Mediazione delegata

15 Maggio 2017

La mediazione delegata è regolata dall'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 28/2010 il quale prevede che il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l'esperimento del procedimento di mediazione.

Inquadramento

IN FASE DI AGGIORNAMENTO AUTORALE DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

La mediazione delegata è regolata dall'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010 il quale prevede che il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l'esperimento del procedimento di mediazione.

In tal caso, così come per la mediazione ante causam, l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello.

Su tale tipologia di mediazione si è concentrata gran parte della giurisprudenza di merito la quale, sulla base di una normativa sintetica e probabilmente lacunosa, ha fornito motivate, seppur spesso non condivisibili, risposte ai numerosi interrogativi emersi dall'esperienza applicativa quotidiana.

Frequenti occasioni di riflessione sono state offerte, senza pretese di esaustività, dalle incertezze in merito:

  • all'identificazione della parte soggetta all'onere di introdurre e di coltivare, se possibile, il procedimento di mediazione;
  • agli incombenti che devono essere adempiuti affinché tale onere possa reputarsi pienamente assolto;
  • ai limiti entro i quali il giudice può dettare le modalità ed i termini di svolgimento delle negoziazioni;
  • alle reazioni che il giudice può adottare a fronte di tentativi conciliativi effettuati in maniera incompleta, erronea o soltanto fittizia.

Le articolate considerazioni spese dai nostri giudici sulle suddette problematiche e le molteplici soluzioni dagli stessi prospettate hanno trasformato tale tipologia di mediazione in una sorta di istituto giuridico regolato dal diritto vivente, nel contesto del quale le poche prescrizioni legislative assumono un ruolo sostanzialmente recessivo rispetto ai numerosi principi elaborati dalla giurisprudenza.

In evidenza

L'identità del procedimento che segue la mediazione delegata dal giudice, rispetto alle altre forme di mediazione, fa sì che i principi espressi nella mediazione delegata finiscano per condizionare anche lo svolgimento del procedimento delle altre forme di mediazione previste dal legislatore.

Presupposti, limiti e contenuto dell'ordinanza dispositiva della mediazione

La mediazione delegata rappresenta uno degli aspetti più delicati della disciplina introdotta dal d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, tanto da costituire la tematica di maggiore interesse dei nostri giudici di merito che, nel tentativo di ovviare alle numerose lacune normative, hanno attribuito all'istituto una fisionomia ben più articolata e complessa di quella sommariamente tratteggiata dal legislatore.

Le singolarità di tale tipologia di mediazione derivano dal particolare contesto in cui essa si origina: disposta dal giudice, ossia dal soggetto chiamato a dirimere la lite secondo giustizia e non sulla base di ragioni di convenienza, la stessa si innesta a processo già pendente, cioè quando la litigiosità fra le parti ha già raggiunto i massimi livelli o comunque cerca di trovare soluzioni giurisdizionali al conflitto.

Essendosi i contendenti già rivolti alla giustizia per la definizione della controversia, la scelta del giudice di imporre la mediazione non deve costituire – né essere percepita dalle parti e dai difensori – come un espediente per dilatare i tempi del processo, bensì quale opportunità, seppur doverosa, per raggiungere un risultato sostanziale migliore da quello che possa garantire il giudizio.

È bene, pertanto, che siffatta decisione giudiziale si sorregga su un'attenta ponderazione dello stadio di evoluzione della controversia, della propensione dei litiganti alla stipulazione di un'intesa, nonché degli esiti dell'istruttoria già esperita.

La legge, tuttavia, non sembra adeguatamente garantire tale esigenza, di talché gli operatori giuridici maggiormente sensibili alla materia si sono preoccupati di fissare delle direttive generali per bilanciare la discrezionalità giudiziale con la doverosa efficienza e la serietà della mediazione demandata.

Ai sensi dell'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010, la disposizione della mediazione delegata è subordinata ad una valutazione del giudice circa «la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti»; formula, questa, piuttosto generica, che potrebbe giustificare l'automatico ed immotivato ricorso a tale istituto, anche in controversie in cui tentativi di conciliazione risultino sostanzialmente privi di speranze di successo.

Va sottolineato, a questo proposito, come ogni meccanismo conciliativo di cui la legge sancisce l'obbligatorietà debba concretamente permettere alle parti di conseguire un traguardo più vantaggioso rispetto ai risultati che potrebbero essere offerti dal processo.

Di tale esigenza, il legislatore si è fatto custode, non soltanto tramite l'introduzione di sistemi protesi a favorire la conclusione dell'accordo amichevole, ma anche escludendo l'obbligatorietà del procedimento di mediazione in presenza di presupposti tali da sterilizzarlo di ogni attitudine alla definizione bonaria della lite. Si pensi, a titolo di esempio:

  • alla facoltà della parte di non partecipare al procedimento di mediazione, in presenza di un giustificato motivo (ricavabile a contrariis dall'art. 8, comma 4-bis, d.lgs. n. 28/2010);
  • al dovere del mediatore di invitare le parti e i loro avvocati a esprimersi, in occasione dell'incontro preliminare, sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e al dovere di procedervi in caso negativo (art. 8, comma 1);
  • all'esclusione dell'obbligo di mediazione in contesti che richiedono l'urgente intervento del giudice, quali i processi cautelari, o per i quali il legislatore ne ha preventivamente accertato la scarsa utilità, come le opposizioni agli atti esecutivi (art. 5, comma 4).

È in questo senso che sembra collocarsi la (invero stringata) disciplina normativa sulla mediazione delegata, specialmente laddove enuncia i criteri che il giudice è tenuto a valutare ai fini della sua disposizione, identificati nella summenzionata triade (natura della causa, stato dell'istruzione e comportamento delle parti).

Da un'altra prospettiva, pare potersi affermare come, nella logica adottata dall'ordinamento, il deferimento della mediazione postuli una prognosi positiva sulle sue probabilità di successo, da compiersi dal giudice alla stregua degli elementi processuali già in suo possesso.

In caso contrario, la mediazione, se demandata, si trasformerebbe in una deleteria causa di dilatazione dei tempi processuali, già intollerabilmente elevati.

Se l'aspirazione ad accelerare lo svolgimento del giudizio (o, quantomeno, a scongiurarne ulteriori rallentamenti) permea intimamente la normativa sulla mediazione demandata e impone al giudice di verificare, prima di disporla, la sua verosimile fruttuosità, sulla base di canoni legalmente predefiniti, è del tutto logico e coerente pretendere che tale indagine sia chiaramente esposta nel provvedimento giudiziale, con un grado di analiticità tale da dimostrare che il giudice ha effettivamente attuato un sindacato sulla specifica controversia.

Al contempo, è ragionevole escludere l'adeguatezza o, comunque, la sufficienza dell'impiego di formule stereotipate ovvero di considerazioni tanto astratte da non trovare un chiaro e immediato addentellato nel caso di specie.

L'obbligo di congrua motivazione, se davvero deducibile dalla normativa in discorso, non sarebbe rivolto, pertanto, a garantire l'impugnabilità del provvedimento (nella specie, non ammessa), bensì ad arginare il pericolo che il giudice possa disporre la mediazione delegata soltanto per alleggerire il carico giudiziale o, comunque, per ragioni differenti rispetto alla genuina convinzione che la procedura possa giovare alle parti.

Un'interpretazione della mediazione delegata che si spingesse sino a consentirne la disposizione anche nelle controversie di agevole risoluzione, contraddirebbe la logica del sistema, in quanto il giudice, in questo caso, pur possedendo le conoscenze sufficienti a preconizzare la verosimile decisione, anziché formulare apposita proposta conciliativa o transattiva, ex art. 185-bis c.p.c., prevista proprio per tale evenienza, deferirebbe il compito di favorire il raggiungimento dell'accordo a un soggetto ignaro dei termini della controversia, quale è, appunto, il mediatore.

D'altro canto, che i tentativi direttamente compiuti dal giudice per agevolare la conciliazione fra le parti non possano confondersi o, comunque, sovrapporsi con la parentesi di mediazione trova un'implicita conferma nelle fonti normative di riferimento.

Giurisprudenza di riferimento

Tribunale di Bologna, sez. II civ., ord. ,18 luglio 2016

Mediazione delegata e condizione di procedibilità della domanda giudiziale

L'art. 5, comma 2 del d.lgs. n. 28/2010 sancisce, inoltre, che, qualora il giudice ordini sua sponte la mediazione, il suo esperimento diviene condizione di procedibilità della domanda, al pari di quanto avviene nel caso in cui l'obbligatorietà sia stabilita dalla legge. Per entrambe le ipotesi, si pongono, pertanto, degli interrogativi analoghi, specialmente per ciò che concerne l'individuazione del campo di operatività della condizione di procedibilità.

Su tale problematica, la giurisprudenza ha assunto delle posizioni ondivaghe, optando, talvolta, per soluzioni di segno negativo, fondate principalmente sull'impossibilità di interpretare estensivamente le norme limitative del diritto all'azione giudiziale e, in altri casi, giungendo ad opposte conclusioni, al dichiarato intendimento di salvaguardare la parità delle parti davanti alla legge.

Appartiene a quest'ultima corrente interpretativa uno dei migliori provvedimenti in materia, cioè l'ordinanza pronunziata, in data 12 maggio 2016, dalla III Sezione del Tribunale civile di Verona, che si distingue per l'accurata disamina delle argomentazioni addotte a sostegno dell'una o dell'altra tesi.

Simile decisione merita di essere segnalata, non tanto per le giuste conclusioni cui essa perviene (già anticipate da altri arresti giurisprudenziali), ma soprattutto perché illustra, con dovizia di argomentazioni, le ragioni per cui la risoluzione della problematica in senso contrario sarebbe difficilmente sostenibile sul piano dell'interpretazione letterale delle norme di riferimento, oltre che della logica sistemica.

A sostegno della posizione ermeneutica adottata con il suddetto provvedimento, il Tribunale scaligero ha posto una triplice argomentazione, spiegando che:

  1. nelle controversie agrarie, per cui l'art. 46 della l. 3 maggio 1982, n. 3 fissa delle condizioni di procedibilità formulate in termini identici a quelle introdotte dal d.lgs. n. 28/2010, la giurisprudenza di legittimità già ha ritenuto che l'obbligo di procedere al preventivo esperimento del tentativo di conciliazione si estenda anche alle domande proposte dal convenuto (Cass. civ., Sez. III, 18 gennaio 2006, n. 830);
  2. il termine convenuto, impiegato dall'art. 5, comma 1-bis d.lgs. n. 28/2010 per individuare il soggetto che eccepisce l'improcedibilità della domanda, ben può essere riferito all'attore che resista all'accoglimento della domanda riconvenzionale;
  3. la dispensa delle domande spiegate dal convenuto dalla sfera di applicazione delle norme in materia di mediazione obbligatoria provocherebbe un'irragionevole disparità di trattamento fra le parti del giudizio, contrastante il principio di uguaglianza stabilito dagli artt. 3 e 111 Cost..

Né sposta alcunché, ha aggiunto il giudice veronese, che le norme idonee ad ostacolare l'esercizio dell'azione giudiziale (come sono, ovviamente, quelle che introducono condizioni di procedibilità della domanda) devono essere interpretate in senso restrittivo, visto che tale argomento può essere speso soltanto qualora il testo legislativo contenga delle espressioni equivoche, che, nella specie, non è possibile rinvenire.

Giurisprudenza di riferimento

Trib. Palermo, ord. 27 febbraio 2016; Trib. Reggio Calabria, ord. 22 aprile 2014; Trib. Como, Sez. Cantù, ord. 2 dicembre 2012; Trib. Roma, Sez. XIII, ord. 27 novembre 2014; Trib. Firenze, 14 febbraio 2012.

Mediazione delegata e opposizione a decreto ingiuntivo

Se appaiono piuttosto evidenti i motivi per cui l'onere di espletare il tentativo di conciliazione è stato posto in capo a «chi intende esercitare in giudizio un'azione», non è così chiaro chi rivesta tale qualità nei giudizi genericamente impugnatori, promossi cioè allo scopo di rimuovere un provvedimento giudiziale sfavorevole all'istante.

Il caso di più frequente verificazione è rappresentato dal processo di opposizione a decreto ingiuntivo, nel quale, come noto, si verifica un'inversione fra i ruoli formali e sostanziali rivestiti dalle parti, nel senso che è il debitore a ricoprire il ruolo di attore ed il creditore, resistendo alla richiesta di revoca del provvedimento monitorio, ad assumere la posizione processuale di convenuto.

La risposta è tutt'altro che scontata.

Il contrasto interpretativo formatosi in seno alla giurisprudenza di merito non sembra esser stato risolto dall'intervento della suprema Corte di Cassazione, la quale ha sì optato in maniera energica e decisa per la soluzione favorevole all'attribuzione, in capo all'opponente, dell'onere di promuovere il procedimento di mediazione, ma ha fondato la propria decisione su un bagaglio di motivazioni piuttosto discutibile, tanto da esser stata subito disattesa da sentenze di merito immediatamente successive alla sua pubblicazione (v. M. Di Marzio, Opposizione a decreto ingiuntivo. A chi l'onere della mediazione?)

Segue: la tesi maggioritaria

Secondo l'orientamento maggioritario, è soltanto sull'opponente, quale attore in senso formale, che grava l'onere di introdurre la procedura conciliativa, essendo l'unico soggetto interessato al perfezionamento della condizione di procedibilità e, quindi, al proseguimento del giudizio a cognizione piena.

L'estinzione del processo di opposizione, infatti, provoca, ai sensi dell'art. 653, comma 1, c.p.c., la cristallizzazione del decreto ingiuntivo, a cui è soltanto l'opponente ad indirizzare delle doglianze, chiedendone la revoca o la dichiarazione di nullità (la tendenziale equiparazione fra decreto ingiuntivo non opposto o irritualmente opposto e sentenza passata in giudicato è predicata dalla giurisprudenza di legittimità valorizzando il principio della ragionevole durata del giudizio: Cass. civ., sez. I, 3 marzo 2004, n. 4294; Cass. civ., sez. II, 26 gennaio 2000, n. 849).

D'altro canto, assume simile indirizzo ermeneutico, essendo il giudizio di opposizione rimesso alla libera scelta dell'ingiunto, sarebbe paradossale addossare all'ingiungente il compito di attivarsi per consentirne il proseguimento (Trib. Nola 24 febbraio 2015; Trib. Bologna 20 gennaio 2015; Trib. Firenze 30 ottobre 2014; Trib. Rimini 5 agosto 2014; Trib. Firenze, Sez. III, 30 gennaio 2014). Tali principi dovrebbero valere, qualora si condividesse il descritto approccio interpretativo, per tutti i provvedimenti idonei ad acquisire l'autorità di cosa giudicata, come, ad esempio, le ordinanze anticipatorie ex artt. 186-bis e 186-ter c.p.c.

In buona sostanza, il mancato esperimento della mediazione disposta iussu iudicis viene equiparata ad una forma qualificata di inattività delle parti, idonea a provocare, in quanto tale, l'estinzione del giudizio, con conseguente acquisizione di definitività da parte del decreto ingiuntivo opposto.

La medesima impostazione interpretativa conduce a ritenere che, laddove la mediazione sia stata demandata in appello, la sua pretermissione cagioni il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 358 c.c. (Trib. Firenze, Sez. III, 13 ottobre 2016).

Segue: la tesi minoritaria

Ad avviso della corrente esegetica minoritaria, invece, la perifrasi «chi intende esercitare in giudizio un'azione», con la quale il legislatore ha individuato la parte onerata, si riferisce al soggetto depositario della domanda giudiziale, cioè della rivendicazione di carattere sostanziale da cui origina la lite, a prescindere che lo stesso, in ragione della specialità del rito prescelto, assuma il formale vestimentum di attore o di convenuto (Trib. Ferrara 7 gennaio 2015; Trib. Firenze 24 settembre 2014; Trib. Varese, Sez. I, 18 maggio 2012; Trib. Lamezia Terme 19 aprile 2012).

Non sarebbe casuale, in questa prospettiva, che la legge non parli né di attore, né di ricorrente, ma utilizzi una espressione che, ancorché più articolata e complessa dal punto di vista letterale, alluda chiaramente ai concetti di domanda e di azione, che, a loro volta, sottintende la categoria del diritto soggettivo. Di converso, la proposizione dell'opposizione costituisce sì un'azione giudiziale, ma è priva di qualsivoglia autonomia perché non è rivolta alla tutela di un diritto soggettivo (salvo che non siano state spiegate richieste in via di riconvenzione), rappresentando unicamente la reazione del debitore all'iniziativa giudiziale introdotta dal creditore.

Peraltro, in una logica equitativa (che, comunque, potrebbe trovare spazio a fini interpretativi a livello di analogia iuris ex art. 12 preleggi), sembra particolarmente iniquo assegnare al debitore, che già ha sofferto l'emissione di un provvedimento inaudita altera parte e al quale, quindi, è stato garantito il diritto al contraddittorio soltanto in maniera differita, un onere che non trova supporto in un dato normativo dal tenore inequivocabile.

Anzi, seguendo un ragionamento ancor più stringente, si potrebbe insinuare che l'adesione all'avversa ricostruzione creerebbe un'evidente – e razionalmente ingiustificabile – disparità di trattamento fra il creditore che agisca con rito monitorio e quello che preferisca intraprendere il percorso ordinario, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost., stante la difficoltà di individuare un valore giuridico tale da privilegiare una situazione creditoria piuttosto che l'altra.

Parimenti, è difficilmente armonizzabile con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza l'assunto, implicitamente sostenuto dall'orientamento maggioritario, per cui l'attore che intenda esercitare una delle azioni giudiziali di cui all'art. 5, comma 1-bis, possa emanciparsi dall'obbligo di mediazione semplicemente proponendo le proprie domande mediante ricorso per ingiunzione, in luogo dell'ordinario processo a cognizione piena. Non è facile comprendere, in altre parole, come l'ordinamento possa assegnare al consociato il diritto – sostanzialmente potestativo – di sottrarre le proprie rivendicazioni giudiziali agli oneri stabiliti dalla legge, peraltro proprio nei casi in cui esso, optando per il rito sommario, già fruisce di non indifferenti vantaggi. Allo stesso modo, non è agevole individuare la ragione per cui l'interesse pubblicistico alla riduzione del contenzioso giudiziale dovrebbe svanire (o, comunque, assumere un'intensità soltanto recessiva) in ragione della mera decisione del creditore di avvalersi del rito sommario.

Di contro, non sembrano ricorrere ostacoli, né tantomeno manifestarsi timori di illegittimità costituzionale, nell'assegnazione all'opposto del dovere di attivarsi a fini conciliativi, essendo evidente che lo stesso, pur avendo già conseguito il richiesto petitum immediato (ossia l'emanazione del decreto ingiuntivo), ha interesse alla sua conservazione; e, di converso, non appare abnorme che tra gli oneri attribuiti all'opposto (che, non si dimentichi, ha già fruito di un provvedimento a contraddittorio posticipato) figurino anche gli obblighi di mediazione, pena la revoca del decreto nell'ipotesi in cui essi non siano onorati.

D'altronde, visto che il processo di opposizione a decreto ingiuntivo, secondo un insegnamento ormai granitico (Cass. civ., sez. I, 14 aprile 2011, n. 8539; Cass. civ., Sez. Un., 9 settembre 2010, n. 19246), non configura una vera e propria impugnazione ovvero un giudizio di stretta legittimità, ma tende a sovrapporsi ed a sostituire integralmente il procedimento monitorio, allora il giudice del processo a cognizione piena è comunque tenuto a pronunciarsi sulla fondatezza della domanda spiegata inaudita altera parte dal creditore/opposto e, conseguentemente, dovrà altresì verificare se tale domanda sia ancora proponibile ovvero sia divenuta improcedibile per il mancato avveramento di una condizione legale (ossia l'esperimento del procedimento di mediazione civile e commerciale).

Seguendo lo stesso percorso argomentativo, potrebbe assumersi che, anche nel caso in cui il procedimento di mediazione venga disposto in appello, sia il titolare del diritto sostanziale, ancorché vincitore in primo grado, a doversi attivare conformemente alle richieste del giudice e che, in difetto di tempestiva assoluzione di tale onere, la sentenza appellata vada riformata in ragione del sopravvenuto difetto della condizione di procedibilità della domanda, mancando la quale nessun giudizio di merito può essere pronunziato.

Segue: l'intervento della suprema Corte

Si auspicava che la descritta divergenza interpretativa fosse composta dalla suprema Corte, che, sul finire dell'anno 2015, è stata investita di un ricorso per cassazione che censurava unicamente l'assunto, sostenuto da entrambi i giudici territoriali, secondo cui l'onere di promuovere la procedura di mediazione graverebbe sull'opponente.

La Corte di cassazione ha confermato la statuizione contenuta nel duplice arresto di merito, affermando, sulla base di un apparato argomentativo piuttosto stringato, che il principio della ragionevole durata del giudizio e la vocazione deflattiva delle condizioni di procedibilità deporrebbe inequivocabilmente in favore dell'attribuzione all'opponente dell'onere di promuovere il procedimento di mediazione civile e commerciale (Cass. civ., Sez. III, 3 dicembre 2015, n. 24629).

Tra le motivazioni addotte dal giudice di legittimità ne compaiono alcune che sollevano delle notevoli perplessità.

Ad esempio, quando argomenta che «è l'opponente che ha il potere e l'interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore», la Cassazione sembra dimenticare che il procedimento di mediazione viene ordinato dal giudice nel processo a cognizione piena, cioè quando l'opposizione è già stata spiegata e, dunque, in un momento in cui «la soluzione più dispendiosa» è già stata avviata.

Non si comprende, poi, perché ed in che modo il legislatore osteggerebbe la proposizione dell'opposizione avverso il decreto ingiuntivo che, anzi, costituendo la reazione del debitore a un provvedimento emesso inaudita altera parte, integra il contenuto minimo del diritto all'azione e alla difesa.

Caso mai potrebbe sostenersi (e con tutta la prudenza imposta dalla delicatezza delle tematiche coinvolte, già evidenziate nei precedenti paragrafi) che l'ordinamento promuove la soluzione conciliativa della lite (in sostituzione – e non certo a discapito – del rimedio di giustizia), ma ciò non significa affatto che dissuada il debitore ingiunto dal pretendere una decisione a cognizione piena, ma, al limite, che predispone gli strumenti affinché, in ogni giudizio e, dunque, anche in un processo di opposizione, entrambe le parti possano addivenire ad un'intesa bonaria. E simile constatazione appare assolutamente neutra ai fini che qui interessano: infatti, se la legge sollecita tutti i contendenti alla composizione amichevole della vertenza, allora non si capisce perché all'opponente dovrebbero ascriversi dei doveri più severi e rigorosi.

L'incedere argomentativo della suprema Corte è altrettanto opinabile laddove assume quanto segue: «del resto, non si vede a quale logica di efficienza risponda una interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l'onere di effettuare il tentativo di mediazione quando ancora non si sa se ci sarà opposizione allo stesso decreto ingiuntivo».

In verità, nei procedimenti in questione, l'esperimento della mediazione diviene obbligatorio una volta che il giudice del processo a cognizione piena si sia pronunziato sulle istanze di concessione o di sospensione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo opposto, così come esplicitamente sancito dall'art. 5, comma 4 del d.lgs. n. 28/2010.

Non si tratta, dunque, di imporre al creditore di instaurare la procedura di mediazione per definire consensualmente un'opposizione non ancora proposta (il che, ovviamente, sarebbe assurdo), ma di verificare quale sia la parte che, in pendenza del giudizio di merito (e, dunque, quando le reciproche pretese e contestazioni sono già confluite nella normale dialettica processuale), è tenuta ad attivarsi. E, così ricostruita la problematica giuridica, non appare assolutamente irragionevole assumere che sia l'opposto, quale titolare del diritto sostanziale su cui l'accordo amichevole dovrebbe intervenuta, la parte onerata ad assumere l'iniziativa conciliativa.

Non stupisce, quindi, che tale arresto di legittimità non abbia riscosso una corale condivisione ad opera della giurisprudenza di merito, nel contesto della quale, a fronte di alcune adesioni all'insegnamento di nomofiliachia (Trib. Varese 30 maggio 2016; Trib. Napoli, Sez. IX, 21 marzo 2016, n. 3738; Trib. Trento 23 febbraio 2016, n. 177), si sono distinti dei provvedimento di motivato dissenso (Trib. Firenze, Sez. spec. impr., 16 febbraio 2016; Trib. Busto Arsizio, Sez. III, 3 febbraio 2016, n. 199).

Tali decisioni, dopo aver evidenziato gli errori commessi dalla Corte di Cassazione nell'individuazione della fase processuale in cui insorge l'obbligo di mediazione, hanno giustamente obiettato:

  • da un lato, che all'opponente non è certo imputabile di aver intrapreso un procedimento lungo e dispendioso, ostacolato, in quanto tale dal legislatore, visto che, a fronte della ricezione della notificazione del decreto ingiuntivo, esso non poteva scegliere che fra l'opposizione e l'acquiescenza;
  • dall'altro, che il differimento dell'obbligo di mediazione alla fase del giudizio di opposizione successivo alla pronunzie ex artt. 648-649 c.p.c. equivale ad una conferma circa la persistenza, in capo all'asserito titolare del diritto sostanziale, dell'onere di attivarsi a fini conciliativi.

Alla luce di ciò, non apparirebbe affatto inopportuno un intervento legislativo che, tramite un'interpretazione autentica, si pronunziasse chiaramente sull'evidenziato contrasto giurisprudenziale oppure, ancor meglio, de iure condendo, che disciplinasse la materia in maniera innovativa, introducendo meccanismi tali da armonizzare le peculiarità del procedimento monitorio con la disciplina sulla mediazione obbligatoria o delegata.

Il problema dell'effettività della mediazione nella mediazione delegata

Le maggiori incertezze interpretative, però, sono sorte nell'indagine circa gli atteggiamenti che le parti, piuttosto che il mediatore, devono assumere all'incontro preliminare di mediazione e, in particolar modo, ci si è chiesti se esse debbano personalmente presenziarvi ovvero possano avvalersi della rappresentazione del difensore.

La parte non è tenuta presenziare personalmente agli incontri di mediazione, neppure quando l'esperimento del procedimento costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale; anzi, il potere del difensore di gestire la parentesi conciliativa in nome e per conto del cliente, in virtù della procura alle liti ricevuta per il giudizio, trova il proprio letterale fondamento all'art. 83 c.p.c.

In uno scenario giurisprudenziale che tende ad accrescere, forse in maniera ipertrofica, l'importanza della mediazione civile e commerciale, merita senz'altro di essere segnalata ed annotata la sentenza del 28 settembre 2016, con la quale la III Sezione civile del Tribunale di Verona ha proposto un'interpretazione saggia ed equilibrata dei doveri gravanti sulle parti nel contesto di tale procedura conciliativa.

Con tale decisione, il giudice scaligero, nel censire scrupolosamente il contegno adottato dai convenuti nel corso del procedimento di mediazione ante causam, ha elaborato, in estrema sintesi, i seguenti principi di diritto:

  1. la parte non è obbligata a partecipare personalmente all'incontro preliminare o alle successive adunanze fissate dal mediatore (Trib. Modena, Sez. II, ord. 2 maggio 2016; Trib. Vasto, ord. 9 marzo 2015; Trib. Roma, Sez. III, ord. 19 febbraio 2015; id., ord. 14 dicembre 2014; Trib. Pavia, Sez. III, ord. 9 marzo 2015; Trib. Firenze, Sez. II, 19 marzo 2014);
  2. gli avvocati possono intervenire nella procedura, non soltanto come difensori delle parti, ma anche quali loro procuratori speciali e, a tal fine, possono avvalersi del mandato alle liti ricevuto per il giudizio;
  3. laddove il difensore sia impossibilitato a presenziare alle sedute, l'impedimento non può essere semplicemente riferito, ma deve essere adeguatamente documentato (Trib. Roma, Sez. III, ord. 29 settembre 2014).

A corollario delle suesposte indicazioni, protese a contemperare la necessaria valorizzazione della mediazione con il doveroso rispetto dell'autonomia negoziale dei consociati, valga evidenziare come il d.lgs. n. 28/2010, se apprezzato secondo una chiave di lettura costituzionalmente orientata, suggerisca di differenziare le sanzioni con le quali retribuire gli inadempimenti commessi dalle parti nel corso della procedura.

È sensato ipotizzare, infatti, che non ogni anomalia o irregolarità operativa e neppure ogni atteggiamento sleale comporti automaticamente l'irrogazione, a carico del responsabile, di tutte le sanzioni astrattamente previste dalla legge (riconducibili, in sintesi, all'improcedibilità della domanda giudiziale, alla condanna al pagamento della penalità pecuniaria e alla desunzione di argomenti di prova).

Al contrario, sembra possibile ricostruire una gerarchia fra le varie fattispecie sanzionatorie, al cui vertice si ponga l'improcedibilità dell'azione, da dichiararsi unicamente nei casi più gravi, cioè laddove la mediazione non si sia instaurata neppure in forma embrionale, non essendo stata presentata la richiesta di conciliazione ovvero non avendo l'istante partecipato, né personalmente, né tramite la rappresentanza del difensore, all'incontro preliminare (si tratta, peraltro, del caso già affrontato da Trib. Firenze, sent. 19 marzo 2014, in cui, nel concetto di mancato esperimento della mediazione, è stata inglobata anche l'introduzione soltanto formale del procedimento), senza allegare alcun giustificato motivo; la condanna alla penalità pecuniaria, poi, potrebbe irrogarsi anche laddove la parte latitante abbia sì indicato una ragione d'assenza, ma essa non appaia convincente o pienamente dimostrata; infine, il potere giudiziale di desumere argomenti di prova potrebbe apprezzarsi quale clausola residuale, idonea a colpire ogni condotta in qualche modo censurabile, anche laddove essa non abbia causalmente concorso al fallimento della conciliazione, ma lasci trasparire la consapevolezza della parte inadempiente di essere nel torto.

A questo proposito, ci permettiamo di prospettare come un più intenso ricorso, ad opera dei nostri Giudici, agli argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c. potrebbe costituire l'arma per potenziare sensibilmente l'efficacia della mediazione, inducendo le parti a valutare con serietà e ragionevolezza i plausibili itinerari transattivi, senza trascendere in interpretazioni delle norme sulla condizione di procedibilità che potrebbero porsi in contrasto con i principi costituzionali del giusto processo e della libertà d'azione giudiziale.

In definitiva, se la buona fede e la correttezza rappresentano la bussola per attribuire un significato pregnante alle più generiche previsioni normative che compongono il d.lgs. n. 28/2010, senza che il conseguente accrescimento dei doveri gravanti sulle parti possa meravigliare, è altrettanto vero che soltanto le più gravi violazioni degli obblighi procedimentali possono essere retribuite con la dichiarazione d'improcedibilità dell'azione, dovendo le più lievi infrazioni essere trattate con gli strumenti sanzionatori meno pervasivi, nel rispetto di canoni di proporzionalità e di adeguatezza.

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