Rosaria Giordano
26 Aprile 2017

Il procedimento per l'equa riparazione dei danni derivanti dall'irragionevole durata del processo è stato rimodellato dalla l. n. 134/2012 che ha strutturato lo stesso, in uno schema che ricalca, almeno in apparenza, quello del giudizio monitorio di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c., su due fasi, l'una necessaria inaudita altera parte e l'altra, provocata dall'eventuale opposizione di una delle parti, a cognizione piena, sebbene nelle forme del procedimento in camera di consiglio, volta all'accertamento in contraddittorio in ordine all'esistenza del diritto fatto valere dal ricorrente.
Inquadramento

Il procedimento per l'equa riparazione dei danni derivanti dall'irragionevole durata del processo è stato rimodellato dalla l. n. 134/2012 che ha strutturato lo stesso, in uno schema che ricalca, almeno in apparenza, quello del giudizio monitorio di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c., su due fasi, l'una necessaria inaudita altera parte e l'altra, provocata dall'eventuale opposizione di una delle parti, a cognizione piena, sebbene nelle forme del procedimento in camera di consiglio, volta all'accertamento in contraddittorio in ordine all'esistenza del diritto fatto valere dal ricorrente (v., tra gli altri, CONSOLO – NEGRI, 1429 ss.).

La ratio della riforma deve individuarsi nel tentativo di ridurre il carico di lavoro delle Corti d'Appello chiamate a decidere sui ricorsi di equa riparazione, con il non peregrino rischio che esse stesse finiscano per deciderli in tempi irragionevoli dando luogo ad ulteriori procedimenti promossi ai sensi della l. n. 89/2001. La “scommessa” del legislatore è invero quella della proposizione da parte dell'Amministrazione dell'opposizione avverso il decreto emanato nella fase sommaria soltanto in alcuni casi (CONSOLO – NEGRI, 1435).

Almeno in parte viene riproposta una struttura del procedimento che era stata già prevista dall'originario disegno di legge S-1440 che aveva dato luogo all'emanazione della legge 24 marzo 2001 n. 89, c.d. Pinto che invero prevedeva originariamente per il ricorso di equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo una struttura monitoria ed, in particolare, che la parte interessata potesse proporre un'istanza di equa riparazione, sottoscritta personalmente, secondo moduli a tal fine predisposti da un decreto ministeriale. Sull'istanza era chiamato a pronunciarsi il Presidente della Corte d'Appello o un Magistrato dallo stesso delegato con l'ausilio del personale amministrativo della Corte medesima. Sul decreto pronunciato a seguito della proposizione dell'istanza la parte avrebbe potuto poi proporre opposizione, peraltro con il patrocinio di un difensore tecnico, dando luogo ad un giudizio contenzioso (CONSOLO 427 ss.).

A differenza del procedimento per ingiunzione di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c., che è alternativo rispetto all'ordinaria azione di condanna, il ricorso per l'equa riparazione per i danni derivanti dall'irragionevole durata del processo rimane disciplinato secondo il modello di un procedimento di carattere esclusivo (DE SANTIS DI NICOLA 282 ss.), ossia che deve essere necessariamente utilizzato per la ottenere la relativa tutela, senza che possa essere proposta azione anche nelle forme ordinarie.

Competenza

L'art. 3, comma 1, della legge 24 marzo 2001 n. 89, nella formulazione successiva alla legge n. 308 del 2015, stabilisce che la competenza è attribuita in unico grado di merito, alla Corte d'appello del distretto nel quale è stato deciso il processo presupposto in primo grado, in accordo con criterio di collegamento della competenza per territorio innovativo, introdotto dalla medesima legge n. 208 del 2015.

Viene quindi meno il criterio “tradizionale” dettato dalla stessa norma in esame sin dall'emanazione della legge c.d. Pinto per il quale la domanda di equa riparazione si propone con ricorso al Presidente della Corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell' art. 11 c.p.p. a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto e' concluso o estinto relativamente ai gradi di merito il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata.

Su un piano generale, l'art. 3 legge n. 89/2001 individuava un duplice criterio di collegamento della competenza, i.e. sia quella per materia che quella per territorio, attribuendo, invero, la prima alla Corte d'Appello (rectius, al Presidente della stessa, essendo oggi il procedimento incardinato mediante ricorso monitorio) e la competenza per territorio avendo riguardo al disposto dell'art. 11 c.p.p..

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che la speciale competenza territoriale prevista dall'art. 3 legge 24 marzo 2001 n. 89 ha carattere inderogabile ai sensi dell'art. 28 c.p.c..

Pertanto, nell'assetto previgente, sia il difetto di competenza per materia che quello per territorio dovevano ritenersi rilevabili d'ufficio entro la prima udienza in camera di consiglio dinanzi alla Corte d'Appello, mentre la parte resistente doveva eccepire a pena di decadenza l'incompetenza del Giudice adito in sede di costituzione tempestiva in giudizio.

La S.C. ha evidenziato, altresì, che in tema di equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo, l'eccezione di incompetenza territoriale dell'adita Corte d'appello - alla quale l'interessato abbia proposto la domanda di indennizzo ai sensi dell'art. 3 l. 24 marzo 2001 n. 89 - non può essere proposta per la prima volta con il ricorso per cassazione. Per assumere rilevanza, difatti, la questione di competenza deve manifestarsi, su rilievo d'ufficio o su eccezione di parte, nel corso del procedimento dinanzi alla Corte d'appello, di talché non è ammissibile impugnare per cassazione il decreto conclusivo prospettando una ragione di incompetenza precedentemente non emersa (Cass., n. 14283/2006).

Nell'assetto attuale, essendo il procedimento articolato secondo una prima fase necessaria, di carattere sostanzialmente monitorio, ed una seconda, eventuale, di opposizione dinanzi alla Corte d'Appello in camera di consiglio, ne deriva che l'Amministrazione è tenuta a sollevare, a pena di decadenza, l'eccezione di incompetenza nell'atto di opposizione, mentre la stessa questione sarà rilevabile dal Giudice d'ufficio all'udienza.

Dalla formulazione dell'art. 3, legge 24 marzo 2001 n. 89 era sorto immediatamente il problema interpretativo avente ad oggetto l'individuazione della Corte d'Appello territorialmente competente per l'ipotesi in cui il giudizio presupposto si fosse svolto dinanzi a giudici speciali, atteso che il termine “distretto” è ripartizione tipica della sola giurisdizione ordinaria (CANTONE, 767).

A riguardo, prima della riforma di cui alla legge n. 208/2015, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., Sez. Un., n. 6306/2010 e 6307/2010, in Corr. Giur., 2010, 881, con nota di SALVATO) avevano affermato il principio per il quale in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, ai fini dell'individuazione del giudice territorialmente competente in ordine alla relativa domanda, il criterio di collegamento stabilito dall'art. 11 c.p.p., richiamato dall'art. 3, comma primo, l. n. 89/2001, deve essere applicato con riferimento al luogo nel quale ha sede il giudice di merito, ordinario o speciale, dinanzi al quale ha avuto inizio il giudizio presupposto. Per pervenire a tale soluzione, senz'altro più opportuna anche sotto il profilo pratico, le Sezioni Unite hanno precisato che il termine “distretto” appartiene alla descrizione del criterio di collegamento e vale a delimitare un ambito territoriale in modo identico, quale che sia l'ufficio giudiziario dinanzi al quale il giudizio presupposto è iniziato e l'ordine giudiziario cui appartiene, in quanto ciò che viene in rilievo non è l'ambito territoriale di competenza dell'ufficio giudiziario, ma la sua sede (Cass., n. 24171/2010).

Ricorso e documentazione allegata

Il primo comma legge 24 marzo 2001 n. 89 stabilisce che la domanda di equa riparazione si propone con ricorso e che trova applicazione il disposto dell'art. 125 c.p.c..

Il comma 3 dell'art. 3 della legge c.d. Pinto stabilisce che al ricorso deve essere allegata copia autentica di alcuni atti del processo presupposto, ossia:

  1. l'atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata;
  2. i verbali di causa e i provvedimenti del giudice;
  3. il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.

Tale disposizione costituisce, in un certo senso, un “ritorno al passato” in quanto il testo originario del disegno di legge che ha dato luogo all'emanazione della legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Pinto, prevedeva che unitamente al ricorso per equa riparazione venisse depositata, a pena di improcedibilità della domanda proposta, copia – tuttavia non autentica - degli atti del processo presupposto, nell'intento di mettere subito a disposizione della Corte d'Appello il materiale istruttorio necessario ai fini della decisione (RONCO 2002, 295).

Nella configurazione del procedimento secondo lo schema proprio di quello monitorio nella prima fase tali atti costituiscono il pendant dei documenti che devono essere depositati dal ricorrente nel procedimento di ingiunzione “spurio” o “documentale” per supportare la propria domanda: come può evincersi dalla Relazione illustrativa la produzione di tali documenti da parte del ricorrente dovrebbe soddisfare il requisito della prova scritta richiesto ai fini della concessione del provvedimento monitorio inaudita altera parte (MARTINO, 563; in senso analogo GHIRGA, 1032).

Peraltro, l'onere posto a carico del ricorrente in sede di equa riparazione appare rilevante, anche sotto il profilo economico, con finalità evidentemente dissuasive della proposizione dell'azione, essendo richiesta la copia autentica di una mole ponderosa di atti (CONSOLO-NEGRI, 1438) inerente, in sostanza, a tutti gli atti processuali del giudizio presupposto. In buona sostanza, la documentazione prodotta attiene alla dimostrazione del complesso dei fatti costitutivi posti a fondamento del ricorso..

Nell'assetto previgente, invece, l'onere di allegazione e prova del ricorrente in ordine alla sussistenza dello spiegato diritto all'equa riparazione era significativamente attenuato dal dovere del giudice di disporre d'ufficio l'acquisizione del fascicolo del procedimento presupposto ove richiesto dal ricorrente.

Invero, in tema di istruttoria nell'ambito del procedimento camerale di equa riparazione per i danni derivanti dall'irragionevole durata del processo, l'art. 738 c.p.c. era integrato, nel modulo processuale antecedente alla riforma realizzata dalla legge n. 134/2012, dal disposto dell'art. 3, quinto comma, legge 24 marzo 2001 n. 89 secondo cui l'autorità giudiziaria poteva sempre acquisire d'ufficio atti e documenti.

Nella giurisprudenza della S.C. era stato chiarito, a riguardo, che in tema di equa riparazione il potere officioso di acquisizione di atti e documenti ex art. 3, comma quinto, legge 24 marzo 2001 n. 89, non consente, in presenza di una espressa richiesta della parte in ordine a tale acquisizione, di considerarla onerata, della produzione di atti e documenti del processo presupposto sia per la prova della tempestività della domanda formulata (cfr. Cass., n. 4103/2013, secondo cui tra tali atti vanno compresi sia l'avviso di avvenuta notificazione della sentenza da parte dell'ufficiale giudiziario ex art. 112 d.P.R. 15 dicembre 1959 n. 1229, sia l'avviso dell'avvenuta notificazione dell'impugnazione ex art. 123 disp. att. c.p.c., da annotarsi sull'originale della sentenza), sia per la dimostrazione dei fatti costitutivi della spiegata pretesa, i.e. degli elementi concreti dai quali è desumibile l'irragionevole durata di tale processo.

Peraltro, la stessa Corte di legittimità aveva precisato, al contempo, anche in riferimento al procedimento camerale in tema di equa riparazione dei danni determinati dall'irragionevole durata del processo, che il potere riconosciuto al giudice dall'art. 738, comma terzo, c.p.c. di assumere informazioni costituisce oggetto di una mera facoltà e non di un obbligo, sicché il suo mancato esercizio non determina l'inosservanza delle norme che disciplinano il procedimento camerale e risulta incensurabile in cassazione (Cass. n. 24965/2011).

Nella giurisprudenza di legittimità le conseguenze pratiche derivanti dalla natura discrezionale dei poteri istruttori officiosi del Giudice nei procedimenti camerali con riguardo alla legge Pinto erano state temperate, con riferimento al modello processuale anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 134/2012, mediante la precisazione secondo cui qualora la parte si sia avvalsa della facoltà — prevista dall'art. 3, comma 5, l. 24 marzo 2001 n. 89 — di richiedere alla corte d'appello di disporre l'acquisizione degli atti del processo presupposto, il giudice non può addebitare alla mancata produzione documentale, da parte dell'istante, di quegli atti la causa del mancato accertamento della addotta violazione della ragionevole durata del processo, in quanto la parte ha un onere di allegazione e di dimostrazione, che però riguarda la sua posizione nel processo, la data iniziale di questo, la data della sua definizione e gli eventuali gradi in cui si è articolato, mentre, in coerenza con il modello procedimentale, di cui agli art. 737 e ss. c.p.c., prescelto dal legislatore, spetta al giudice — sulla base dei dati suddetti, di quelli eventualmente addotti dalla parte resistente e di quelli acquisiti dagli atti del processo presupposto — verificare, in concreto e con riguardo alla singola fattispecie, se vi sia stata violazione del termine ragionevole di durata, tenuto anche conto che nel modello processuale della legge n. 89/2001 sussiste un potere d'iniziativa del giudice, che gli impedisce di rigettare la domanda per eventuali carenze probatorie superabili con l'esercizio di tale potere (v., tra gli altri, Cass., n. 16367/2011; Cass., n. 21093/2005).

In sostanza, quindi, ferma la natura discrezionale del potere ex art. 738, terzo co., c.p.c., nel procedimento disciplinato dal previgente art. 3 l. 24 marzo 2001 n. 89, la Corte d'appello, a fronte di una formale richiesta di acquisizione del fascicolo del processo presupposto, formulata ai sensi del comma 5 del citato art. 3, non poteva respingere, in accordo con la giurisprudenza di legittimità, la domanda sulla base di carenze probatorie documentali superabili con l'esercizio di tale potere di acquisizione, senza giustificare con congrua motivazione il mancato accoglimento dell'istanza (Cass. n. 9381/2011).

Tali orientamenti inducevano a ritenere che, in sostanza, il ricorrente aveva un onere di allegazione e dimostrazione limitato alla sua posizione nel processo ed alla data iniziale e finale di esso, spettando invece, in coerenza con i poteri istruttori officiosi del giudice nei procedimenti in camera di consiglio, alla Corte acquisire gli elementi necessari per la verifica della violazione del termine di durata ragionevole del processo (DE SANTIS DI NICOLA, 272).

Sotto altro profilo, si è osservato che il silenzio del legislatore circa l'onere per il ricorrente di produrre anche documentazione volta a dimostrare il danno sofferto in ragione dell'irragionevole durata del processo presupposto, dovrebbe indurre a ritenere che sia stato così avallato l'orientamento giurisprudenziale che, almeno in relazione al danno non patrimoniale, ritiene che lo stesso sia normale conseguenza della violazione del termine di durata ragionevole del processo, onerando in sostanza la controparte della prova contraria in ordine alla ricorrenza di circostanze concrete idonee ad escludere la sussistenza del pregiudizio in questione (v., tra le molte, Cass. n. 25730/2011), mentre la mancata previsione dell'onere di depositare documentazione anche relativa al danno patrimoniale eventualmente subito dal ricorrente, danno che pure deve essere dimostrato ex art. 2697 c.c. dal danneggiato (Cass. n. 2246/2007), dipenderebbe dalla possibilità di provare lo stesso, di regola, mediante prove diverse da quella documentale (MARTINO, 564).

Tale impostazione interpretativa, pur autorevolmente sostenuta, a nostro modesto parere non può essere totalmente condivisa provando troppo in ordine alla valenza del silenzio normativo sulla documentazione da depositare in sede monitoria per la dimostrazione del pregiudizio subito dal ricorrente. Per vero, occorre osservare a tal riguardo che, in realtà, ai fini della prova del danno patrimoniale sono di regola determinanti proprio prove di carattere documentale come quelle relative, ad esempio, alla perdita della possibilità di locare un immobile per il proprietario nel periodo del giudizio di risoluzione del contratto di locazione stipulato con un conduttore moroso. Riteniamo, pertanto, che la pur ponderosa documentazione che secondo quanto previsto dalla norma in esame deve essere allegata al ricorso monitorio è quella “minima” necessaria, ferma restando la possibilità per il ricorrente di produrre ulteriore documentazione a sostegno delle spiegate richieste e, questo, crediamo, anche in relazione al danno non patrimoniale dedotto, magari al fine di prevenire la pur diabolica probatio a carico dell'Amministrazione circa l'insussistenza dello stesso. Seguendo quest'ultima impostazione interpretativa viene anche risolta l'ulteriore problematica afferente la possibilità per il giudice di liquidare il danno nella prima fase del procedimento anche in mancanza di prova scritta dello stesso (cfr. MARTINO, 566) e ciò specie in relazione al danno patrimoniale della cui dimostrazione il ricorrente è puntualmente onerato ex art. 2697 c.c., dovendosi a tal fine ritenere il danneggiato implicitamente onerato dell'allegazione della documentazione necessaria ai fini della dimostrazione di siffatto danno in coerenza con la ricostruzione del procedimento in esame in termini di procedimento monitorio documentale.

Tuttavia almeno nella prima fase inaudita altera partel'omessa produzione di una parte dei documenti indicati dal terzo comma dell'art. 3 legge n. 89 del 2001 non comporta de plano il rigetto della domanda per mancata dimostrazione dei fatti costitutivi posti a sostegno della stessa in quanto trovano applicazione i primi due commi dell'art. 640 c.p.c. (GHIRGA, 1032).

Ne deriva che il giudice può richiedere, ove ritenga insufficientemente giustificata la domanda, al ricorrente un'integrazione della documentazione già depositata (dovrebbe invece escludersi la possibilità per il giudice di richiedere ulteriore documentazione laddove nessun documento sia stato allegato al ricorso proposto: MARTINO,567), potendo rigettare quindi la stessa soltanto qualora la parte istante non vi provveda o la domanda risulti, nonostante i nuovi documenti prodotti, comunque inaccoglibile. L'integrazione potrà essere disposta senza che ricorrano particolari presupposti, in quanto non ci sembra condivisibile, alla luce del richiamo ai primi due commi dell'art. 640 c.p.c., la più rigorosa impostazione interpretativa secondo cui l'integrazione documentale in questione potrebbe essere utilizzata soltanto per rimediare ad ipotesi nelle quali l'omesso deposito di tutta la documentazione indicata dalla norma dipenda da circostanze non imputabili al ricorrente e tali da giustificare, anche, una rimessione nei termini ex art. 153, comma 2, c.p.c. (DE SANTIS DI NICOLA, 275).

In giurisprudenza, si è ritenuto, tra l'altro, che l'art. 3, comma 3, legge 24 marzo 2001, n. 89, pone a carico del ricorrente l'onere di dimostrare l'irrevocabilità del provvedimento che ha definito il giudizio presupposto ed ove tale dimostrazione non avvenga con il deposito del ricorso, il presidente della corte d'appello o il giudice a tal fine designato, in assenza di una espressa sanzione di inammissibilità, deve invitare la parte, ai sensi dell'art. 640, primo comma, c.p.c., richiamato dall'art. 3, comma 4, legge n. 89 del 2001, a produrre documentazione idonea ad assolvere tale onere probatorio, con la conseguenza che, se la parte interessata non adempia nel termine all'uopo fissato dal giudice, la domanda va rigettata ai sensi dell'art. 640, secondo comma, c.p.c. (Cass., n. 18539/2014).

Decreto di accoglimento della domanda

Sulla domanda di equa riparazione provvede con decreto motivato il giudice singolo, ovvero lo stesso Presidente della Corte d'Appello o un magistrato designato dal medesimo, entro il termine, ordinatorio, di trenta giorni dal deposito del ricorso.

Ai fini della decisione, il giudice designato nella fase monitoria del procedimento dovrà, in primo luogo, determinare il lasso di tempo eccedente il termine ragionevole di durata avendo riguardo, tra l'altro, ai parametri della complessità del caso, del comportamento delle parti e degli altri soggetti chiamati a concorrere alla definizione del procedimento presupposto e, quindi, liquidare, sulla scorta del ritardo accertato, l'equa riparazione, tenuto altresì conto della natura degli interessi coinvolti e del valore e della rilevanza della causa. Si è osservato che, pertanto, tale complessa attività di accertamento e liquidazione è differente da quella svolta dal giudice adito con ricorso per ingiunzione ex art. 633 c.p.c., ricorso la cui proposizione postula la sussistenza in capo al ricorrente di un diritto di credito liquido (DE SANTIS DI NICOLA, 287).

Il decreto, pertanto, a differenza di quanto avviene nella disciplina ordinaria del procedimento monitorio per ingiunzione, viene sempre emanato già provvisoriamente esecutivo, i.e. costituisce titolo per fondare l'esecuzione forzata. Né, peraltro, chiarisce l'art. 5-ter della medesima legge di per sé l'eventuale proposizione dell'esecuzione sospende l'efficacia esecutiva del decreto che, invece, deve correlarsi ad un provvedimento del giudice assunto laddove sussistano gravi motivi in tal senso nella medesima fase dell'opposizione.

La scelta normativa di rendere immediatamente muniti della provvisoria esecuzione i decreti pronunciati nella prima fase del procedimento di equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo può giustificarsi, peraltro, in ragione della natura essenzialmente documentale delle controversie di equa riparazione e della circostanza che, invero, i fatti costitutivi del diritto sono integrati proprio dalla documentazione relativa al giudizio presupposto che, come si è evidenziato, il ricorrente è tenuto a depositare per intero nella fase monitoria del procedimento. Può dirsi che, in effetti, mediante il deposito di tale documentazione il ricorrente viene già ad assolvere compiutamente – a differenza di quanto avviene nel procedimento per ingiunzione ex artt. 633 e ss. c.p.c. nell'ambito del quale il ricorrente può ottenere il provvedimento richiesto anche producendo una semplice fattura – il proprio onere probatorio, restando a quel punto a carico dell'Amministrazione destinataria del decreto allegare e dimostrare, nella fase di opposizione, la sussistenza di circostanze integranti fatti modificativi, impeditivi o estintivi del diritto del ricorrente ed, in particolare, provare che la durata del processo presupposto può invece ritenersi ragionevole avuto riguardo a criteri quali la complessità del caso, il comportamento delle parti e delle autorità intervenute.

Pressocché superflua appare la precisazione contenuta nell'ultimo periodo del quinto comma dell'art. 3 legge c.d. Pinto secondo cui nel decreto il giudice liquida le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento, trattandosi di provvedimento potenzialmente definitivo per il quale trova applicazione il disposto dell'art. 91 c.p.c. in ordine al potere/dovere del giudice di statuire sule spese.

Notificazione del decreto

L'art. 5 legge 24 marzo 2001, n. 89, stabilisce che, nell'ipotesi di accoglimento, anche solo in parte, della domanda monitoria, il ricorso, unitamente al decreto, e' notificato per copia autentica al soggetto nei cui confronti la domanda e' proposta, a pena di inefficacia del provvedimento emesso, entro il termine di trenta giorni dal deposito dello stesso in cancelleria.

La notifica, essendo convenuta in ogni caso in giudizio un'Amministrazione dello Stato, deve essere eseguita, a pena di nullità, ai sensi dell'art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, presso l'ufficio dell'avvocatura dello Stato nel quale ha sede l'autorità giudiziaria, ossia l'ufficio distrettuale dell'avvocatura dello Stato con sede presso la Corte d'Appello che ha pronunciato sulla domanda di equa riparazione (MARTINO, 570). Occorre tener presente che, secondo quanto più volte affermato in sede di legittimità, la notificazione dell'atto introduttivo di un giudizio eseguita direttamente all'Amministrazione dello Stato e non presso l'Avvocatura distrettuale dello Stato, nei casi nei quali non si applica la deroga alla regola di cui all'art. 11 r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611, è nulla ed è quindi suscettibile di rinnovazione ai sensi dell'art. 291 c.p.c. ovvero di sanatoria nel caso in cui l'Amministrazione si costituisca in giudizio (Cass. n. 5212/2008).

Alla luce di siffatti principi occorre chiedersi se il decreto che si pronuncia sulla domanda di equa riparazione divenga inefficace – con le gravi conseguenze di cui si dirà in ordine alla riproponibilità della domanda medesima - nell'ipotesi di nullità della notificazione dello stesso, ad esempio per errata notificazione presso la sede dell'Avvocatura generale dello Stato e non dell'Avvocatura distrettuale, con sede presso la Corte d'Appello che ha pronunciato sulla domanda di equa riparazione.

Potrebbe ritenersi che la nullità della notifica del decreto non ne comporti l'inefficacia, considerato che il vizio di nullità e non di inesistenza della notificazione comporta la sanatoria della relativa attività processuale e tenuto conto dell'orientamento, assolutamente consolidato, relativo al procedimento per ingiunzione di cui al libro IV del codice di procedura civile, secondo cui nell'ambito della disciplina dettata dall'art. 644 c.p.c., l'inefficacia del decreto ingiuntivo è legittimamente riconducibile alla sola ipotesi in cui manchi o sia inesistente la notifica nel termine stabilito dalla norma predetta poiché la notificazione del decreto ingiuntivo comunque effettuata, anche se nulla, è pur sempre indice della volontà del creditore di avvalersi del decreto stesso, di talché potendo tale nullità od irregolarità essere fatta valere a mezzo dell'opposizione tardiva di cui al successivo art. 650 c.p.c., deve essere esclusa la presunzione di abbandono del titolo che costituisce il fondamento della previsione di inefficacia di cui all'art. 644 c.p.c. (Cass. n. 17478/2011).

A quest'ultimo riguardo, invero, sebbene il richiamo ad alcune specifiche norme come l'art. 640 c.p.c. relative al procedimento per ingiunzione potrebbe far ritenere le altre per converso inapplicabili, crediamo difatti che, sulla scorta dei principi generali, debba essere riconosciuta all'Amministrazione destinataria dell'ingiunzione di pagamento la possibilità di proporre opposizione, anche tardivamente, laddove la mancata conoscenza del decreto si correli a circostanze non imputabili alla stessa, tra le quali rientra senz'altro la nullità della notifica del provvedimento.

Il comma 2 dell'art. 5 della legge c.d. Pinto stabilisce che il decreto che si è pronunciato sulla domanda di equa riparazione diventa inefficace se non tempestivamente notificato alla parte convenuta nell'indicato termine di trenta giorni dal deposito dello stesso in cancelleria, precisando – con una soluzione ancora una volta differente da quella propria del procedimento per ingiunzione ex artt. 633 e ss. c.p.c. – che l'inefficacia preclude la possibilità di riproporre la domanda in sede monitoria.

Si tratta, evidentemente, di una conseguenza sanzionatoria molto più grave rispetto a quella prevista nell'ordinario giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo dall'art. 644 c.p.c. per l'ipotesi di notificazione tardiva del provvedimento monitorio. Invero, a riguardo, è stato più volte ribadito il principio per il quale la notificazione del decreto ingiuntivo oltre il termine di quaranta giorni dalla pronuncia comporta, ai sensi dell'art. 644 c.p.c., l'inefficacia del provvedimento, vale a dire rimuove l'intimazione di pagamento con esso espressa e osta al verificarsi delle conseguenze che l'ordinamento vi correla, ma non tocca, in difetto di previsione in tal senso, la qualificabilità del ricorso per ingiunzione come domanda giudiziale (Cass. n. 951/2013). In sostanza, a venire meno, nell'ipotesi di tardiva notificazione, è soltanto il decreto pronunciato con persistenza del dovere dell'autorità giudiziaria, in sede di opposizione, di vagliare la fondatezza della domanda proposta dal ricorrente sin dalla fase monitoria.

Considerando tali argomentazioni, la S.C. ha avallato un'interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina normativa, sancendo che la struttura monitoria del procedimento di equa riparazione, come delineata dalla l. n. 134/2012, giustifica l'applicazione ad esso, in via analogica, della disciplina sul decreto ingiuntivo, sicché, ove sia nulla l'avvenuta notifica, ex art. 5, comma 2, della l. n. 89/2001, del ricorso e del decreto, l'unico rimedio esperibile contro quest'ultimo è l'opposizione ai sensi del successivo art. 5-ter, la quale impone all'opponente di svolgere le proprie difese anche nel merito, e, se proposta tardivamente, lo onera di provare, giusta l'art. 650 c.p.c., che, a causa di detta invalidità, egli non abbia avuto tempestiva conoscenza del decreto, né sia stato in grado di proporre tempestiva opposizione (Cass., n. 21658/2016).

Sotto altro e concorrente profilo, la Corte di legittimità ha anche precisato che, in materia di equa riparazione per irragionevole durata del processo, l'inefficacia del decreto ingiuntivo reso ex art. 3, comma 5, della l. n. 89 del 2001, perché notificato oltre il termine previsto dall'art. 5, comma 2, di quest'ultima, deve essere fatta valere con l'opposizione di cui al successivo art. 5-ter, la quale, instaurando il contraddittorio tra le parti, impone alla corte di appello non solo di esaminare l'eccezione d'inefficacia di quel decreto ma anche di valutare la fondatezza, o meno, della domanda introdotta con il ricorso monitorio (Cass., n. 20695/2016).

La S.C. ha utilizzato la medesima impostazione anche per risolvere la distinta problematica della notifica del solo decreto ingiuntivo all'Amministrazione e non altresì del ricorso monitorio. E' stato in particolare affermato che nel procedimento di equa riparazione per durata irragionevole del processo, come modificato dalla l. n. 134 del 2012, la notifica al Ministero del solo decreto ingiuntivo e non anche del ricorso, integra una nullità formale ai sensi dell'art. 156, comma 2, c.p.c., poiché non realizza lo scopo dell'atto, costituito dalla piena conoscenza legale della domanda giudiziale da parte dell'amministrazione ingiunta, ma è suscettibile di sanatoria, con efficacia "ex tunc", ove, a seguito dell'opposizione erariale, il ricorrente esegua tempestivamente la rinnovazione della notifica del ricorso disposta dalla corte d'appello ex art. 291 c.p.c. (Cass., n. 3159/2016).

Regime del provvedimento di rigetto

Il sesto comma dell'art. 3 legge 24 marzo 2001, n. 89, prevede che se il ricorso e' in tutto o in parte respinto la domanda non può essere riproposta, ma la parte può fare opposizione a norma dell'articolo 5-ter.

Tale regime differisce evidentemente da quello previsto per il decreto di rigetto del ricorso per ingiunzione prevedendo, a riguardo, l'art. 640, comma 3, c.p.c. che il rigetto della domanda monitoria non ne pregiudica la riproposizione, anche in via ordinaria (in arg., per tutti, SATTA IV, 59; GARBAGNATI 102).

Invero, nell'ambito del procedimento di ingiunzione ordinario di cui agli artt. 633 e ss. c.p.c., il decreto ingiuntivo non opposto acquista, al pari di una sentenza di condanna, autorità di cosa giudicata sostanziale soltanto in relazione al credito, ancorché non corrispondente a quello vantato dall'istante, di cui si è ingiunto il pagamento (Cass. n. 3188/1987).

La circostanza che il provvedimento di rigetto, in tutto o in parte, della domanda di equa riparazione determini invece una preclusione pro iudicato rispetto alla riproposizione della domanda stessa comporta, peraltro, la possibilità di proporre opposizione anche ad opera dello stesso ricorrente che dovrà a quel punto dimostrare nell'ambito del giudizio a cognizione piena, pur strutturato nelle forme camerali, i fatti costitutivi del proprio diritto.

Mediante l'opposizione il ricorrente originariamente soccombente in quanto dalla mera documentazione depositata a sostegno del ricorso emerga prima facie che la durata del processo non può ritenersi irragionevole potrà dedurre in sede di opposizione che, invece, il ritardo nella definizione del giudizio è ad esempio ascrivibile ad un comportamento dilatorio della stessa parte ricorrente la quale potrà quindi dimostrare nella fase di opposizione che, invece, ha avuto una condotta processuale correlata all'esercizio di una legittima facoltà necessaria per l'esplicazione del contraddittorio.

Pertanto, il rimedio previsto, come necessario in ragione dell'idoneità al giudicato dello stesso, avverso il provvedimento di diniego, anche parziale, del ricorso per l'equa riparazione dei danni determinati dall'irragionevole durata del processo è esclusivamente la proposizione dell'opposizione.

Proprio l'idoneità al giudicato del provvedimento di diniego, anche soltanto parziale, della domanda proposta nella fase sommaria del procedimento di equa riparazione dei danni da irragionevole durata del processo comporta che, in termini ancora una volta differenti da quanto avviene nel procedimento per ingiunzione di pagamento disciplinato dagli artt. 633 e ss. c.p.c., sia legittimato alla proposizione dell'opposizione anche il creditore ricorrente e non soltanto l'Amministrazione destinataria dell'ingiunzione (DE SANTIS DI NICOLA, 288).

Riferimenti

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