Impugnazione incidentale

Davide Turroni
Davide Turroni
24 Aprile 2016

L'impugnazione è «incidentale» se proposta nel giudizio d'impugnazione già introdotto da altra parte con l'«impugnazione principale». La «modalità incidentale» dell'impugnazione è imposta dalla legge (art. 333 c.p.c.): la parte alla quale è già stata notificata l'impugnazione da altra parte è tenuta a proporre la propria in forma incidentale a pena di decadenza. Prima della notifica, invece, le forme rimangono quelle dell'impugnazione principale: in tal caso la pluralità di impugnazioni genera una pluralità di giudizi, destinati però a essere riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c. . L'istituto – insieme alla riunione ex art. 335 c.p.c. – ha l'evidente scopo di garantire il processo simultaneo in sede di impugnazione: sia per ragioni di economia processuale, sia per prevenire la formazione di giudicati contrastanti.
Inquadramento

L'impugnazione è «incidentale» se proposta nel giudizio d'impugnazione già introdotto da altra parte con l'«impugnazione principale». La «modalità incidentale» dell'impugnazione è imposta dalla legge (

art. 333 c.p.c.

): la parte alla quale è già stata notificata l'impugnazione da altra parte è tenuta a proporre la propria in forma incidentale a pena di decadenza. Prima della notifica, invece, le forme rimangono quelle dell'impugnazione principale: in tal caso la pluralità di impugnazioni genera una pluralità di giudizi, destinati però a essere riuniti ai sensi dell'

art. 335 c.p.c.

.

L'istituto – insieme alla riunione ex art. 335

c

.

p.c.

– ha l'evidente scopo di garantire il processo simultaneo in sede di impugnazione: sia per ragioni di economia processuale, sia per prevenire la formazione di giudicati contrastanti.

L'impugnazione incidentale è soggetta a regole differenti, a seconda che avvenga nel giudizio di appello o in quello di cassazione. L'appello incidentale, disciplinato nel processo ordinario dall'

art.

343 c.p.c.

, si inserisce nella comparsa di risposta «all'atto della costituzione in cancelleria ai sensi dell'art. 166»; con una variazione sui tempi se l'interesse a impugnare sorge da altra impugnazione incidentale. Il ricorso incidentale in cassazione, regolato dall'

art. 371 c.p.c.

, va a sua volta inserito nel controricorso e ne segue le modalità di proposizione; quindi è prima notificato al ricorrente, poi depositato in cancelleria in linea con quanto prevede l'

art. 370 c.p.c.

Anche qui è prevista una variante, quando il ricorso incidentale provenga dalla parte evocata su ordine del giudice ai sensi degli

artt. 331

e

332 c.p.c.

(rispettivamente, per l'integrazione necessaria del contraddittorio o per costringere il litisconsorte a proporre l'eventuale impugnazione in via incidentale).

L'impugnazione incidentale si distingue in «tempestiva» e «tardiva». Quest'ultima, specificamente regolata dall'

art. 334

c.p.c.

, consente l'impugnazione alla parte ne sarebbe già decaduta dall'impugnazione (per scadenza dei termini o per acquiescenza alla decisione); sia quando un'altra impugnazione è proposta nei suoi confronti, sia quando è chiamata a integrare il contraddittorio come litisconsorte necessario a norma dell'

art. 331 c.p.c.

.

L'istituto sarà trattato nella apposita voce

Impugnazione incidentale tardiva

.

Simmetria (tendenziale) con l'impugnazione principale

L'impugnazione incidentale ai sensi dell'art. 333 c.p.c. può rivolgersi contro lo stesso capo o contro capi diversi della sentenza già impugnata

(sui concetti di «capo» o «parte» di sentenza, e sull'oggetto dell'impugnazione in genere, v. Impugnazioni in generale

e

Impugnazione principale

). In questo senso, l'impugnazione incidentale ha la stessa portata di quella principale.

Ad esempio

1. lo stesso capo di sentenza che condanna il convenuto a pagare 50 viene impugnato in via principale dall'attore, che lamenta il mancato accoglimento totale della sua domanda di 100; e in via incidentale dal convenuto, che ne denuncia il mancato rigetto totale. 2. La sentenza, che in un capo rigetta la domanda di risoluzione proposta dall'attore e nell'altro respinge la domanda di annullamento proposta dal convenuto, è impugnata dall'attore sul primo capo e in via incidentale dal convenuto sul secondo capo.

L'impugnazione incidentale soffre qualche limite se «tardiva», ma su questo istituto si rinvia all'apposita voce

.

Una vera e propria deviazione funzionale, rispetto all'impugnazione principale, si ha invece quando l'impugnazione incidentale (tempestiva o tardiva) è proposta dalla parte che, pur vittoriosa sulla domanda, si è vista respingere un'eccezione. Se ne dirà nel prossimo paragrafo.

Impugnazione incidentale del «soccombente virtuale»

L'impugnazione principale esige sempre una soccombenza «reale», cioè una situazione deteriore rispetto a quella invocata dalla parte con le proprie domande e difese; e così, di solito, quella incidentale.

Tuttavia l'impugnazione incidentale può anche fondarsi su una soccombenza «virtuale»

: è la situazione propria della parte che ottiene il rigetto della domanda avversaria ma si vede respingere un'eccezione (o risolvere in senso sfavorevole una questione rilevata d'ufficio). Non è a rigore una parte «soccombente» e non è quindi legittimata a proporre l'impugnazione principale, perché la sconfitta riportata sulla questione è assorbita dalla vittoria sulla domanda. La situazione però cambia se l'avversario impugna la sentenza: mettendo in discussione la vittoria conseguita, l'impugnazione legittima il vincitore a impugnare la sentenza nella parte in cui gli ha respinto l'eccezione.

Soccombenza virtuale si ha pure se l'eccezione è respinta con una sentenza non definitiva

. La parte vittoriosa sulla domanda, che nel frattempo non abbia impugnato la sentenza non definitiva, è considerato soccombente «virtuale»: può quindi contestare il rigetto dell'eccezione solo se l'avversario ha impugnato la sentenza definitiva. Benché i provvedimenti siano due, il rimedio esperibile contro la sentenza non definitiva è quello dell'impugnazione incidentale (

Cass.

civ.

, 28 gennaio 1987, n. 779

).

Si è anzi ritenuto (v. ad es. LUISO) che l'impugnazione incidentale del soccombente virtuale sia ammissibile anche quando la parte ha omesso la riserva di appello contro la sentenza non definitiva, ai sensi dell'

art. 340 c.p.c.

(quanto al ricorso in cassazione, l'

art. 360 c.p.c.

esclude in radice l'impugnazione immediata delle sentenze non definitive su questione).

Procedendo su questa linea, si può sostenere che questa forma di impugnazione incidentale costituisce un tertium genus rispetto alle altre due declinazioni (tempestiva e tardiva). Non solo perché fa a meno della soccombenza reale; ma perché è esperibile anche in assenza dei requisiti previsti per l'impugnazione incidentale tardiva, nel senso che può rivolgersi anche contro un capo di sentenza relativo a causa scindibile da quella oggetto dell'impugnazione principale (MERLIN).

Soccombenza virtuale e ordine di decisione

L'impugnazione incidentale della parte vittoriosa sulla domanda pone un problema lungamente dibattuto: se il giudice dell'impugnazione debba seguire un ordine di decisione «per questioni» o «per impugnazioni».

Se la vittoria è sul merito, e la soccombenza riguarda una pregiudiziale di rito, il vincitore ha di solito l'interesse a conservare il risultato conseguito; e a far decidere la propria impugnazione solo se il giudice si convince che quella principale è fondata. Ma se il giudice dà precedenza all'impugnazione incidentale, il «soccombente virtuale» ha minori probabilità di conservare la decisione più favorevole sul merito, scontando una perdita di chances per sua stessa iniziativa.

Per molto tempo la giurisprudenza ha dato risposte contrastanti

, che per semplicità si possono ricondurre a due linee di fondo. Una prima linea (v. ad es.

Cass.

civ., 28 agosto 2004, n. 17192

) non riservava trattamenti particolari all'impugnazione del «soccombente virtuale», ritenendo che anche il giudice ad quem dovesse attenersi all'ordine generale delle questioni, secondo cui le censure relative alle pregiudiziali di rito precedono quelle sul merito: l'impugnazione incidentale relativa a pregiudiziali di rito ha quindi la precedenza e solo in caso di rigetto il giudice decide l'impugnazione principale sul merito. Un'altra impostazione, pur non contestando in radice la prima, consentiva al soccombente virtuale di apporre una «clausola condizionale» che avrebbe vincolato il giudice a deciderne l'impugnazione solo se avesse ritenuto fondata quella principale (questa linea era piuttosto disomogenea al proprio interno; ma basti qui richiamare

Cass.

civ.

,

16 maggio 2003, n. 7637

).

In evidenza

In tempi più recenti la Cassazione (

Cass. civ., Sez. Un., 6 marzo 2009, n. 5456; Cass. civ., 18 gennaio 2016, n. 668) ha decisamente mutato indirizzo, accogliendo la tesi (CHIARLONI) secondo cui l'impugnazione principale ha – con l'importante riserva che segue – la precedenza su quella incidentale della parte vittoriosa

. Questa soluzione si fonda sull'idea che il «soccombente virtuale» derivi la legittimazione a impugnare non dall'impugnazione principale in sé ma dall'accertamento della sua fondatezza, cioè dal risultato di una cognizione necessariamente pregiudiziale rispetto a quello sull'impugnazione incidentale. La priorità dell'impugnazione principale è quindi imposta dal sistema e svincolata da clausole condizionali apposte dalla parte.

Il criterio accolto dalle S.U. tuttavia non vale per le questioni ancora rilevabili d'ufficio

: proprio perché il loro accertamento non dipende dall'iniziativa di parte, la loro decisione segue la normale gerarchia «per questioni» e non quella per

«impugnazioni».

Appello incidentale e «riproposizione» di domande ed eccezioni

L'impugnazione incidentale, come reazione alla pronuncia sfavorevole su questioni, impone un chiarimento in rapporto al giudizio di appello.

«Nei limiti dei motivi d'impugnazione» l'appello devolve al giudice le domande e le questioni già dedotte in primo grado e tende a concludersi con una decisione di merito atta a esaurire la materia del contendere. Questa caratteristica chiarisce perché il giudizio d'appello non si esaurisce necessariamente nell'esame delle domande e delle eccezioni decise dalla sentenza impugnata, ma può estendersi a quelle rimaste «assorbite».

Ad esempio

l'attore propone la domanda A di risoluzione del contratto per inadempimento e la domanda consequenziale B di condanna al risarcimento del danno; il giudice che rigetta la domanda A non deve pronunciare su quella B in quanto assorbita. Con l'appello l'attore censura la sentenza in quanto gli ha rigettato la domanda A; si limita invece a riproporre la domanda B, in relazione alla quale non ha specifiche censure da muovere alla sentenza. La differenza tra giudizi di appello e di cassazione si chiarisce in questo ulteriore passaggio. L'appello è respinto e l'attore ricorre in cassazione, censurando il nuovo rigetto della domanda A per violazione di legge; però non ripropone la domanda B in cassazione – non potendo la Corte di legittimità trattarla e deciderla nel merito; salvo quanto di dirà infra sub bb) - ma conserva il potere di riproporla al giudice del rinvio nel caso di accoglimento del ricorso (

art. 389 c.p.c.

).

Lo stesso schema vale nel caso opposto. L'attore propone due domande A e B per cui la decisione su B è subordinata al rigetto di A: se il giudice accoglie A allora non pronuncia su B.

Il fenomeno è oggetto di specifica regolamentazione nell'art. 346 c.p.c., il quale stabilisce che domande ed eccezioni «non accolte» in primo grado e non espressamente riproposte in appello si intendono rinunciate.

Dunque a) è chiaro che

l'istituto si riferisce alle domande ed eccezioni rimaste assorbite nel senso appena illustrato (eccezioni qui intese in senso ampio, sicuramente comprensivo delle questioni preliminari/pregiudiziali da decidere con sentenza). b) L'art. 346 dovrebbe poi estendersi alle eccezioni che, pur formalmente proposte e non assorbite, il giudice ha omesso di decidere esplicitamente o – secondo l'attuale orientamento della giurisprudenza, su cui infra – «implicitamente». c) Chiaro, infine, che l'

art. 346 c.p.c.

non opera per le questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo e non ancora decise, essendone la «rinuncia» incompatibile col persistere della rilevabilità d'ufficio (

Cass.

civ.

, 12 novembre 2004, n. 21506

).

È invece controverso (e oggetto di un complesso dibattito dottrinale) se l'art. 346 c.p.c. vada anche riferito alle eccezioni non accolte perché respinte dal giudice a quo

. La soluzione negativa richiede che l'appello censuri la sentenza anche nella parte in cui respinge l'eccezione. Secondo la tesi opposta, invece, l'eccezione rigettata non esige l'appello e basta riproporla al giudice del gravame ai sensi dell'

art. 346 c.p.c

.

Quest'ultimo orientamento è stato disatteso da

Cass.

civ.

, Sez.Un., 16 ottobre 2008, n. 25246

.

Le Sezioni unite hanno affermato che la parte vittoriosa sulla domanda in primo grado, ma soccombente sull'eccezione di difetto di giurisdizione, non può limitarsi in appello a riproporre l'eccezione, ma deve promuovere appello incidentale in parte qua.

Le implicazioni più immediate di questa decisione sono evidenti: sulle questioni pregiudiziali di rito il vincitore sul merito deve proporre appello incidentale.

Meno chiaro il quadro complessivo che le S.U. ha inteso delineare, soprattutto per le questioni preliminari di merito respinte; il che ha contribuito al permanere del contrasto.

Così alcune pronunce (ad es.

Cass.

civ.

, 30 agosto 2013, n. 19995

, relativa a una eccezione di prescrizione) affermano che l'appello incidentale è necessario a investire il giudice delle questioni (pregiudiziali di rito e preliminari di merito) che il giudice a quo ha respinto. Altre decisioni semplicemente ignorano l'arresto delle S.U. (è il caso di

Cass.

civ.

, 24 febbraio 2015, n. 3715

). Oppure (

Cass.

civ.

, 26 novembre 2010, n. 24021

, relativa a una eccezione di decadenza sostanziale) ne danno un'interpretazione compromissoria fondata su una distinzione tra questioni «autonome» e «non autonome», tale per cui, in caso di rigetto, sulle prime occorre l'appello incidentale mentre le seconde vanno riproposte

ex

art. 346 c.p.c.

Questioni «non autonome», secondo tale indirizzo, sarebbero quelle «interne al capo di domanda respinto» oggetto dell'appello e segnatamente le eccezioni di merito; autonome sarebbero invece le questioni pregiudiziali attinenti al processo, come quella di giurisdizione su cui si erano pronunciate le S.U. .

In evidenza

Il (persistente) contrasto di giurisprudenza è stato recentemente rimesso alle Sezioni unite dalla II sezione, con Cass. civ., 3 marzo 2016, n. 4058 e si attende un nuovo intervento del plenum.

Rimane da dire che la differenza tra «riproporre» e «impugnare incidenter» è piuttosto sfumata per chi ritiene che anche la riproposizione, come l'appello incidentale, vada inserita nella comparsa di risposta tempestivamente depositata

(in tal senso v.

Cass.

civ.

, 10 marzo 2011, n. 5735

, più genericamente riferita alla comparsa di risposta). La discontinuità è invece più marcata se si accede all'opinione opposta, secondo cui la riproposizione è ammessa fino all'udienza di precisazione delle conclusioni (in tal senso

Cass.

civ.

, 10 agosto 2004, n. 15427

).

Vi sono poi altre differenze di un certo rilievo. «Impugnare» esprime una modalità operativa diversa dal «riproporre»; e non è detto che l'errore nella scelta fra i due mezzi si riduca a un vizio rimediabile secondo l'

art. 159, ult. comma, c.p.c.

Verosimilmente sì, nel caso di appello incidentale in luogo della riproposizione (in tal senso v. ad es.

Cass.

civ.

, 9 settembre 2004, n. 18169

). Più difficile rimediare nel caso inverso, di riproposizione in luogo di appello incidentale; soprattutto perché l'atto non è detto contenga una critica alla sentenza e soprattutto una critica che soddisfi i requisiti di specificità dell'impugnazione di cui all'

art. 342 c.p.c.

Inoltre la riproposizione di domande ed eccezioni non esige adempimenti particolari nei confronti del contumace. A differenza dell'appello incidentale, che va notificato al contumace (tale può essere lo stesso appellante principale, la cui mancata costituzione rende improcedibile il propria impugnazione ma non quella incidentale ex art. 333 c.p.c.; o una parte diversa dall'appellante principale: v. in tal senso, tra le tante,

Cass.

civ.

, 24 agosto 2012, n. 14635

) la riproposizione richiede il semplice deposito in cancelleria dell'atto.

Il dibattito di cui si è dato conto riguarda l'appello e non si estende al giudizio di cassazione.

Lì manca una disposizione corrispondente all'

art. 346 c.p.c.

; inoltre la Cassazione, quale giudice di legittimità, non potrebbe comunque trattare nel merito le domande e le eccezioni di diritto sostanziale. Con particolare riguardo alle «eccezioni» ciò comporta che a) su quelle già decise nei gradi precedenti, il solo rimedio esperibile è l'impugnazione diretta col ricorso principale o incidentale (in tal senso v., in motivazione,

Cass.

civ.

, Sez.Un., 16 ottobre 2008, n. 25246

, cit.); b) mentre quelle non ancora decise perché assorbite rimangono quiescenti e saranno eventualmente riproposte nel giudizio di rinvio – se ciò sarà compatibile con i motivi di accoglimento del ricorso; bb) Un problema tuttavia si pone in riferimento all'art. 384, cpv., c.p.c., che consente alla Cassazione di decidere la causa nel merito se non occorrono «ulteriori accertamenti di fatto»: il senso della disposizione è dibattuto; ma a seconda di come la si interpreti, potrebbe consentire – o addirittura imporre a pena di decadenza – la devoluzione diretta alla Suprema Corte delle questioni assorbite; c) un regime diverso vale ovviamente per le questioni preliminari/pregiudiziali, non ancora decise e rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, che possono fare ingresso in cassazione senza che occorra veicolarle con un apposito motivo di ricorso.

Appello incidentale o riproposizione nei processi litisconsortili

Un problema in un certo senso «inverso» a quello visto sopra si pone per l'appello nei processi litisconsortili.

Con una soluzione disarmonica rispetto alle premesse sull'art. 346 c.p.c., la giurisprudenza finora prevalente ha affermato che le domande di garanzia, rimaste assorbite per il rigetto delle domande contro il garantito, non vanno semplicemente riproposte in appello ma esigono l'appello incidentale. Si assume quindi che l'ambito di applicazione dell'art. 346 c.p.c. sia «soggettivamente limitato», cioè operi nel caso di domande proposte tra appellante e appellato, mentre non è detto che soccorra negli altri casi. Segnatamente non soccorrerebbe per le domande del garantito contro il garante, nel caso di appello principale proposto dal creditore rimasto soccombente in primo grado: Cass., 2 aprile 2015, n. 6782; Cass., 4 febbraio 2004, n. 2061. L'opinione non era tuttavia pacifica: in senso contrario v. ad es. Cass., 30 gennaio 2014, n. 2051, per la più condivisibile alternativa della riproposizione ex art. 346 c.p.c. Sulla questione si sono infine pronunciate le Sezioni unite.

In evidenza

Cass., S.U., 19 aprile 2016, n. 7700, a composizione del riferito contrasto, ha affermato che, in caso di rigetto della domanda principale e connesso assorbimento di quella di garanzia, l'appello contro il capo che respinge la domanda principale non richiede l'impugnazione incidentale sul “non accoglimento” della domanda di garanzia: basta infatti riproporla ai sensi dell'art. 346 c.p.c. per consentirne la devoluzione in appello.

Impugnazione incidentale contro decisioni «implicite»

A partire da

Cass.

civ.

,

Sez.Un.

, 9 ottobre 2008, n.

2

4

8

8

3

, la giurisprudenza ritiene «implicitamente respinte» le questioni «logicamente anteriori» a quella espressamente decisa; ma soprattutto ne trae la conseguenza inedita che la decisione implicita è idonea al giudicato se non tempestivamente impugnata (su questo orientamento v. la voce Questioni preliminari

).

Questo orientamento rende problematica l'applicazione del criterio, secondo cui le eccezioni respinte richiedono l'impugnazione e l'appellato non le può semplicemente «riproporre» ex art. 346 c.p.c

.

E' infatti un orientamento empirico – a dispetto delle discendenze dottrinarie che rivendica – disseminato di correttivi e distinguo che generano incertezza sul regime delle questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio. Diviene così difficile, in molti casi, capire se tali questioni debbano considerarsi implicitamente decise (e richiedano quindi l'impugnazione) o non decise (quindi, in appello, semplicemente riproponibili).

Si può comunque dire che, secondo questa giurisprudenza, la sentenza sul merito implica in linea di massima il rigetto delle questioni pregiudiziali di rito (o almeno della maggior parte, tra cui quella sulla giurisdizione). Se si sostiene in questo caso la necessità dell'impugnazione, se ne deve quindi la conseguenza che l'appellato vittorioso nel merito deve proporre appello incidentale contro il «capo implicito» della sentenza, se vuole contestare il rigetto (implicito) della questione pregiudiziale di rito.

Deviazioni dallo schema dell'impugnazione incidentale

L'appello incidentale si propone a pena di decadenza nella comparsa di risposta da depositare nello stesso termine previsto dall'

art. 166 c.p.c.

per il giudizio di primo grado (

Cass.

civ.

, 24 gennaio 2011, n. 1567

): lo stabilisce l'

art. 343 c.p.c.

, anche se con una formula non chiarissima.

E' dunque tardivo l'appello incidentale proposto oltre il termine per la tempestiva costituzione in giudizio, sebbene i termini ordinari per la proposizione dell'appello non siano ancora scaduti:

Cass.,

19 gennaio

2007

, n. 1188

. Inoltre non è corretto depositarlo come atto a parte anziché inserirlo nella comparsa di risposta. La prima trasgressione è sicuramente sanzionata con la decadenza. La seconda, invece, non dovrebbe comportare una sanzione (così infatti

Cass.

civ.

, 26 giugno 2013, n.

1

6107

), visto che il deposito tempestivo con atto separato è pur sempre idoneo a instaurare il contraddittorio nello stesso processo instaurato con l'appello principale. Gli stessi criteri valgono per il ricorso incidentale in cassazione, con gli adattamenti richiesti dall'

art. 371 c.p.c.

.

Poiché l'appello incidentale riproduce la logica della domanda riconvenzionale (estende l'oggetto del giudizio di appello e va proposta a pena di decadenza con la comparsa di risposta), per simmetria coll'

art. 163, comma 2, n. 7, c.p.c. l'atto di citazione in appello dovrebbe contenere l'avvertimento che la ritardata costituzione comporta la decadenza dal potere di proporre l'appello incidentale.

La lettera dell'

art. 333 c.p.c.

ricollega la decadenza al semplice fatto che, dopo la notifica di un'impugnazione, l'avversario proponga la sua non in via incidentale nel giudizio già instaurato, ma come atto impugnazione principale. Tuttavia la giurisprudenza si discosta opportunamente dal dato letterale, ritenendo che questa trasgressione non comporti in sé una decadenza (Cass., 29 gennaio 2015, n. 1671 quanto all'appello;

Cass.

civ.

, 7 novembre 2013, n. 25054

quanto al giudizio di cassazione). Soccorre cioè il principio di conversione, per cui l'appello principale è comunque idoneo a produrre gli effetti propri dell'appello incidentale, salvo – beninteso – imporre la riunione dei due giudizi; e sempre che l'impugnazione sia proposta entro i termini previsti per l'impugnazione incidentale. In tale prospettiva, bisogna immaginare che la decadenza comminata dall'

art. 333 c.p.c.

non riguardi l'errata scelta del mezzo ma il solo mancato rispetto dei termini per proporre l'impugnazione.

Appello incidentale contro il litisconsorte non ancora evocato in giudizio

Nei giudizi litisconsortili sia l'appello che il ricorso incidentali possono rivolgersi contro parti diverse da quelle destinatarie dell'impugnazione principale. In tal caso l'atto di impugnazione incidentale va notificato a costoro, che altrimenti potrebbero rimanere all'oscuro dell'impugnazione contro di loro e dello stesso giudizio di gravame. Nel caso dell'appello incidentale (che, a differenza del ricorso incidentale per cassazione, non prevede la notifica all'avversario) si impone quindi la notifica dell'atto al litisconsorte non ancora evocato in giudizio, in aggiunta al deposito in cancelleria della comparsa di risposta.

Si pone allora il problema del momento in cui, e del termine entro il quale la notifica deve avvenire.

Se si ritiene che la notifica debba farsi entro il termine per la costituzione in giudizio, allora l'atto deve contenere gli estremi indispensabili alla vocatio in ius; e nella prima udienza il giudice, se richiesto dal «nuovo» appellato – o se questi non si costituisce – ne deve fissare un'altra nel rispetto dei termini minimi a comparire

ex

art.

163

-

bis

c.p.c.

(in alternativa si differisce la prima udienza in applicazione analogica dell'

art. 269 c.p.c.

, ma non sembra questa una soluzione praticata). Se invece si ritiene che per la tempestiva proposizione dell'appello incidentale basti il semplice deposito in cancelleria, allora l'instaurazione del contraddittorio col nuovo appellato può avvenire dopo che il giudice abbia fissato un'altra udienza.

La prima soluzione è preferibile. E' vero che può costringere l'appellante incidentale a una seconda notifica – se il nuovo appellato non si costituisce – ma evita anche il rischio che un appello incidentale ancora tempestivo diventi tardivo. Questa tecnica è tanto più opportuna di fronte a pronunce che, nel caso considerato, a) ritengono non basti il deposito dell'appello incidentale a interrompere il termine ordinario d'impugnazione, ma occorra la sua notifica; e b) escludono l'impugnazione incidentale tardiva, se la causa scindibile ai sensi dell'

art.

332 c.p.c.

(v. in tal senso

Cass.

civ.

,

2 maggio 2011, n. 9649

).

Riferimenti

S. Chiarloni,

L'impugnazione incidentale nel processo civile

, Giuffrè, Milano, 1969;

E. Grasso, Le impugnazioni incidentali, Giuffrè, Milano, 1973;

E. Merlin

, Inscindibilità dei giudizi e riproposizione di domande fra litisconsorti nelle fasi di gravame, in Riv. dir. proc., 2013, 1290;

N. Rascio

, L'oggetto dell'appello civile, Napoli, 1996;

F. P. Luiso

, Diritto processuale civile, Giuffrè, Milano, 2015, II, 347 ss.

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