Spese ed onorari degli arbitri e ricorribilità per cassazione dell'ordinanza presidenziale o conclusiva del reclamo

08 Settembre 2016

Il noto “revirement” attuato dalla delle Sez. Un., n. 24153 del 25 ottobre 2013, circa la natura giurisdizionale del lodo rituale funge da “grimaldello” per la rivisitazione di precedenti consolidati orientamenti in merito alla disciplina dell'arbitrato. L'Autore, ripercorrendo l'iter logico-giuridico delle citate S.U. analizzerà, tentando di fornirne una possibile chiave di lettura, l'attuale dibattito circa la proponibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso l'ordinanza presidenziale emessa ex art. 814 c.c.p. in materia di spese ed onorari degli arbitri oltre che avverso l'ordinanza emessa in sede di reclamo.
La questione

In tema di determinazione del compenso e delle spese dovuti agli arbitri dai conferenti l'incarico, è inammissibile, anche nel regime previsto dall'art. 814 c.p.c. nella nuova formulazione introdotta dall'art. 21, d.lgs. n. 40 del 2 febbraio 2006, il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., proposto avverso l'ordinanza resa dalla Corte di appello in sede di reclamo contro il provvedimento del competente presidente del tribunale e relativa alla quantificazione del compenso. Il provvedimento di cui innanzi è difatti adottato nell'ambito di una attività non giurisdizionale contenziosa ma sostanzialmente privatistica e, dunque, priva di natura decisoria ed attitudine al giudicato.

Con il principio di diritto di cui innanzi la Suprema Corte, sent. Sez. Un., 8 febbraio 2013 n. 3069, si conforma all'orientamento delle S.U., sentenza n. 15586 del 3 luglio 2009, seguita dalla “gemella” n. 15592 sempre del 3 luglio 2009, formatosi con riferimento ad una fattispecie antecedente all'entrata in vigore della detta riforma del 2006 nonché, anche esso, alla modifica di orientamento delle Sezioni Unite del 2013 circa la natura giurisdizionale e sostitutiva di quella del giudice ordinario propria degli arbitri rituali e, quindi, del lodo e del relativo procedimento (il riferimento è all'ordinanza Cass. Sez. Un., n. 24153 del 25 ottobre 2013, in CED n. 627786). Nel dettaglio le S.U. hanno chiarito che, in assenza di espressa rinunzia da parte degli aventi diritto, «il contratto di arbitrato», che non contenga la relativa quantificazione del compenso e delle spese, è automaticamente integrato, in base all'art. 814 c.p.c., con clausola devolutiva della pertinente determinazione al presidente del tribunale, il quale, una volta investito (con ricorso proponibile anche disgiuntamente da ciascun componente del collegio arbitrale) in alternativa all'arbitratore, svolge una funzione giurisdizionale non contenziosa, adottando un provvedimento di natura essenzialmente privatistica. Ne consegue che il provvedimento di cui innanzi è privo della vocazione al giudicato e, dunque, insuscettibile di impugnazione con ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost.. Tale natura del procedimento, inoltre, esclude l'ipotizzabilità di una soccombenza ed osta, pertanto, all'applicazione del relativo principio ed all'adozione delle conseguenziali determinazioni in tema di spese.

L'ulteriore rimessione alle Sezioni Unite

Rimessa nuovamente alle S.U. la questione di diritto di cui innanzi le stesse hanno confermato l'orientamento già esplicitato, in assenza di «forti ed apprezzabili ragioni giustificative» per discostarsene. Cass. Sez. Un., sent., n. 13620 del 31 luglio 2012, difatti, ha confermato l'inammissibilità del ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., proposto avverso provvedimento del competente presidente del tribunale, relativo alla determinazione del compenso e delle spese dovuti agli arbitri, ex art. 814, comma 2, c.p.c., chiarendo che, pur non esistendo nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello stare decisis, essa costituisce, tuttavia, un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente nell'ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un'interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomofilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative. Quanto detto, sempre per le S.U., rileva maggiormente in tema di norme processuali, per le quali l'esigenza di un adeguato grado di certezza si manifesta con maggiore evidenza, anche alla luce dell'art. 360-bis, comma 1, n. 1, c.p.c. (nella specie, non applicabile ratione temporis), ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, deve preferirsi quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della S.C..

L'orientamento di cui innanzi è dalla S.C. ribadito, a fortiori, con riferimento all'arbitrato irrituale, dal momento che la decisione che conclude il procedimento è sfornita pure dell'attitudine a divenire “sentenza” ed il compenso dovuto agli arbitri irrituali si connota come debito ex mandato, per l'adempimento del quale è attivabile un ordinario giudizio di cognizione (Cfr., Cass. sez. I, sent., 10 ottobre 2013, n. 23086), ancorché, nel 2016, oggetto di ulteriore rimessione alle S.U.

Con ordinanza interlocutoria n. 4517 dell'8 marzo 2016, difatti, la Sezione I, ha rimesso al Primo Presidente della Suprema Corte, ritenendola di massima di particolare importanza, la questione inerente la natura del procedimento ex art. 814 c.p.c. innanzi al presidente del tribunale e del conseguente reclamo innanzi alla Corte d'appello e, quindi, della ricorribilità per cassazione, ritenendo oggi sussistentiforti ed apprezzabili ragioni giustificative per discostarsi dal precedente orientamento delle S.U. del 2009, anche in ragione del “revirement” delle S.U. del 2013 circa la natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale.

In conclusione

Per quanto di seguito si evidenzierà circa il “revirement” delle S.U. del 2013 in merito alla natura del lodo rituale e, quindi, del relativo arbitrato, si può plausibilmente sostenere che nell'attualità le adite S.U. dovrebbero affrontare la questione di diritto di cui innanzi, non potendo più “opporre” l'assenza di «forti ed apprezzabili ragioni giustificative».

Questo può ritenersi essere il portato delle argomentazioni poste dalle citate S.U. del 2013 a sostegno della natura giurisdizionale dell'arbitrato rituale e della funzione sostitutiva degli arbitri rispetto a quella del giudice ordinario, tale da giustificare conseguenti rilevanti ripercussioni in termini processuali sul giudizio arbitrale e, in ipotesi, sul procedimento ex art. 814 c.p.c., finanche attribuendogli natura contenziosa o, comunque, riconoscendo la praticabilità dell'invocato ricorso straordinario in Cassazione ex art. 111 Cost.

Le citate S.U. del 2013, in particolare, ritengono che l'attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione.

L'iter logico-giridico seguito dalla S.C. muove dal fondamento di qualsiasi arbitrato, da rinvenirsi nella libera scelta delle parti in quanto solo essa, intesa come una dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all'art. 24, comma 1, Cost. può derogare al precetto contenuto nell'art. 102 Cost.. Ne consegue che la fonte dell'arbitrato non può più ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa, cosicché il principio fissato dall'art. 806 c.p.c. (“le parti possono far decidere da arbitri le controversie fra loro insorte”) assume il carattere di principio generale, costituzionalmente garantito, dell'intero ordinamento (in questi termini, Corte cost. sentenza n. 127 del 14 luglio 1977).

L'arbitrato è, quindi, compatibile con il monopolio della giustizia statale nei limiti in cui esso non sia obbligatorio e sia rimesso, pertanto, all'autonomia delle parti, la quale opera, nel settore dei diritti disponibili, come presupposto del potere, loro attribuito, di far decidere controversie ad arbitri privati, nelle forme e secondo le modalità stabilite dall'ordinamento giuridico (in questi termini, in precedenza, Corte cost., n. 127 del 1977). Sulla base di questa premessa di compatibilità costituzionale, proseguono le S.U. in oggetto, affinché il ricorso all'arbitrato possa considerarsi legittimo, occorre: che la deroga consacrata da volontà concorde delle parti su diritti disponibili operi nei confronti di una controversia conoscibile dal giudice ordinario; che l'arbitrato sia disciplinato da norme di legge che assicurino idonee garanzie processuali, non soltanto sul piano dell'imparzialità dell'organo giudicante, ma anche del rispetto del contraddittorio; la possibilità di impugnativa (nei limiti in cui l'ordinamento processuale tipizza fattispecie di nullità) davanti agli organi della giurisdizione ordinaria.

Tali caratteri appaiono, per l'arbitrato rituale, tali da integrare i requisiti richiesti dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per rispettare il § 6 della Convenzione di Roma del 4 novembre 1950, cioè l'attitudine dell'organo, ancorché diverso da una struttura giudiziaria, ad espletare una funzione giudiziaria assicurando alle parti una “soluzione giurisdizionale della controversia”.

La normativa, in parte introdotta con la l. n. 25 del 1994 ed in parte con il d.lgs. n. 40 del 2006, contiene, secondo le S.U., sufficienti indici sistematici per riconoscere natura giurisdizionale al lodo rituale, e, quindi funzione sostitutiva degli arbitri rituali rispetto al giudice ordinario, nel contempo soddisfacendo quelle indicazioni sui limiti entro i quali la scelta di un giudice diverso da quello statale può essere, dall'ordinamento, affidata alla autonomia dei privati.

Il riferimento è, in particolare: alla proposizione dei mezzi di impugnazione, la quale non è più condizionata dall'emanazione del decreto di esecutività del lodo, che può essere appellato direttamente per nullità davanti alla giurisdizione ordinaria (art. 827, comma 2, c.p.c.), nonché oggetto di revocazione straordinaria ed opposizione di terzo; all'assimilazione in toto alla domanda giudiziale attribuita all'atto introduttivo dell'arbitrato, quanto alla prescrizione e alla trascrizione delle domande giudiziali, che postula l'equiparazione alla domanda giudiziale (esercizio dell'azione giudiziaria) dell'atto di promovimento del giudizio arbitrale, e l'attribuzione al lodo dell'attitudine non di efficacia negoziale bensì della autorità della cosa giudicata.

A ciò si aggiungono l'ammissibilità dell'intervento volontario di terzi nel giudizio arbitrale (art. 816-quinquies c.p.c.) e della successione a titolo particolare ex art. 111 c.p.c., la possibilità per gli arbitri di rimettere alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale (art. 819-bis, comma 1, n. 3, c.p.c.), la considerazione in termini di competenza nei rapporti tra causa proposta davanti al giudice ordinario e causa proposta davanti agli arbitri (art. 819-ter c.p.c.), con conseguente impugnabilità con regolamento di competenza della pronuncia del giudice ordinario, nonché l'equiparazione degli effetti del lodo, dalla data della sua ultima sottoscrizione, a quelli della sentenza passata in giudicato, art. 824-bis c.p.c. e art. 829, n. 8, c.p.c.

Osservano, infine, le S.U. che anche la Corte Costituzionale, con sentenza del 19 luglio 2013, ha ritenuto la natura giurisdizionale dell'arbitrato e, proprio in base a tale qualificazione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell'art. 819-ter, comma 2, c.p.c., nella parte in cui esclude l'applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell'art. 50 c.p.c., ferma la parte restante dello stesso art. 819-ter.

Necessita, peraltro, evidenziare che, anche dopo S.U., n. 24153 del 2013, permangono delle differenze ineliminabili tra arbitri rituali e giudici ordinari e, quindi, tra giurisdizione statale e giurisdizione arbitrale, avendo la seconda la propria fonte in un atto di autonomia privata.

Compito degli interpreti, dal quale, si ritiene, che le S.U. non potranno esimersi, è quindi quello di verificare se tali differenze, come detto pur sempre esistenti, pur se non incidenti sulla natura giurisdizionale dell'arbitrato, siano tali da influire sul procedimento arbitrale ed in particolare sul “procedimento” ex art. 814 c.p.c..

Dovrà difatti la S.C. vagliare il procedimento in esame, così come attualmente previsto dall'art. 814 c.p.c. all'esito della riforma attuata con d.lgs. n. 40 del 2006, ed in particolare la sua eventuale natura contenziosa e la natura dell'ordinanza presidenziale e di quella emessa in sede di reclamo.

Successivamente al “revirement” del 2013, anche argomentando dalla natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario propria degli arbitri rituali, sono difatti emesse dalla S.C. numerose decisioni in ordine all'interpretazione del patto compromissorio ed alla conseguente distinzione tra arbitri rituali (ed arbitrato rituale) ed arbitri irrituali (ed arbitrato irrituale) ed in merito ai rapporti tra arbitri ed Autorità giudiziaria, con particolare riferimento all'eccezione di compromesso (ritenuta avente natura processuale ed inerentequestione di competenza non rilevabile d'ufficio, in quanto di natura non funzionale e non attinente a diritti indisponibili). Altre pronunce argomentano dalla detta natura giurisdizionale per considerazioni in merito all'impugnazione del lodo ed alle norme applicabili al relativo giudizio.

In tema di procedimento arbitrale e rispetto del principio del contraddittorio, Cass., sez. II,sentenza n. 10809del26 maggio 2015, conferma difatti l'orientamento per il quale, qualora le parti con il compromesso o con la clausola compromissoria non abbiano determinato le regole processuali da adottare, gli arbitri rituali sono liberi di regolare l'articolazione del procedimento nel modo che ritengono più opportuno, anche discostandosi dalle prescrizioni dettate dal codice di rito. Tale libertà, però, precisa la sentenza citata, è limitata dal rispetto del principio del contraddittorio, posto dall'art. 101 c.p.c., che, comunque, necessita di essere opportunamente adattato alle peculiarità del giudizio arbitrale e della funzione degli arbitri rituali. Deve essere difatti offerta alle parti, al fine di consentire loro un'adeguata attività difensiva, in seno ad un procedimento avente natura giurisdizionale, la possibilità di esporre i rispettivi assunti, di esaminare ed analizzare le prove e le risultanze del processo, anche dopo il compimento dell'istruttoria e fino al momento della chiusura della trattazione, nonché di presentare memorie e repliche e conoscere in tempo utile le istanze e richieste avversarie.

Sempre in ordine ai riflessi della riconosciuta funzione giurisdizionale degli arbitri rituali sul procedimento, ed in particolare in ordine alla fase innanzi al Giudice ordinario in sede di impugnazione, rileva Cass., sez. I, sentenza n. 13898 del 18 giugno 2014.

Tale sentenza, muovendo proprio dalla funzione sostitutiva degli arbitri rituali rispetto ai giudici ordinari, dalla natura giurisdizionale dell'arbitrato e, quindi, del relativo lodo, ritiene difatti superato definitivamente quell'orientamento per il quale, in considerazione della natura negoziale dell'arbitrato rituale, l'impugnazione del lodo, in quanto avente, quest'ultimo, natura negoziale, sarebbe assimilabile ad un giudizio di primo grado. Per converso, chiarisce la sentenza in esame, detta impugnazione deve ritenersi soggetta alla disciplina e ai principi, in quanto compatibili, che regolano il giudizio di appello, trovando quindi applicazione il disposto di cui all'articolo 348, comma 1, c.p.c., circa l'improcedibilità dell'appello, e non l'articolo 171 c.p.c..

In tema di impugnazione per nullità del lodo, con particolare riferimento ai limiti di deducibilità con il detto mezzo di gravame delle situazioni di incompatibilità degli arbitri, interviene Cass., sez. I, sentenza n. 20558 del 13 ottobre 2015.

La S.C. ricorda, in particolare, che l'esistenza dell'incompatibilità deve essere fatta valere mediante istanza di ricusazione da proporsi, a norma dell'art. 815 c.p.c., entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione della nomina dell'arbitro o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione. Precisa altresì, la citata sentenza, che, ai fini della validità del lodo, sono invece irrilevanti le situazioni di incompatibilità delle quali la parte sia venuta a conoscenza dopo la decisione; le quali, ove non si traducano in una incapacità assoluta all'esercizio della funzione arbitrale e, in genere, della funzione giudiziaria, non possono essere fatte valere mediante l'impugnazione per nullità. Quanto detto è argomentato dell'efficacia vincolante acquisita dal lodo e della lettera dell'art. 829, comma 1, n. 2, c.p.c., che circoscrive l'incapacità ad essere arbitro alle ipotesi tassativamente previste dall'art. 812 c.p.c., le quali fanno esclusivo riferimento all'incapacità legale di agire.

Antecedentemente al “revirement” attuato da S.U. n. 24153 del 2013, circa la natura dell'arbitrato, invece, la S.C., seguendo il diverso insegnamento di S.U. n. 527 del 2000, argomentava differentemente, ritenendo il vizio afferente l'invalida o irregolare costituzione del collegio arbitrale (anche costituito per obbligo di legge), derivante dal fatto che la nomina sia stata effettuata in violazione dei modi e delle forme di cui ai Capi I e II del titolo VIII del libro IV del c.p.c., riconducibile non già all'art. 158 c.p.c., relativo al vizio di costituzione del giudice, ma alle nullità previste dall'art. 829, comma primo, n. 2, c.p.c.. Il lodo arbitrale, costituendo una decisione per la soluzione della controversia sul piano privatistico, sempre a detta del precedente orientamento, non può quindi in alcun modo accostarsi a un dictum giurisdizionale e tale carattere è stato accentuato dalla legge 5 gennaio 1994, n. 25, senza che le modifiche apportate dall'art. 819-ter c.p.c., introdotto dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, possano condurre ad una diversa linea ricostruttiva dell'istituto (Cfr., Cass., sez. I, sentenza n. 13246 del 16 giugno 2011).

L'attesa decisione delle S.U. non può però ritenersi scontata con riferimento ai suoi esiti, avendo esse recentemente escluso rilevanza al “revirement” circa la natura dell'arbitrato rituale ai fini della risoluzione della questione di diritto circa l'applicabilità del regime impugnatorio di cui al nuovo art. 829, comma 3, c.p.c. agli arbitrati azionati successivamente alla riforma del 2006 ma fondati su convenzioni arbitrali antecedenti a tale data (Cfr., Cass. sez. un, 9 maggio 2016, sentenza n. 9284; Cass. sez. un., 9 maggio 2016, sentenza n. 9285; Cass. sez. un., 9 maggio 2016, sentenza n. 9342).

Plausibilmente, quindi, non si potrà prescindere, per la risoluzione della questione di diritto in oggetto, dal raffronto tra procedura ex art. 814 c.p.c. ed altre procedure, quale quella inerente la liquidazione dei diritti e degli onorari degli Avvocati, ritenuta dalla S.C. avente natura contenziosa in quanto incidente su diritti soggettivi di credito. Così come, verosimilmente, non potrà esimersi il Supremo consesso dall'analizzare la procedura in oggetto confrontandola con quella inerente l'opposizione in materia di liquidazione dei compensi previsti per gli ausiliari del giudice, ritenuta idonea ad approdare in ricorso straordinario per cassazione.

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