Le Sezioni Unite si pronunciano sulle prove indispensabili in appello
15 Maggio 2017
Massima
Prova nuova indispensabile di cui al testo dell'art. 345, comma 3, c.p.c., previgente rispetto alla novella di cui all'art. 54, comma 1, lett. b), d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012, è quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado. Il caso
Del fatto da cui si è originata la pronuncia in commento si è già dato conto al momento dell'ordinanza di rimessione (M. Di Marzio, Quali prove sono ammissibili in appello perché indispensabili?, in nota a Cass. 7 novembre 2016, n. 22602, per la rubrica Contrasti). In breve, un magistrato che si sente diffamato da accuse contenute in un libro agisce per il risarcimento del danno nei confronti (per quanto ora ci interessa) dell'autore, ma non produce, in primo grado, l'ordinanza il cui contenuto sarebbe stato travisato, sicché la sua domanda è rigettata. La produzione è effettuata in appello, ma la produzione è giudicata inammissibile per la sua novità, ai sensi dell'art. 345 c.p.c., non trattandosi di prova «indispensabile», dal momento che, secondo il giudice dell'impugnazione, è indispensabile la nuova prova divenuta utile e necessaria in dipendenza delle valutazioni della decisione appellata a commento delle risultanze istruttorie di primo grado. Il ricorso per cassazione induce dunque la terza sezione civile a sollevare la questione, che viene rimessa alle Sezioni Unite, perché oggetto di contrastanti soluzioni, in ordine al significato della nozione di indispensabilità accolta dall'art. 345 c.p.c., nel testo antecedente alla novella di cui al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con mod. in l. 7 agosto 2012, n. 134, che ha espunto dalla norma la previsione (rimasta però nell'art. 437 c.p.c., concernente l'appello lavoro, e nell'art. 702-quater c.p.c., concernente l'appello nel rito sommario) dell'ammissibilità delle nuove prove indispensabili. La questione
Ecco allora la questione. Quali prove sono indispensabili e sono conseguentemente ammissibili in appello quantunque nuove? Le prove, secondo un orientamento della Suprema Corte, la cui utilità o necessità sorge dalla sentenza impugnata, in buona sostanza quando il giudice ha adottato la sentenza della «terza via»? Oppure le prove dotate di una efficacia probatoria particolarmente incisiva, secondo un diverso e maggioritario orientamento della Suprema Corte? Le soluzioni giuridiche
Le Sezioni Unite, nel comporre il contrasto, aderiscono all'orientamento maggioritario: indispensabile è la prova non soltanto ammissibile e rilevante, ma che possiede un'efficacia probatoria tale da indirizzare ineluttabilmente la decisione in un senso o nell'altro. La decisione fa giustizia dell'altra soluzione con l'impiego di un argomento non privo di fondamento. L'art. 345 c.p.c., nel testo all'epoca applicabile, prevedeva che potessero ammettersi nuovi mezzi di prova e documenti non solo se indispensabili, ma anche se la parte avesse dimostrato di non poterli proporre o produrre per causa non imputabile (precetto, questo, sopravvissuto nella norma vigente): sicché le nuove prove e i nuovi documenti che si rendono utili o necessari in dipendenza della soluzione della lite adottata dal giudice di primo grado sono comunque ammissibili in appello in quanto non proposti o prodotti per causa non imputabile, con l'ulteriore conseguenza che l'ammissibilità delle prove indispensabili, se ancorata al contenuto della sentenza impugnata (trattandosi di prove delle quali non era apprezzabile neppure una mera utilità durante il giudizio di primo grado), verrebbe inammissibilmente abrogata per via di interpretazione. Indispensabile dunque è, come riassume la massima, quella idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato. La pronuncia è consapevole che la soluzione accolta fa saltare il sistema delle preclusioni: ma in buona sostanza ritiene che questo sia il male minore. Ed infatti, «il regime delle preclusioni istruttorie non è un carattere tanto coessenziale al sistema da non ammettere alternative, essendo soltanto una tecnica elaborata per assicurare rispetto del contradditorio, parità delle parti nel processo e sua ragionevole durata, tecnica che ben può essere contemperata … con il principio della ricerca della verità materiale». Nulla rileva, d'altronde, che il dispiegamento di nuove prove e documenti in appello possa incidere negativamente sulla ragionevole durata del processo, che «è valore servente rispetto al diritto d'azione di cui all'art. 24 Cost.». Osservazioni
Che dire. Le incertezze che avvolgevano l'infelice nozione di indispensabilità non sono neppure scalfite dall'intervento delle Sezioni Unite. Essa fa ingresso nel codice di rito con la riforma del processo del lavoro del 1973: ed è, credo, intuitivo che l'indispensabilità, in quel campo, dominato dall'affidamento al giudice di forti poteri officiosi e da un rigido sistema di preclusioni-decadenze, potesse avere un qualche senso, sia pure discutibile, quale correttivo volto alla ricerca della fata Morgana della verità materiale. Anche nel rito sommario di cognizione (art. 702-bis ss. c.p.c.) si può discutere dell'opportunità di concedere alle parti, in appello, spazi di manovra più ampi, attraverso l'indispensabilità, tenuto conto del carattere per l'appunto «sommario» del giudizio di primo grado: per quello che può valere, ritengo però che anche lì la previsione di ammissibilità in appello delle prove e documenti indispensabili non abbia ragione di essere, dal momento che nel procedimento sommario, la cognizione non è affatto sommaria, ma piena, sia pure nel quadro di una semplificazione delle successive scansioni processuali. Certo, a mio parere, l'indispensabilità nel giudizio di cognizione ordinaria, quale «usbergo» (mutuo il vocabolo dalle Sezioni Unite: in italiano si dice protezione, difesa) di un supposto principio della verità materiale, non ha nessun senso. Lasciando da parte il fatto che l'esatta linea di discrimine tra una prova o un documento semplicemente «rilevante» ed una prova o un documento «indispensabile» rimane un mistero, vorrei dire che il processo civile non mira affatto ad attingere il miraggio della verità materiale: se fosse così non si comprenderebbe la fondamentale regola posta dall'art. 2697 c.c., ossia la regola dell'onere della prova. Tutti i giorni il processo civile attribuisce il bene della vita in contesa non già in funzione della ricostruita verità materiale della vicenda, ma dando torto a chi aveva l'onere di fornire una determinata prova e no l'ha fatto. Le situazioni di incertezza sono nel processo civile, non soltanto ordinario, a differenza di quello penale, del tutto fisiologiche. Ed in questa prospettiva, evidentemente, nessuna prova è indispensabile ai fini del decidere, dal momento che il giudice, applicando l'onere della prova, deciderà anche senza di essa. Il processo civile, in definitiva, offre alle parti gli strumenti per consentir loro di ricostruire l'agognata verità materiale, ma non impone affatto, né brama di ricostruirla. Il diritto di azione di cui all'art. 24 Cost., poi, non capisco bene che cosa abbia a che fare col problema. La Costituzioni riconosce il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, non mi pare tuteli la negligenza di chi aveva in mano una prova o un documento indispensabili, e se li è inopinatamente tenuti nel cassetto. Oggi, dopo le Sezioni Unite (e anche prima, secondo l'orientamento maggioritario), abbiamo ad esempio questa situazione. Il convenuto in un giudizio ordinario di pagamento somma è in possesso della quietanza di pagamento, ma non la produce nei termini dell'art. 183 c.p.c.. All'udienza di precisazione delle conclusioni dice al giudice: «Caro giudice, sorpresa! Ecco la quietanza! Lo so, sono stato uno sciocco a non portarla prima, ma sa com'è, con tante cose che ho per la testa…». «Caro signore» — risponde il giudice — «lei è un buontempone! Mi dispiace, ma io non ho modo di tener conto di quel documento, che lei avrebbe dovuto portarmi a tempo debito: la legge me lo vieta. Per ora le do torto, ma abbia fiducia, faccia appello, e si ricordi questa volta di depositare la quietanza, che la mia sentenza verrà senz'altro riformata». E le cose vanno davvero così. Ora, mi domando, può funzionare una cosa del genere? Il processo è stato detto, è un gioco: ma non è bene che possa scivolare nella farsa. |