Correzione degli errori materiali (procedimento per la)Fonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 287
03 Maggio 2016
Inquadramento
Il procedimento di correzione degli errori materiali o di calcolo, previsto dagli artt. 287 e 288 c.p.c., è diretto a porre rimedio ad un vizio meramente formale della sentenza, derivante da divergenza evidente e facilmente rettificabile tra l'intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione, con esclusione di tutto ciò che attiene al processo formativo della volontà. Tale procedimento, nonché il provvedimento mediante il quale la sentenza può essere corretta, hanno quindi natura meramente amministrativa (Cass. civ., 22 gennaio 2015, n. 1207; Cass. civ., 3 novembre 2015, n. 22396; Cass. civ., 15 maggio 2009, n. 11333). La pronuncia prevista dall'art. 288 c.p.c., in effetti, non realizza mai una statuizione sostitutiva atteso che ciò che caratterizza la procedura all'esito della quale essa è resa è il carattere ordinatorio dipendente dalla assoluta assenza di contenuto decisorio (cfr. Cass. civ., 27 giugno 2013 n. 16205, Cass. civ., 17 maggio 2010, n. 12034, Cass. civ., 29 novembre 1993, n. 11809, Cass. 7 gennaio 1974, n. 28; in dottrina, M. Acone; N. Picardi). Nell'attuale collocazione codicistica il procedimento di correzione non è più inserito sotto il titolo relativo ai mezzi di impugnazione delle sentenze, come nel precedente quadro normativo attraverso l'art. 473 c.p.c. del 1865. Esso trova piuttosto spazio tra le disposizioni dedicate al provvedimento del giudice e ciò ne dimostra la riconducibilità ad attività meramente integrativa della formazione del medesimo (M. Acone, Correzione, cit., 1) e l'estraneità alla categoria delle impugnazioni in senso tecnico (B. Sassani). I presupposti: la nozione di errore rilevante
Presupposto perché il procedimento di cui agli artt. 287-288 c.p.c. possa essere azionato è la presenza di “omissioni”, “errori materiali o di calcolo”. L'errore materiale(di cui quello di calcolo e l'omissione costituiscono species) suscettibile di correzione è quello che non riguarda la sostanza del giudizio, ma la manifestazione del pensiero all'atto della formazione del provvedimento e si risolve in una fortuita divergenza fra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da mera svista o disattenzione nella redazione della sentenza e come tale percepibile e rilevabile ictu oculi (in questi termini,Cass. civ., 26 settembre 2011 n. 19601). Questo è il motivo per cui è facile osservare che il procedimento di correzione non mira ad impugnare il giudizio del giudice ma solo a creare corrispondenza tra esso e la sua manifestazione materiale (G. Chiovenda). In ogni caso, deve trattarsi di errore inidoneo a determinare la nullità del provvedimento (M. Acone, Correzione, cit., 2). Tale principio, sebbene non espressamente sancito dalle disposizioni processuali dedicate al procedimento di correzione deve necessariamente ricavarsi dal dettato dell'art. 161, comma 1, c.p.c. che nella regola della conversione delle nullità della sentenza in motivi di impugnazione della stessa fissa quindi per la procedura in esame un limite formale ed esterno (M. T. Zanzucchi). È “errore materiale” dunque quello che colpisce l'espressione della idea validamente formata (F. Carnelutti), mentre può definirsi “omissione” la mancanza di uno o più elementi del provvedimento pure a fronte di una sicura volizione del giudice (V. Andrioli). Per contro, rileva quale “errore di calcolo” l'inesatta utilizzazione di regole matematiche immediatamente ricavabili dal provvedimento da correggere. In altri termini, il mero errore materiale di calcolo risultante dal confronto tra motivazione e dispositivo è certamente suscettibile di correzione con la procedura di cui agli art. 287 ss. c.p.c., mentre quello causato da inesatta determinazione dei presupposti numerici di una operazione è deducibile in sede di legittimità, in quanto si risolve in un vizio logico della motivazione (Cass. civ., 15 gennaio 2013 n. 795; Cass. civ.,5 giugno 2007, n. 13066; Cass. 12 marzo 1984, n. 1699). Tali coordinate concettuali sono state in più occasioni impiegate dalla giurisprudenza che ha fortemente contribuito alla individuazione degli errori rilevanti per la correzione dei provvedimenti giudiziari.
È sottratta invece al campo applicativo della procedura di correzione, per quanto già detto sulla natura ordinatoria e non sostitutiva del relativo provvedimento, la sentenza che, pur correttamente statuendo sulle spese in motivazione, ne ometta, poi, la loro totale o parziale liquidazione in dispositivo attesa la necessità, ai fini della loro concreta determinazione e quantificazione, di una pronuncia del giudice (Cass. civ., 7 ottobre 2014 n. 21109).
I provvedimenti correggibili
L'art. 287 c.p.c. individua i provvedimenti soggetti alla procedura di correzione nelle “sentenze contro le quali non sia stato proposto appello” e nelle “ordinanze non revocabili”. Con riferimento alle prime, la disposizione, sebbene appesantita da una formulazione non immediata, deve ritenersi applicabile sia alle sentenze inappellabili, sia a quelle appellabili (ma non ancora appellate) sia, in ultimo, a quelle non più appellabili perché passate in giudicato (cfr. D. Oldani). È infatti da superare la tesi della non configurabilità del concorso tra la correzione e l'impugnazione della sentenza costruita sull'idea dell'assorbimento in sede di gravame di ogni potere emendativo (cfr. G. Monteleone). Tale conclusione trova sostegno nella declaratoria di incostituzionalità parziale dell'art. 287 c.p.c. nella parte in cui fa riferimento alle sentenze “contro cui non sia stato proposto appello” (v. Corte Cost. 10 novembre 2004, n. 335, che quindi ha aperto alla procedura di correzione innanzi al giudice che ha emesso il provvedimento da emendare anche in caso in cui avverso il medesimo sia già stato proposto appello); tuttavia, pure prima di tale fondamentale arresto poteva ricavarsi dalla necessaria valorizzazione dell'art. 161, comma 1, c.p.c. e dalla considerazione dell'estraneità del provvedimento di correzione alla nullità dell'atto per vizi di forma nonché dal ridimensionamento della regola dell'impugnazione della sentenza “relativamente alle parti corrette” di cui all'art. 288 c.p.c. atteso che il medesimo, pur nell'unicità materiale del provvedimento impugnato, evidentemente intende ammettere un controllo solo sulla legittimità dell'uso del potere correttivo già speso dal giudice (M. Acone, Correzione, cit., 6). Costituiscono provvedimenti correggibili anche le ordinanze irrevocabili, perché tali previste dalla legge ovvero perché non più aggredibili. In questo senso, l'applicabilità dell'art. 287 c.p.c. deve escludersi con riferimento alle ordinanze ex artt. 186-bis, e 186-ter c.p.c., ma potrebbe ammettersi per quella prevista dall'art. 186-quater c.p.c. che, in effetti, è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio ma non anche dal giudice istruttore che l'ha emessa (in questi termini, Trib. Reggio Calabria 23 settembre 1998 e Trib. Modena 22 luglio 1997). Inoltre, trattandosi di disposizioni espressione di una esigenza di ordine generale propria ad ogni tipo di processo, e dunque, in assenza di una diversa e specifica disciplina, anche a quello esecutivo, gli artt. 287 ss c.p.c. sono applicabili pure alle ordinanze del giudice dell'esecuzione che per aver avuto attuazione non sono più revocabili (Cass. civ., 3 febbraio 2015, n. 1891). Dalla equiparazione del decreto ingiuntivo alla sentenza di primo grado (cfr. Corte Cost. n. 335/2004; Corte Cost. 17 novembre 1994, n. 393) discende poi l'estensione applicativa dell'art. 287 c.p.c. anche ai decreti ingiuntivi e, conseguentemente, l'ammissibilità della contestuale pendenza dei procedimenti di correzione ex art. 287 c.p.c. e di opposizione ex art. 645 c.p.c. (Amplius, sul tema, sia consentito rinviare al nostro, La correzione del decreto ingiuntivo, in questa Rivista). L'ammissibilità dell'istanza di correzione è sostenuta pure con riferimento alle ordinanze cautelari sul presupposto per cui le stesse, pur avendo efficacia provvisoria e non essendo suscettibili di passare formalmente in cosa giudicata, sono caratterizzate da una certa stabilità conseguente al regime fissato dall'art. 669-deciesc.p.c. ai sensi del quale la possibilità di ottenere la modifica o la revoca di un provvedimento cautelare è condizionata al verificarsi di un mutamento delle circostanze ovvero all'allegazione di fatti anteriori dei quali si stata acquisita conoscenza solo successivamente alla pronuncia del provvedimento medesimo (cfr. Trib. Messina, 2 aprile 2012, con nota di R. Giordano, Note intorno alla correzione degli errori materiali contenuti nelle ordinanze cautelari e in altri provvedimenti non aventi la forma della sentenza, in Giust. civ., fasc. 7-8, 2012, 1860 ss.). La specifica disciplina della correzione delle sentenze della Corte di Cassazione e dei lodi arbitrali è invece affidata rispettivamente agli art. 391-bis e 826 c.p.c., pur nel rispetto della nozione di errori rilevanti di cui all'art. 287 c.p.c. (Trib. Salerno 29 novembre 1999, in Giur. mer., 2000, 278 ss.). Il procedimento
La competenza a conoscere della istanza di correzione spetta ai sensi dell'art. 287 c.p.c. al giudice che ha pronunciato il provvedimento da emendare. Il riferimento allo “stesso giudice”, inoltre, deve essere inteso nel senso di “stesso ufficio giudiziario”, senza che rilevi quindi la persona fisica del magistrato atteso che dalla descritta natura amministrativa del procedimento per la correzione deve ricavarsi l'inoperatività del principio della immutabilità del giudice di cui all'art. 276. c.p.c. (Cass. civ., 22 gennaio 2015, n. 1207) La competenza resta radicata innanzi al giudice di merito che ha emesso la pronuncia viziata anche nel caso in cui avverso di essa sia stato proposto ricorso per cassazione. Tale giudizio, infatti, in quanto di mera legittimità è inidoneo a consentire al giudice di correggere errori materiali contenuti nella statuizione di merito (Cass. civ., 23 marzo 2015, n. 5727; Cass. civ., 6 febbraio 1995, n. 1348. Sul tema, cfr. anche Cass. civ., 28 maggio 2004, n. 10376, che ha però ammesso l'accertamento della Corte di Cassazione al solo fine di escludere la sussistenza di un errore, di giudizio o di attività, soggetto altrimenti al suo controllo). L'attivazione del procedimento di correzione è rimessa all'iniziativa di parte, anche quella a cui vantaggio si risolve l'errore o l'omissione (M. Acone, Correzione, cit., 8). Su di essa, in caso di concorde richiesta il giudice provvede con decreto (art. 288, comma 1, c.p.c.). Sulla istanza proveniente da una sola parte, invece, pronuncia con ordinanza dopo avere disposto la comparizione (art. 288, comma 2, c.p.c.). Tale adempimento, però, deve ritenersi necessario anche per le ipotesi in cui, nonostante la domanda congiunta, il giudice ritenga di non dovere procedere alla correzione (M. Acone, Correzione, cit., 9). In questi casi egli provvede con decreto atteso che anche la diversa forma della sentenza non garantirebbe comunque un controllo sull'operato del giudice in ragione della non impugnabilità del provvedimento conseguente alla natura meramente ordinatoria della procedura all'esito della quale esso è reso (cfr. Cass. civ., 27 giugno 2013 n. 16205; Cass. civ., 17 maggio 2010, n. 12034). Ai sensi dell'art. 288, comma 2, c.p.c. l'ordinanza di correzione deve essere annotata sull'originale dell'atto emendato. Tale formalità pare verosimilmente da estendere anche alle ipotesi in cui sulla istanza il giudice abbia pronunciato con decreto, rilevando infatti la medesima come unica modalità di attuazione della correzione disposta (M. Acone, Correzione, 10). Alla non impugnabilità del provvedimento di correzione corrisponde in senso contrario il regime dettato dall'art. 288, comma 4, c.p.c. per le sentenze corrette e, in via analogica, per i provvedimenti aventi forma diversa dalla sentenza ma comunque soggetti ad impugnazione o a rimedi equivalenti. La disposizione, infatti, prevede che le sentenze assoggettate al procedimento di correzione possono essere impugnate, per le parti corrette, nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l'ordinanza di correzione. Per la giurisprudenza di legittimità tale dettato si riferisce alla sola ipotesi in cui l'errore corretto sia tale da determinare un qualche obbiettivo dubbio sull'effettivo contenuto della decisione e non già quando l'errore stesso, consistendo in una discordanza chiaramente percepibile tra il giudizio e la sua espressione, possa essere agevolmente eliminato in sede di interpretazione del testo della sentenza, poiché, in tale ultima ipotesi, un'eventuale correzione dell'errore non sarebbe idonea a riaprire i termini dell'impugnazione (Cass. civ., 20 ottobre 2014, n. 22185). Ciò che occorre indagare per comprendere a pieno il senso di tale norma è se essa miri a consentire un controllo circa le modalità attraverso le quali si è pervenuti alla correzione ovvero se non debba piuttosto ritenersi limitata al solo risultato del procedimento, da intendersi quale il nuovo testo emendato. La prima delle soluzioni proposte appare però certamente preferibile atteso che alla regola, strettamente dipendente dalla natura ordinatoria del mezzo, della inidoneità del provvedimento di correzione ad incidere sul contenuto della pronuncia non può non corrispondere anche la previsione della possibilità di verificare che il potere emendativo sia stato esercitato in modo legittimo. Altrimenti detto, l'impugnazione di cui all'art. 288, comma 4, c.p.c. è posta a tutela dei diritti nascenti dalla parte corretta attraverso la verifica della legittimità degli effetti sostanziali della disposta correzione. Ne consegue che la denuncia di eventuali vizi di formazione dell'ordinanza di correzione che non coinvolgano anche il merito sostanziale del provvedimento determinano l'inammissibilità dell'impugnazione, potendo essere formulate esclusivamente censure che riguardino o la verifica dell'ammissibilità del procedimento di correzione o la fondatezza del merito del provvedimento correttivo (in questi termini, Cass. civ., 27 aprile 2011, n. 9425). La descritta ricostruzione trova sostegno anche nel dato normativo che, nel ricollegare la decorrenza dei termini per l'impugnazione alla notifica dell'ordinanza di correzione, esclude indirettamente la spendibilità della stessa in tutti i casi in cui il giudice abbia provveduto, su istanza concorde delle parti, con decreto (sempre che lo abbia fatto in presenza di una effettiva comune volontà e correttamente), in linea con la logica considerazione per cui in tali ipotesi più difficilmente potrebbe dirsi sussistente l'illegittima incidenza sui diritti. Riferimenti
M. ACONE, Correzione e integrazione dei provvedimenti del giudice, in Enc. giur. Treccani, IX, Roma, 1968, 10 V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, II, Napoli, 1957, 286 F. CARNELUTTI, Istituzioni del processo civile italiano, I, Roma, 1956, 345 G. CHIOVENDA, Principi del diritto processuale civile, Napoli, 1965, 971 G. MONTELEONE, Intorno alla revocabilità dei provvedimenti di correzione delle sentenze, in Giur. mer., 1971, I, 140 ss. D. OLDANI, Sub art. 287 c.p.c., in Codice di procedura civile commentato, a cura di P. Comoglio, R. Vaccarella, Milano, 2010, 1273 N. PICARDI, Sub art. 288 c.p.c., in Codice di procedura civile, I, Milano, 2015, 1732 B. SASSANI, Lineamenti del processo civile italiano, Milano, 2015, 498 M. T. ZANZUCCHI, Diritto processuale civile, II, Milano, 1962, 106 |