Interrogatorio formaleFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 228
21 Marzo 2016
Inquadramento
L'interrogatorio formale è una tipica prova costituenda, destinata cioè a formarsi nel processo e nel contraddittorio con la controparte. Con tutta probabilità, anzi, si tratta della prova affidata al contraddittorio per antonomasia, in quanto la sua funzione peculiare è rivolta a provocare la confessione giudiziale della controparte. Tale inequivoca finalità emerge con evidenza dall' art. 228 c.p.c. , secondo cui la confessione giudiziale è spontanea o provocata mediante interrogatorio formale.Tale funzione spiega perché l'interrogatorio formale debba essere dedotto e formulato mediante articoli precisi su cui la parte è chiamata a rispondere (cfr. 1 c.p.c. ). Poiché la confessione, come si deduce dall'art. 2740 c.c. , è la dichiarazione che la parte fa in ordine alla verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli alla controparte, ben si comprende come gli articoli in cui l'interrogatorio consiste debbano vertere su circostanze fattuali e non su giudizi o su valutazioni e, ancora, come gli stessi debbano avere contenuto potenzialmente confessorio, cioè vertere su fatti costitutivi, impeditivi od estintivi dei diritti della parte dichiarante di cui si discute nello specifico processo in cui il mezzo di prova è dedotto.Poiché la confessione giudiziale implica la disposizione processuale del diritto, si deve ritenere che l'interrogatorio formale non possa vertere su diritti indisponibili.
Se la funzione dell'interrogatorio formale è quella di porre la controparte nel dilemma se confessare o meno, ben si evince come la funzione dell'interrogatorio libero sia del tutto diversa, alla luce dell' art. 229 c.p.c., secondo cui la confessione spontanea può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell' art. 117 c.p.c.che regola la possibilità per il giudice di ordinare, in qualunque stato e grado del processo la comparizione delle parti per interrogarle, appunto liberamente, sui fatti della causa.
Tale disposizione va letta, infatti, in combinato disposto con il secondo comma dell' art. 116c.p.c. , secondo cui le risposte date dalle parti nel corso dell'interrogatorio libero (e più in generale il contegno processuale delle parti) può essere valorizzato dal giudice come «argomento di prova». Tale valore, che rappresenta un minus rispetto alla prova piena, è evidentemente assai diverso dalla confessione, che invece rappresenta addirittura una prova legale, cioè una prova il cui valore vincolante è fissato ex lege e non soggetto al libero apprezzamento del giudice.
Evidentemente questo aspetto non rende superfluo l'esame libero delle parti e, quindi, non sminuisce l'importanza pratica di tale incombente.
Resta, evidentemente, una differenza di fondo: la risposta confessoria resa nel corso dell'interrogatorio formale dà luogo ad una prova legale, mentre quella resa nel corso dell'interrogatorio libero è un semplice argomento di prova, liberamente e discrezionalmente valorizzabile dal giudice.
Altra differenza connessa è quella per cui l'assunzione dell'interrogatorio formale deve avvenire secondo le modalità e nei termini stabiliti nell'apposita ordinanza di ammissione, senza potersi fare domande su fatti diversi da quelli specificamente contenuti nei capitoli ammessi, ad eccezione di quelli su cui tutte le parti concordano e che comunque appaiono utili (cfr. art. 230 c.p.c.), mentre l'interrogatorio libero, secondo l'aggettivazione che lo connota, si svolge senza un capitolato preciso e può consentire l'emersione di circostanze anche soltanto utili a chiarire la portata delle domande e delle eccezioni svolte e toccare fatti «secondari» o di esclusivo rilievo probatorio. Legittimazione passiva
Legittimata passivamente a rendere l'interrogatorio formale è soltanto la parte che ha la disponibilità del diritto su cui le risposte date possono assumere valore confessorio. Pertanto si tratterà della persona fisica titolare del diritto controverso o del legale rappresentante dell'ente o società cui il medesimo diritto può essere imputato e che ne ha la capacità di disporre giuridicamente. Quest'ultima affermazione dà luogo sovente a questioni processuali.Un primo problema riguarda l'interpello rivolto al legale rappresentante di una società di dimensioni talmente elevate da risultare certamente prevedibile, ex ante, che lo stesso non sia a conoscenza delle circostanze fattuali in cui si è svolto il rapporto con il singolo utente (tende a negare l'ammissibilità per assenza di valore confessorio e per estraneità dei fatti alla sfera di conoscenza del dichiarante un consolidato orientamento di merito: cfr. T. Forlì, 21 gennaio 2013; T. Torino, 4 novembre 2010, T. Parma, 31 luglio 2006, tutte con riguardo a presidenti di c.d.a. o a.d. di istituti di credito di rilevanza nazionale; contro Cass. civ., 25 luglio 2013, n. 18079, in un caso in cui l'interrogatorio era però rivolto ad acquisire un principio di prova scritta sulla simulazione relativa di un contratto bancario, da cui la ulteriore possibile ammissibilità – a seconda dell'esito dell'interpello – della prova testimoniale, in deroga all'art. 1417 c.c. ).
Nel caso di modifica intervenuta medio tempore del legale rappresentante, chi è il soggetto legittimato a rispondere all'interrogatorio? Secondo una giurisprudenza costante, poiché occorre la disponibilità del diritto nel momento in cui le dichiarazioni sono rese nel processo, si dovrà far riferimento a colui il quale ha la veste di legale rappresentante nel momento in cui l'interrogatorio viene reso pur se diverso dal soggetto che rivestiva tale qualità nel momento in cui i fatti controversi si sono svolti (questo diverso soggetto, ormai privo del potere rappresentativo della parte, potrà eventualmente essere indicato come teste, pur con tutte le doverose attenzioni in sede di esame e valutazione dell'attendibilità alla luce del potenziale interesse derivante dall'esito della causa).
Nel caso di intervenuto fallimento chi è il soggetto che sarà sottoposto ad interrogatorio formale? Si potrebbe pensare che con lo spossessamento derivante dall'apertura della procedura concorsuale l'unico soggetto che possa rendere l'interpello sia il curatore, che in base all' art. 43 l.f. sta in giudizio in luogo del fallito nelle sue controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale. Cass. civ., 24 luglio 2015, n. 15570ha invece chiarito che le deduzioni del curatore in un giudizio civile sono prive di valore confessorio, in quanto egli a tale fine va visto come terzo rispetto all'imprenditore fallito. Pur avendo ad oggetto il caso deciso dalla S.C. una ipotesi di giuramento decisorio dedotto in una opposizione allo stato passivo il principio è analogo e va ribadito anche per l'interrogatorio formale. Inoltre, si deve considerare che il Curatore, pur rappresentando la procedura, non ha la disponibilità del diritto in senso stretto, posto che esprimendosi la stessa attraverso un atto potenzialmente abdicativo del diritto, la dichiarazione di volontà del curatore dovrebbe comunque essere integrata attraverso le autorizzazioni richieste dall' art. 35 l.f.per gli atti di straordinaria amministrazione. La risposta data all'interrogatorio, per rispettare la sua funzione, deve invece potenzialmente essere tale da comportare di per sé sola, nel processo, la disposizione del diritto controverso.
Del pari, tuttavia, neppure il fallito, privato della disponibilità dei propri diritti patrimoniali e della rappresentanza anche processuale dalla sentenza di fallimento, può secondo la citata pronuncia essere chiamato a rendere interrogatorio formale sui fatti oggetto della domanda, né tanto meno gli può essere deferito il giuramento suppletorio o decisorio.
Più in generale, le dichiarazioni rese nel processo da un difensore non hanno valore confessorio, pur se costituiscono elementi probatori di libero apprezzamento da parte del giudice del merito (cfr. Cass. civ., 7 maggio 2014, n. 9864). Il tenore dell'atto difensivo e le dichiarazioni ivi contenute, invece, possono naturalmente acquisire un valore rilevante in relazione all'applicazione del principio di non contestazione. Valore della mancata risposta
Secondo l' art. 232 c.p.c., la mancata partecipazione o la mancata riposta senza giustificato motivo della parte cui l'interrogatorio è rivolto consente al giudice, valutato ogni altro elemento di prova, di ritenere come ammessi i fatti oggetto del mezzo istruttorio.
Va notato che l'attuale testo normativo supera quanto prevedeva l'art. 218 del codice del 1865, nel quale la mancata risposta era equiparata sic et simpliciter ad una ficta confessio («quando la parte non comparisca, o ricusi di rispondere, si hanno come ammessi i fatti dedotti, salvo che giustifichi un impedimento legittimo»).
Il fatto su cui la parte non ha risposto può essere ritenuto come ammesso, nell'attuale ordinamento processuale, soltanto attraverso una valutazione comparativa, anche sintetica, con il restante materiale probatorio. Pertanto, tecnicamente, il valore probatorio della mancata risposta all'interpello non è quello di una confessione: non si tratta di una prova legale, ma di un risultato probatorio liberamente valutabile dal giudice in relazione agli esiti – concordanti o meno – degli ulteriori elementi di prova comunque acquisiti al processo.
Va notato che alla mancata risposta occorre equiparare i contegni reticenti tenuti dalla parte nel corso dell'interrogatorio (cfr. Cass. civ., 31 marzo 2010, n. 7783). Orientamenti a confronto
La possibilità di operare una completa equiparazione fra mancata risposta all'interrogatorio formale e confessione sconta una tradizionale avversione dell'ordinamento italiano a valutare la contumacia in senso sfavorevole alla parte rimasta inerte. Così, proprio partendo da tale principio, oltre che per eccesso del legislatore delegato rispetto alla norma delegante, C. Cost. 12 ottobre 2007, n. 340 aveva ritenuto costituzionalmente illegittima la disposizione dell' art. 13 c o. 2 d .lgs. n. 5/2003 (sul c.d. rito societario). Lo stesso art. 548 c.p.c. , ancora recentemente modificato dal D.l . n. 83/2015 convertito con mod. in l . n. 132/2015 , consente di ritenere «non contestato» il debito o l'obbligo di consegna di beni determinati da parte del terzo pignorato che non compia la prevista dichiarazione o non compaia in udienza, ma per maggior tutela del contraddittorio, soltanto a seguito della reiterazione dell'udienza e della notifica ivi previste seguite dal medesimo contegno inerte del terzo pignorato. Pur essendo evidente che la non contestazione è diversa dalla confessione, posto che la prima non è una nuova prova legale, ma opera come relevatio ab onere probandi rispetto al fatto non specificamente contestato, si tratta di un passo avanti rispetto alla tradizione che anticipa, forse, possibili futuri sviluppi volti ad equiparare la contumacia (non con la ficta confessio ma) alla non contestazione. In questo senso, ad es. la relazione conclusiva della Commissione Vaccarella, resa in data 3 dicembre 2013.
Allo stato attuale, però, le conseguenze di cui all' art. 232 c.p.c. non operano automaticamente per la parte contumace. Rispetto ad essa, pertanto, occorre provvedere alla notificazione dell'ordinanza che ammette l'interrogatorio formale (cfr. art. 292 c.p.c.) e soltanto in caso di corretta esecuzione di tale adempimento il successivo contegno inerte del contumace potrà assumere valore probatorio sfavorevole. La notificazione dell'ordinanza, infatti, vale appunto allo scopo di rendere edotto il contumace delle gravi possibili conseguenze che la sua mancata presentazione potranno produrre e che, appunto, sono ulteriori rispetto allo stato di mera contumacia.
Il processo civile con pluralità di parti pone problematiche ulteriori rispetto alla ammissibilità dell'interrogatorio formale, nonché in relazione al valore probatorio delle dichiarazioni eventualmente rese dal rispondente.
Quanto al primo profilo, se è vero che con questo mezzo di prova si vuole provocare la confessione della controparte e se tale funzione risulta percorribile soltanto in un contesto di perfetta bilateralità (mirando infatti a provocare la dichiarazione di fatti sfavorevoli alla parte confitente e favorevoli alla controparte), risulta evidente come non sia ammissibile l'interpello su fatti dibattuti fra la parte deferente ed un terzo diverso dall'interrogando. Quest'ultimo, infatti, non ha la capacità di disporre dei diritti spettanti a soggetti terzi che, conseguentemente, non possono subire l'effetto pregiudizievole della confessione contenuta nelle dichiarazioni rese da una parte estranea.
Situazione in parte diversa può verificarsi in ipotesi di litisconsorzio facoltativo (ad esempio rapporti obbligatori scindibili) in cui l'interrogatorio appare ammissibile, pur se l'effetto sfavorevole legale della confessione opererà soltanto per il dichiarante, mentre per i terzi coobbligati la dichiarazione sarà liberamente apprezzabile sotto il profilo probatorio (cfr. art. 1305 c.c. sugli effetti del giuramento prestato o ricusato e art. 1309 sugli effetti del riconoscimento di debito nelle obbligazioni solidali).
Ancora diverso è il caso in cui la pluralità di parti processuali sia imposta da una situazione di litisconsorzio necessario. In proposito si deve ricordare che l'art. 2733, ult. comma c.c.afferma che in tale caso «la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzata dal giudice».
Il tema si è posto con rilievo particolare nelle cause di responsabilità da circolazione di veicoli stradali nelle quali, come noto, sussiste una ipotesi di litisconsorzio necessario fra assicurato responsabile e sua compagnia assicuratrice della R.C.A. In tale contesto può assumere una particolare rilievo il c.d. modulo «C.A.I.» firmato dai soggetti coinvolti nel sinistro stradale, che dottrina e giurisprudenza hanno finito con l'assimilare (per i fatti ivi dichiarati e rappresentati) ad una confessione stragiudiziale.
Orbene, proprio partendo dal ricordato art. 2733, ult. comma c.c. , Cass. civ., S.U., 5 maggio 2006, n. 10311ha ritenuto l'inscindibilità delle posizioni dei due litisconsorti necessari escludendo il valore di piena prova della confessione contenuta nel citato modulo di constatazione amichevole, la quale assume soltanto la natura di elemento di prova che il giudice può liberamente apprezzare, e ciò non solo nei confronti degli altri litisconsorti (compagnia assicurativa in testa), ma anche di chi ha reso la dichiarazione.
Tale approdo è stato confermato anche da Cass. civ., 13 luglio 2010, 16376, ribadendo che l'accertamento dei due rapporti in cui il dichiarante è coinvolto - quello col danneggiato, sorto dal fatto illecito, e quello, di origine contrattuale, con l'assicuratore - non può che essere «unico e uniforme per tutti e tre i soggetti coinvolti nel processo». Tale principio – mai più disatteso – può essere applicato mutatis mutandis anche alla confessione giudiziale provocata da interrogatorio formale da parte di uno soltanto dei litisconsorti necessari. Contratti formali
Il tema dell'ammissibilità dell'interrogatorio formale – per la gravità degli effetti che lo stesso può produrre, sostanziandosi in una sorta di atto dispositivo del confitente – assume una particolare pregnanza nei casi di contratti formali, che richiedono cioè la forma scritta a pena di validità dell'atto.
La S.C. ha adottato al riguardo un orientamento rigoroso, che vale in particolare con riferimento alle compravendite immobiliari. Cass. civ., 6 febbraio 2014, n. 2725, in tema di prova della simulazione di contratti di compravendita di immobili, che come noto esigono la forma scritta ad substantiam, ha ritenuto che l'interrogatorio formale, in quanto diretto a provocare la confessione del soggetto cui è deferito, è ammissibile anche tra le parti solo se sia rivolto a dimostrare la simulazione assoluta del contratto, perché in tal caso oggetto del mezzo di prova è l'inesistenza della compravendita immobiliare, e non anche se il mezzo probatorio tenda a dimostrare la simulazione relativa del contratto stesso (pertanto tale mezzo deve ritenersi precluso nei non infrequenti casi in cui si discute non della vendita in sé, bensì del carattere parzialmente simulato del prezzo del bene immobile).
Proprio ricostruendo la categoria dei contratti bancari come contratti assoggettati a formalità protettiva (e non a forma scritta a pena di nullità assoluta), cioè rilevabile soltanto dal risparmiatore/cliente ai sensi dell' art. 127 co. 2 T.U.B., la già citata Cass. civ., 25 luglio 2013, n.18079, ha ritenuto che le limitazioni poste dal secondo comma dell' art. 1417 c.c . non riguardano l'interrogatorio formale, ma sono limitate alla prova testimoniale e (ai sensi dell' art. 2729 , co mma 2 c.c. ) alla prova per presunzioni. Casistica
Riferimenti
G. Grasselli, L 'istruzione probatorio nel processo civile, Cedam, 2015
R. GIORDANO, L'istruzione probatoria nel processo civile, Giuffrè, 2013
AA.VV., Codice di procedura civile commentato (a cura P. CENDON) Giuffrè, 2012 |