Disponibilità delle proveFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 115
21 Marzo 2016
Inquadramento
Il tema relativo alla disponibilità delle prove e la concreta disciplina che di tale principio il legislatore adotta costituisce il punto di incontro fra due opposte visioni del processo civile: un modello inquisitorio, nel quale una volta che il giudizio è stato introdotto la valutazione delle domande delle parti e la stessa ricerca dei mezzi di riscontro su cui tale valutazione è condotta è affidata al giudice, ed un modello dispositivo, riassumibile nel brocardo judex secondum alligata et probata partium iudicare debet. La dottrina ha da tempo segnalato come il principio della disponibilità delle prove sia diverso dal principio dispositivo del processo, delineato dagli artt. 99 c.p.c. (c.d. principio della domanda: «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente») eart. 112 c.p.c. (c.d. principio della corrispondenza tra domanda e pronuncia giudiziale), e come la disponibilità della tutela giuridica non implichi necessariamente un analogo dominio su mezzi di prova.La norma cardine in questa materia risulta, allora, l'art. 115 c.p.c., a tenore del quale «salvi i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita». Tralasciando i casi in cui il potere di allegazione dei mezzi di prova è concesso allo stesso P.M. (solitamente coincidenti con situazioni di diritto sostanziale che per la loro delicatezza sono sottratte alla disponibilità delle parti), l'inciso «salvi i casi previsti dalla legge» evidenzia immediatamente all'interprete come il nostro sistema non abbia adottato un modello processuale puro. La dottrina preferisce così parlare di principio di disponibilità delle prove «attenuato», nel senso che, pur essendo normalmente affidata alla iniziativa di parte non soltanto la formulazione delle domande e l'allegazione dei fatti, ma anche l'indicazione dei mezzi di prova atti a dimostrare i primi, vi sono tuttavia delle eccezioni previste dalla legge nelle quali il giudice recupera un ruolo attivo, potendo cioè concorrere non soltanto all'individuazione delle norme applicabili al fatto concreto (jura novit curia), ma altresì alla ricerca degli elementi di prova necessari ad avere conoscenza dei fatti esposti dalle parti. Il principio dispositivo in materia probatoria
Con la disposizione dell' art. 115 c.p.c., contenuta nel Titolo V del Libro I del codice di procedura civile, recante quale epigrafe «Dei poteri del giudice», si delinea uno dei punti cardine del processo civile ed uno dei temi sicuramente più dibattuti nell'indagine circa l'equilibrio fra il tradizionale principio dispositivo (secondo cui spetta in modo esclusivo alle parti introdurre nel processo i fatti fondanti le rispettive pretese ed eccezioni nonché le prove idonee ad offrirne dimostrazione) e l'assunzione da parte del giudice di un ruolo attivo nella ricerca della prova (modello inquisitorio). . p . c . deve essere correlato, evidentemente, agli artt. 99 e 112 del codice, che pongono in modo rigoroso il principio della domanda, e della corrispondenza fra questa ed il pronunciato, a sua volta collegato con il principio tradizionale della disponibilità dei diritti e dell'accesso alla tutela giurisdizionale.
Il principio dispositivo in ordine alle prove nel processo, tuttavia, non rappresenta un portato indefettibile e necessario della regola della disponibilità (tendenziale) dei diritti e della loro tutela, posto che astrattamente risulta compatibile con un sistema fondato sulla domanda e l'impulso di parte anche l'adozione di regole inquisitorie nella ricerca e formazione della prova. Del resto, si è osservato, il principio della domanda è compatibile anche con un sistema rigido di preclusioni quale quello vigente, che pure introduce limitazioni – ma in vista delle superiori e pubblicistiche esigenze di celerità ed efficienza del processo – alla possibilità per le parti di apportare modificazioni od allargamenti del thema decidendum se non nella primissima fase del giudizio.
Il nostro sistema, come si è osservato, adotta pertanto un principio dispositivo «attenuato» in tema di prove, nel senso che in linea tendenziale spetta alle parti in via esclusiva la possibilità di introdurre nel processo il materiale probatorio, «salvi i casi previsti dalla legge», (espressione con la quale non a caso si apre la norma in esame).
Va ancora rilevato che «principio dispositivo» in tema di prova non è sinonimo di «onere della prova». Con quest'ultima espressione, ricavata dall' art. 2697 c.c., si allude infatti al criterio che permette di individuare a quale delle parti processuali spetta dimostrare il fondamento dei fatti costitutivi, estintivi, modificativi posti a base delle rispettive domande o eccezioni con una funzione, in ultima analisi, rivolta ad individuare il soggetto su cui sono destinati a prodursi gli effetti sfavorevoli di una situazione probatoria incerta, incompleta, contraddittoria o del tutto carente.
Con il principio della disponibilità delle prove, invece, si fa riferimento piuttosto a quell'insieme di regole tecniche e processuali con le quali le parti introducono nel processo i mezzi di prova, valendo al contempo a significare che alle stesse, in via tendenzialmente esclusiva, è riconosciuto un ruolo attivo nella formazione del thema probandum. Il principio di acquisizione
Una generale attenuazione del principio dispositivo, peraltro, ancora prima dell'indagine circa i poteri ufficiosi del giudice, si ricava dall'esistenza nell'ordinamento del principio di acquisizione. Tale canone opera nel senso che una prova introdotta nel processo rileva in modo oggettivo, indipendentemente dal soggetto che ne ha fatto istanza o che l'ha materialmente prodotta, ben potendo perciò provocare effetti sfavorevoli alla parte richiedente o producente (così ad es. un documento allegato da una parte ben può produrre effetti sfavorevoli per le tesi della stessa, posto che il documento una volta introdotto nel processo va interpretato dal giudice secondo le regole di ermeneutica legale sue proprie, indipendentemente dagli auspici o dalla volontà soggettiva della parte processuale, peraltro nei limiti di quello che è l'oggetto del giudizio).
Il principio di acquisizione è altresì il portato del libero convincimento del giudice, che salvo il caso delle prove c.d. legali può liberamente apprezzare il materiale probatorio indipendentemente dalla considerazione della parte che lo ha fornito.
Il principio acquisitivo opera, in primo luogo, rispetto alle prove c.d. precostituite, come i documenti, i quali rilevano nel loro contenuto obiettivo indipendentemente dalle intenzioni probatorie della parte che li ha prodotti.
Non è tuttavia estraneo neppure alle prove orali o c.d. costituende, rispetto alle quali talune disposizioni ne costituiscono la plastica espressione. Viene in rilievo, ad esempio, l' art. 245, comma 2, c.p.c., a mente del quale «la rinuncia fatta da una parte all'audizione dei testimoni da essa indicati non ha effetto se le altre non vi aderiscono e se il giudice non vi consente». La norma vuole ribadire che una richiesta di prova, una volta ammessa dal giudice, non può essere liberamente rinunciata dalla parte richiedente (che ad esempio si è resa conto che il teste potrebbe riferire circostanze contrarie alle proprie tesi) ma rileva in modo obiettivo e soltanto se anche l'altra parte ed il giudice consentono, allora può essere rinunciata. Non si tratta di una violazione «frontale» del diritto dispositivo, in quanto le parti restano libere di indicare o non indicare capitoli di prova e testimoni, ma una volta che il giudice vi abbia provveduto ammettendo la richiesta la (totale) disponibilità cessa, sia per ragioni sostanziali di giustizia ed accertamento della verità, sia per ragioni di economia processuale, non potendo ammettersi che il dispendio di tempo ed energie che ha portato alla delibazione della prova da parte del giudice possa essere vanificato dalla successiva ed arbitraria rinuncia. Né, ovviamente, il principio dispositivo potrebbe giustificare una rinuncia ex post della parte ad un mezzo di prova, soltanto in base all'esito (eventualmente sfavorevole) di esso rispetto agli auspici iniziali.
Collegato al principio appena richiamato è, anche, la disposizione di cui all' art. 104, comma 1, disp. att. c.p.c., secondo cui «se la parte senza giusto motivo non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara, anche d'ufficio, decaduta dalla prova, salvo che l'altra parte dichiari di avere interesse all'audizione». Sarebbe infatti assai semplice aggirare l'operatività, per così dire «obiettiva», del principio di acquisizione semplicemente mancando di intimare il teste piuttosto che rinunciare espressamente alla sua assunzione. Se il primo contegno meramente omissivo fosse di per sé sufficiente ad impedire l'ingresso della prova (già disposta) nel processo, sarebbe vanificata la prescrizione di cui al precedente art. 245 cit.
Un riferimento più ampio al principio di acquisizione, definito in sentenza come principio di non dispersione delle prove, è infine compiuto dalla recente Cass. civ., sez. un., 10 luglio 2015, n. 14475, che sia pure con riferimento al testo dell'art. 345 antecedente la modifica del 2012, ha avuto modo di affermare un principio ancora attuale: «i documenti allegati alla richiesta di decreto ingiuntivo non possono essere considerati nuovi, sicché, pur non prodotti nella fase di opposizione, ne è ammissibile l'allegazione con l'atto di appello, senza che operino i limiti di cui all' art. 345, comma 3 c.p.c.».
La regola della disponibilità delle prove si coordina tradizionalmente e si completa con il principio civilistico del divieto per il giudice di ricorrere alla propria scienza privata. Tuttavia, il codice di rito conosce diverse fattispecie nelle quali il giudice concorre alla formazione della prova ed alla dimostrazione dei fatti ritualmente allegati nel processo. Sotto questo profilo si spiega l'avvertenza introduttiva della norma in esame «salvi i casi previsti dalla legge». Peraltro, se nel processo ordinario di cognizione, solo in via eccezionale è consentito al giudice di assumere iniziative istruttorie, più ampi poteri istruttori di ufficio sono previsti nel processo del lavoro (si pensi all' art. 421 c.p.c. ) e in taluni procedimenti speciali (p. es. in materia di interdizione, inabilitazione e amministrazione di sostegno, nel procedimento prefallimentare e nei procedimenti a cognizione sommaria di natura cautelare). In tali casi il principio dispositivo conosce una consistente limitazione proprio perché il processo – quasi sempre caratterizzato dalla presenza del pubblico ministero - verte su diritti indisponibili (es.art. 714 c.p.c. in tema di interdizione, art. 720 - bisc . p . c . in relazione con l' art. 407 c.c. per l'amministrazione di sostegno, art. 5 comma 9 legge 1 dicembre 1970, n. 898 , in tema di indagini reddituali e patrimoniali nel corso del giudizio di divorzio, art. 15 l.f. per il procedimento prefallimentare), ovvero in caso di istruttoria sommaria pur nella pienezza della cognizione ( art. 702 - ter,comma 5 , c . p . c . sul procedimento sommario di cognizione).
Segue: riformulazione delle istanze istruttorie inammissibili
Con l'introduzione di barriere preclusive via via accentuatesi a partire dalle riforme degli anni novanta e sino alla rimodulazione della prima udienza di trattazione ed appendice scritta nel 2005 (in particolare il nuovo art. 183, comma 6 c.p.c., trattato nella voce AMMISSIONE DELLE PROVE), il quesito afferente alla possibilità per il giudice di riformulare d'ufficio una prova richiesta con modalità inammissibili (o sollecitare la parte a farlo) ha perso molto della sua importanza. Del pari, deve ricordarsi l'avvenuta abrogazione dell'art. 244, ult. comma c.p.c. ad opera della l. n. 353/90, a decorrere dal 30 aprile 1995, che originariamente prevedeva che il giudice «secondo le circostanze, può assegnare un termine perentorio alle parti per formulare o integrare» i capitoli di prova o l'indicazione dei testimoni.
Certamente deve escludersi la legittimità della riformulazione d'ufficio di richieste di prova (il tema si pone maggiormente per la prova testimoniale) dopo che la parte sia incorsa in qualche decadenza o le preclusioni istruttorie siano già maturate.
Anche prima di tale momento resta tuttavia uno spazio molto limitato, rispetto alle richieste istruttorie contenute negli atti introduttivi, considerando che l' art. 183, comma 4, c.p.c.abilita espressamente il giudice a richiedere alle parti chiarimenti e ad indicare «le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione» e che ciò, se da un lato corrisponde al dovere di collaborazione del giudice con le parti del procedimento delineato fra l'altro dagli artt. 127 e 175 c.p.c. , dall'altro può avvenire nel pieno rispetto del contraddittorio ed in un momento nel quale le parti possono ancora pienamente non soltanto riformulare completamente le proprie richieste probatorie iniziali, ma aggiungerne a piacimento, sino allo spirare dei termini di cui all' art. 183, comma 6 c.p.c. n. 2 e (nei limiti della prova contraria) n. 3.
La possibilità di intervenire sulla modalità di formulazione dei capitoli, alla luce del modello di trattazione istruttoria previsto dal citato art. 183, comma 6 , c.p.c. appare oggi del tutto remota: se il giudice si è, infatti, riservato di provvedere sulle richieste di prova concedendo i termini ciò presupporrebbe una sorta di non liquet e fissazione di una nuova udienza (ma quando le preclusioni sono oramai maturate), se invece – secondo prassi sicuramente più diffusa – il giudice ha sin dall'inizio fissato udienza di discussione dopo il decorso dei tre termini, allora pur essendo possibile un contraddittorio sulle richieste di prova, anche in tal caso i termini sarebbero già decorsi e le parti decadute dalla possibilità di richiedere non solo prove nuove, ma anche diverse. Probabilmente l'unico spazio che resta, rispetto ad esempio ad un capitolo effettivamente rilevante ai fini del decidere e che contenga qualche aspetto valutativo, è costituito dall'ammissione frazionata o con «esclusione della parte valutativa», e purchè il nucleo dei fatti su cui il capitolo è previsto abbia una formulazione ammissibile.
L' art. 281-ter c.p.c., introdotto dal d.lgs. n. 51/1998 riprendendo la lettera degli abrogati artt. 312 e 317 c.p.c. , rappresenta una disposizione che, pur riguardando esclusivamente i procedimenti davanti al tribunale in composizione monocratica, costituisce una deroga evidente del principio di disponibilità delle prove, posto che tale disposizione afferma: «il giudice può disporre d'ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità».
L'eccezionalità della deroga giustifica pertanto, a livello ermeneutico, la ricerca di una sua riconduzione a sistema. Appare in primo luogo certo che tale facoltà riguarda unicamente fatti allegati tempestivamente dalle parti e riguarda persone (il teste d'ufficio) che in modo inequivoco siano state indicate come specificamente a conoscenza dei fatti medesimi.
Tuttavia, restano dubbi interpretativi in merito alle modalità applicative della norma. Nel rinviare alla voce relativa alla prova testimoniale, si deve comunque ricordare che una interpretazione riduttiva della norma, quale extrema ratio prima dell'applicazione della regola dell'onere della prova, traspare da Corte Cost., 14 marzo 2003, n. 69secondo cui: «in nessun caso il potere officioso di cui all' art. 281-ter c.p.c. potrebbe – senza attribuire al giudice un arbitrario (più che discrezionale) potere di disporre, per lasciarle o non definitivamente maturare, delle decadenze istruttorie nelle quali una parte fosse incorsa – essere esercitato oltre i limiti della fase istruttoria, ferma l'applicabilità del disposto dell'art. 184, ultimo comma, c.p.c.». I fatti notori
Il principio dispositivo è attenuato dal comma 2 dell' art. 115 c.p.c. , con la previsione che il giudice può «senza bisogno di prova», porre a fondamento della decisione le «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza».
È così ammessa la possibilità che ai fini della decisione siano utilizzate anche cognizioni di formazione extraprocessuale, che non necessitano di prova nel giudizio. Deve però trattarsi di conoscenze di cui il giudice disponga non a titolo «privato», ossia personale e individuale, bensì quale membro della collettività sociale in cui opera. Esse devono quindi risultare comuni e consolidate presso detta collettività e non proprie e specifiche del giudice persona fisica.
Del fatto notorio se ne è data la seguente definizione: «il fatto notorio, derogando al principio dispositivo ed a quello del contraddittorio e dando luogo a prove non fornite dalle parti e relative a fatti da esse non vagliati e controllati, dev'essere inteso in senso rigoroso, cioè come fatto acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice. Conseguentemente, per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicchè al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perchè appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perchè le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull'interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo» ( Cass. civ., 25 novembre 2005, n.24959).
L'utilizzo scorretto del notorio da parte del giudice può essere oggetto di censura in sede di gravame, pur se: «il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo» ( Cass. civ., sez. lav., 14 dicembre 2005, n. 27591).
È discusso se il progresso scientifico, l'ampliarsi degli strumenti di comunicazione e di collegamento telematico, possano determinare una progressiva espansione dell'area del «notorio». In linea tendenziale la risposta deve ritenersi positiva. L'ormai generalizzato utilizzo dello strumento di internet e la diffusa ed accessibile a chiunque possibilità di connessione a dati e informazioni rende le stesse di conoscenza generale. Naturalmente deve trattarsi pur sempre di dati non opinabili, fondati su una diffusa conoscenza tale da imporsi, per così dire, alla collettività, in modo che questa possa autonomamente compierne la rilevazione critica ed al giudice non resti che constatarne gli effetti e desumerne le conseguenze giuridiche che ne derivano.
Si è così ritenuta l'appartenenza alla categoria del «notorio» di una serie di circostanze che, più propriamente, possono farsi rientrare nelle conoscenze non dell'intera collettività, ma di un suo certo settore qualificato: così ad esempio in tema di valore degli autoveicoli usati ( Cass. civ., n. 13056/2007 ); in tema di tasso di interesse bancario in un certo periodo ( Cass. civ., n. 16132/2005 ); la circostanza che nei rogiti notarili i valori venali sono dichiarati in misura sensibilmente inferiore al reale ( Cass. civ., n. 11643/2007 ); i particolari geografici o topografici di una città, nella quale abitino il giudice e le parti in causa ( Cass. civ., n. 16165/2001 ); la durata media della stagione turistica in una data zona ( Cass. civ., n. 12112/2003 ).
Dai “fatti notori” occorre distinguere concettualmente, le c.d. massime di esperienza, la cui applicazione pure il giudice può compiere in modo officioso e senza richiesta di parte. Le massime di esperienza possono definirsi come giudizi ipotetici di carattere generale, indipendenti dal caso concreto dedotto in giudizio, ma elaborati dalla collettività sociale in base all'osservazione di una molteplicità di casi concreti nella vita di ogni giorno, così da acquisire il valore di regole di giudizio per la valutazione di altri casi analoghi. Di queste regole il giudice può avvalersi per verificare il significato, l'attendibilità e l'efficacia di una prova e per formare il proprio convincimento. Le massime di esperienza non sono dunque mezzi per accertare sul piano probatorio dei fatti, bensì regole che consentono la valutazione di fatti già accertati. Sono tali le leggi scientifiche o naturali, le leggi statistiche e le regole di comune esperienza.
Con una norma centrale nella determinazione dell'equilibrio fra poteri delle parti e del giudice, assegnando una prevalenza alla finalità sostanziale di ricerca della prova e verità materiale, il rito del lavoro si connota per la presenza dell' art. 421 c.p.c.che, ai fini di quanto qui interessano, prevede che il giudice «può altresì disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti».
La decisione resa da Cass. civ., sez. un. n. 761/2002(nota anche per la prima matura affermazione del principio di non contestazione da parte dei giudici di legittimità) ha il pregio di affermare nitidamente che «è caratteristica precipua di detto rito speciale il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale, di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale e idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni in danno delle parti».
La norma costituisce perciò, a ben vedere, un forte innesto sostanzialista nel procedere del rito del lavoro, ed una deroga al principio della disponibilità delle prove capace di operare in due direzioni fra loro complementari:
Va notato che secondo la tesi attualmente prevalente l'esercizio dei poteri istruttori del giudice, ex artt. 421 c.p.c. in primo grado ed exart. 437 c.p.c. in appello, non può tramutarsi in arbitrio, ma deve essere motivato, sia nel caso in cui venga rifiutato a seguito di domanda di una parte che in caso di positivo esperimento.
In relazione alla prospettiva sub b), la giurisprudenza ha invece chiarito che la portata della deroga va limitata agli artt. 2721, 2722, 2723 c.c. in materia di prova testimoniale, nonché all' art. 1417 c.c. in tema di simulazione, e non può trovare applicazione ai requisiti di forma previsti dal codice civile, ad substantiam o ad probationem, per alcuni tipi di contratto Casistica
Riferimenti
M. CEA COSTANZO, Trattazione e istruzione nel processo civile, ESI, 2010
S. PATTI, l e prove. Parte generale, Giuffrè, 2010
M. TARUFFO, L a prova nel processo civile, Giuffrè, 2012 |