, che sono tipiche da un lato della natura costituenda della prova testimoniale, destinata cioè a formarsi nel contraddittorio, dall'altro della già ricordata sfiducia del legislatore che richiede, pertanto, un particolare rigore nella sua assunzione al fine di poter ricollegare un valore probatorio alle risposte date dai testimoni

I testi devono essere in primo luogo intimati su richiesta della parte interessata (art. 250 c.p.c.), tramite ufficiale giudiziario o, come più spesso avviene, direttamente da parte del difensore. Se il testimone regolarmente intimato non si presenta, il giudice può ordinarne una nuova intimazione o disporne l'accompagnamento coattivo (art. 255 c.p.c.). Al fine di evitare comportamenti processuali ostruzionistici e rinvii immotivati delle udienze, le sanzioni pecuniarie irrogabili dal giudice al teste renitente sono state elevate sino a 1.000 Euro. Va notato che qualora il giudice non abbia esercitato il potere di ordinare una nuova intimazione o di disporne l'accompagnamento coattivo, ai sensi dell'art. 255 c.p.c., l'onere di citare i testimoni all'udienza cui il giudice abbia rinviato per l'assunzione della prova grava sulla parte interessata, a pena di decadenza, ai sensi dell'art. 104 disp. att. c.p.c., non potendo giovarsi la parte del mancato esercizio di poteri discrezionali attribuiti al giudice, stante la diversa ratio alla base, da un lato, dell'art. 104 (nonché degli art. 208 e 250 c.p.c.), fondata sul principio dispositivo del processo e sul rilievo del contraddittorio con la controparte, e, dall'altro, dell'art. 255 c.p.c., fondata sul dovere di testimonianza e sugli strumenti attribuiti al giudice per assicurare lo svolgimento del processo (Cass. 17 gennaio 2013, n. 1020). La mancata intimazione del teste comporta la decadenza dalla prova, che va dichiarata anche d'ufficio (art. 104 disp. att. c.p.c.), salvo che l'altra parte non dichiari di avere comunque interesse a sentire il teste (in tal caso l'onere di intimazione si sposta su detta parte per l'udienza successivamente fissata a tale scopo dal giudice). Più in generale (art. 208 c.p.c.) anche l'assenza della parte interessata all'udienza fissata per l'assunzione o la prosecuzione della prova comporta la decadenza da essa, ma l'altra parte presente può richiederne l'assunzione. Il fatto che la controparte possa sostituirsi nell'iniziativa della parte decaduta corrisponde al principio di acquisizione processuale, per cui una parte non può disporre unilateralmente della prova rimanendo inerte (perché ad esempio si è resa conto del suo possibile esito sfavorevole) sì da aggirare in tal modo la regola contenuta all'art. 245 comma 2 c.p.c.

Dopo gli interventi della Corte Cost. sull'art. 251 c.p.c., il teste prima di essere sentito sui capitoli ammessi deve prestare un semplice impegno a dichiarare il vero. La mancata prestazione dell'impegno non è motivo di nullità della prova. La stessa norma stabilisce che il giudice istruttore non può sentire congiuntamente più testimoni, né questi possono assistere reciprocamente alle rispettive deposizioni; ciò in quanto deve essere garantita la spontaneità e la veridicità delle risposte, che potrebbe essere messa a rischio da eventuali suggestioni o influenze tra testi. Proprio per evitare domande suggestive è previsto (art. 253 c.p.c.) il divieto per le parti ed il loro difensori di interrogare direttamente i testimoni, incombenza cui provvede il giudice, che può altresì richiedere al teste chiarimenti sulle dichiarazioni rese. Sempre al giudice è data facoltà di disporre il confronto fra testimoni (art. 254 c.p.c.), ridurre liste testimoniali sovrabbondanti (art. 245 c.p.c.), ammettere testimoni in un primo tempo esclusi o disporre d'ufficio la chiamata dei c.d. testi di riferimento (su cui si è detto nell'apposito paragrafo), procedere ad un nuovo esame di testi già sentiti al fine di chiarire la loro deposizione o correggere irregolarità verificatesi nell'espletamento della prova. Cass. 29 novembre 2016, n. 24292, in coerenza con un orientamento consolidato, ha ritenuto che le formalità relative alla deduzione ed all'assunzione della prova testimoniale, in quanto stabilite non per ragioni di ordine pubblico ma per la tutela degli interessi delle parti, danno luogo, per il caso di loro violazione, a nullità relative e, dunque, non rilevabili d'ufficio dal giudice, dovendo essere eccepite nella prima udienza successiva a quella in cui si sono verificate, ove la parte interessata non era presente all'udienza; nel caso in cui, invece, quest'ultima era presente all'assunzione della prova ed aveva assistito all'atto istruttorio senza formulare opposizione, la nullità, ove esistente, deve considerarsi sanata.

In ordine al numero dei testi da sentire si è affermato che la riduzione delle liste testimoniali sovrabbondanti costituisce un potere tipicamente discrezionale del giudice di merito, esercitabile anche nel corso dell'espletamento della prova, potendo il giudice non esaurire l'esame di tutti i testimoni ammessi qualora, per i risultati raggiunti, ritenga superflua l'ulteriore assunzione della prova, con giudizio che si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente motivato anche per implicito dal complesso della motivazione (Cass. 9 giugno 2016, n. 11810).

Incapacità e attendibilità del testimone

La testimonianza è la dichiarazione sui fatti di causa resa da un soggetto del tutto terzo rispetto alle parti, privo di un interesse concreto ed attuale ad una certa definizione del giudizio. La incapacità del teste è disciplinata dall'art. 246 c.p.c., condisposizioneche la giurisprudenza tende ad interpretare in termini restrittivi. Si ritiene inoltre che la norma in tema di incapacità del testimone non attenga all'ammissibilità della prova e che, pertanto, tuteli l'interesse esclusivo della parte, che può perciò rinunciare anche implicitamente ad eccepire tale violazione, così permettendo lo svolgimento della prova. Sono esempi di incapacità a testimoniare: la vittima di un sinistro stradale nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata in conseguenza del medesimo sinistro, a nulla rilevando che il testimone abbia dichiarato di rinunciare al risarcimento o che il relativo credito sia prescritto (Cass. 18 aprile 2016, n. 7623); il soggetto rivendicante la proprietà del denaro asseritamente utilizzato per il pagamento del prezzo di una compravendita immobiliare nel giudizio di risoluzione di detto contratto (Cass. 28 luglio 2011, n. 16499); il coniuge in comunione dei beni di un soggetto che in giudizio richieda il corrispettivo per l'opera eseguita, essendo lo stesso destinato a far parte del patrimonio comune ex art. 177 c.c. (Cass. 22 aprile 2008 n. 10398). Più in generale si ritiene che l'incapacità ricorra solo ove vi sia un interesse giuridico concreto, non di mero fatto, tale da consentire la partecipazione al giudizio, circostanza che non ricorre nel caso di rapporto di lavoro dipendente con una delle parti.

Diversa dalla capacità del teste è la sua attendibilità, che il giudice è chiamato sempre a verificare anche in difetto di eccezione di parte, confrontando le dichiarazioni rese con il restante materiale probatorio (c.d. coerenza estrinseca), nonché fra loro, valutandone la logicità e la c.d. coerenza intrinseca. Nel rinviare per ogni altro più generale aspetto all'apposita bussola Valutazione delle prove, si deve in questa sede ricordare che “in materia di prova testimoniale, la verifica in ordine all'attendibilità del teste - che afferisce alla veridicità della deposizione resa dallo stesso - forma oggetto di una valutazione discrezionale che il giudice compie alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all'eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità” (cfr. Cass. 18 aprile 2016, n. 7623). Si è inoltre precisato che la deposizione può essere ritenuta attendibile anche limitatamente a determinati contenuti, a condizione che, tra la parte del narrato ritenuta inattendibile ed il resto ritenuto meritevole di credito, non sussista un rapporto di causalità necessaria o l'una non costituisca un imprescindibile antecedente logico dell'altro (così Cass. 19 maggio 2016, n. 10347).

La testimonianza scritta

L'art. 257-bis c.p.c. ha parzialmente modificato l'idea della testimonianza come prova orale per eccellenza, destinata a formarsi in contraddittorio ed attraverso la verbalizzazione delle risposte date dal teste davanti al giudice. Tale regola, peraltro, come già avvertito nel primo paragrafo, resta del tutto integra quando manchi anche solo uno dei presupposti necessari per l'ingresso nel processo della c.d. testimonianza scritta. Quest'ultima, infatti, richiede indefettibilmente:

a) l'accordo delle parti;

b) una preventiva valutazione del giudice circa la sua ammissione avuto riguardo alla natura della causa e ad ogni altra circostanza;

c) l'utilizzo di un modello formale di redazione della prova, previsto dall'art. 103-bis disp. att. c.p.c..

Tali rigidi requisiti spiegano, da un lato, la scarsa diffusione pratica della testimonianza scritta e, dall'altro, la perdurante applicabilità del principio che conferisce mero valore indiziario alle dichiarazioni scritte di soggetti terzi prodotte in giudizio al di fuori dei presupposti di cui al citato art. 257-bis c.p.c..

In ogni caso, anche se vi è stato accordo delle parti processuali e sono stati rispettati i crismi di ammissione e redazione scritta della testimonianza, il giudice può sempre, una volta esaminate le risposte e le dichiarazioni rese, disporre la chiamata del testimone, affinchè questi renda la propria deposizione oralmente in giudizio, secondo le forme ordinarie.

Casistica

Limiti alla prova per testi

In tema di stipulazione di accordi in deroga alle norme vigenti in materia di contratti agrari ai sensi dell'art. 45, l. n. 203/1982, la dichiarazione dell'esistenza dell'assistenza sindacale contenuta nel documento negoziale non attiene a diritti indisponibili, non riguarda la ricezione di una specifica e dettagliata informazione tecnica sul negozio e, in considerazione della sua natura confessoria, ha il valore di prova legale, di talché per inficiarla non può essere ammessa la prova per testimoni. (Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2017, n. 15370).

L'erede legittimario che chieda la dichiarazione di simulazione di una vendita fatta dal de cuius, diretta a dissimulare in realtà una donazione, agisce per la tutela di un proprio diritto ed è terzo rispetto alle parti contraenti, sicché la prova testimoniale e per presunzioni è ammissibile senza limiti quando, sulla premessa che l'atto simulato comporti una diminuzione della sua quota di riserva, proponga contestualmente all'azione di simulazione una domanda di riduzione della donazione dissimulata, diretta a far dichiarare che il bene fa parte dell'asse ereditario e che la quota a lui spettante va calcolata tenendo conto del bene stesso.(Cass. civ., sez. VI, 10 febbraio 2017, n. 3653).

In presenza dell'avvenuto disconoscimento di una scrittura e della mancata richiesta di verificazione, il creditore non può dimostrare le stesse circostanze contenute nei documenti disconosciuti mediante prova testimoniale, provando diversamente il diritto di credito fatto valere in giudizio, se il credito è prescritto, poiché questa sarebbe irrilevante.(Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2016, n. 10149).

Eccezione di incapacità del teste

Qualora, in sede di ricorso per cassazione, venga dedotta l'omessa motivazione del giudice d'appello sull'eccezione di nullità della prova testimoniale (nella specie, per incapacità ex art. 246 c.p.c.), il ricorrente ha l'onere, anche in virtù dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di indicare che detta eccezione è stata sollevata tempestivamente ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c. subito dopo l'assunzione della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle conclusioni ed in appello ex art. 346 c.p.c. , dovendo, in mancanza , ritenersi irrituale la relativa eccezione e pertanto sanata la nullità, avendo la stessa carattere relativo. (Cassazione civile, sez. II, 23 novembre 2016, n. 23896).

Intimazione del teste con modalità telematiche

In materia di prova testimoniale, la parte che non abbia provveduto all'intimazione dei testi ammessi non può sottrarsi alla relativa decadenza deducendo l'asserita violazione dalla normativa vigente in materia di comunicazioni telematiche, per essere stato utilizzato - ai fini della comunicazione dell'ordinanza di ammissione della prova - il formato cd. "pdf zip", giacché il suo impiego non muta il contenuto del documento informatico, ma comprime lo stesso in modo che occupi uno spazio minore, sicché il difensore non può invocare su queste basi la scusabilità nell'errore in cui sia incorso, potendo dal medesimo esigersi l'utilizzo di idonea configurazione del computer tale da consentire l'accesso al documento nel formato compresso. (Cassazione civile, sez. III, 20 luglio 2016, n. 14827).

Modalità di deduzione

Le formalità relative alla deduzione ed all'assunzione della prova testimoniale, in quanto stabilite non per ragioni di ordine pubblico ma per la tutela degli interessi delle parti, danno luogo, per il caso di loro violazione, a nullità relative e, dunque, non rilevabili d'ufficio dal giudice, dovendo essere eccepite nella prima udienza successiva a quella in cui si sono verificate, ove la parte interessata non era presente all'udienza. Nel caso in cui, invece, quest'ultima era presente all'assunzione della prova ed aveva assistito all'atto istruttorio senza formulare opposizione, la nullità, ove esistente, deve considerarsi sanata. (Cass. sez. I, 29 novembre 2016, n. 24292).

Testimonianza de relato

La deposizione “de relato ex parte”, con cui si riferiscano circostanze sfavorevoli alla parte medesima, ha la natura giuridica di prova testimoniale di una confessione stragiudiziale fatta a un terzo, se supportata dal relativo elemento soggettivo, in quanto tale liberamente apprezzabile dal giudice ai sensi dell'art. 2735, comma 1, secondo periodo, c.c., nonché sufficiente a fondare, anche in via esclusiva, il convincimento del giudice ed a suffragare altra testimonianza "de relato". (Cass., sez. lav., 19 gennaio 2017, n. 1320).

Valutazione della prova espletata

L'esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata. (Cass. sez. I, 2 agosto 2016, n. 16056).

Sommario