Tecniche e ideologie delle impugnazioni civili riformate: il giudizio di legittimità

15 Novembre 2016

La recente riforma del giudizio di Cassazione richiede, oltre ad una analisi tecnica mirata a definire il concreto funzionamento del nuovo procedimento camerale, a fronte della marginalizzazione dell'udienza pubblica, un complessivo inquadramento della novella nel contesto delle linee di fondo che costituiscono la trama del giudizio di legittimità. L'articolo che segue affronta limpidamente il tema anche considerando la posizione della nostra Corte di Cassazione nel sistema delle Corti europee.
Le radici storiche del controllo di legittimità dinanzi alla Cassazione, il tramonto del mito del primato della legge e il valore del precedente

Le radici storiche del controllo di legittimità dinanzi alla Corte di Cassazione sono ravvisabili nella relazione di necessaria e reciproca implicazione che sussiste tra il mondo dei fatti ed il diritto oggettivo, considerata in una prospettiva non solo sincronica, ma anche diacronica, ossia nello sviluppo che il sistema delle fonti ha avuto nel corso del tempo. Tale relazione è espressa dal noto brocardo ex facto oritur ius, il diritto non sorge se il fatto non si compie, nel senso che il diritto (il fenomeno giuridico) sorge con la qualificazione giuridica del fatto (Cesarini Sforza); e peraltro, specularmente, il fatto concreto, «producendo l'astratta previsione della norma», fa scaturire gli effetti giuridici previsti dalla norma stessa (Scognamiglio).

Nell'applicazione della legge il caso di specie non è altro che una proiezione della norma, giacchè l'attuazione della legge, anziché aggiungere alcunchè ai suoi contenuti, si limita riaffermarli nella situazione data. Osservava incisivamente, al riguardo, John Stuart Mill che il giudice non è chiamato a stabilire qual è la decisione intrinsecamente migliore da seguire con riferimento al caso particolare che lo occupa, ma piuttosto a reperire l'articolo di legge che vi si adatti, quello che il legislatore ha imposto. È il concetto del primato della legge e della sua infallibilità che, superate le suggestioni giusnaturalistiche e l'assolutismo pre-liberale, si fa strada nelle elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza dall'800 in poi (Stato di diritto). Massima libertà del legislatore, in opposizione alla minima discrezionalità del giudice, «imprigionato nella grande tela aracnea del sistema normativo». Fino a giungere – per influenza dell'illuminismo francese –ad elaborare un divieto di interpretazione della legge da parte del giudice, emanato in Francia con gli artt. 10-11, del Decreto sull'organizzazione giudiziaria del 16-24 agosto 1790: l'influenza di tale divieto è chiaramente riconoscibile nell'art. 73 dello Statuto Albertino, che si preoccupò di stabilire che «l'interpretazione delle leggi in modo per tutti obbligatorio spetta esclusivamente al potere legislativo» (Punzi).

Tuttavia, l'idea che il giudice applichi meccanicamente la legge, e che dal primato della legge debba conseguire l'unicità della sua interpretazione e della sua applicazione verrà superata nella misura in cui risulterà evidente che l'attività di ius dicere è, lato sensu, politica in ragione del “potere di interpretazione” e, quindi, di scelta che essa implica. L'operazione mentale con la quale si ricerca e si spiega il significato di una norma, nel che è ravvisabile l'essenza dell'interpretazione, è – per vero – attività inevitabilmente permeata da un forte soggettivismo, che determina fatalmente una pluralità di opzioni interpretative, attesa anche la non sempre esemplare chiarezza dei testi normativi e l'esigenza di adeguarli ai mutamenti che si verificano nel tessuto sociale (interpretazione evolutiva). Di qui la necessità, da cui è storicamente scaturita l'istituzione della Corte di Cassazione, di assicurare una unicità dell'interpretazione della legge. Ed è proprio questa – nel vigente ordinamento – la finalità che l'art. 65 ord. giud. persegue, assegnando alla Corte di Cassazione il compito di realizzare l'unità del diritto oggettivo nazionale, assicurando l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge (cd. funzione nomofilattica. l'art. 111 Cost. ha, dipoi, soggiunto che il ricorso per cassazione per violazione di legge è ammesso contro tutte le sentenze e tutti i provvedimenti sulla libertà personale. La norma è stata commentata da un remoto arresto della Cassazione nel senso che «tutti i provvedimenti decisori, ancorchè definiti ordinanze o decreti, contro i quali non sia dato alcun altro rimedio, e che abbiano piena attitudine a produrre, con efficacia di giudicato, effetti di diritto sostanziale e processuale sul piano contenzioso, sono impugnabili per Cassazione, ai sensi dell'art 111 della Costituzione per violazione di legge. Tale controllo di legittimità si estende ad ogni caso di violazione dilegge, sia processuale che sostanziale».

Risulta evidente, dal riferimento all'uniformità dell'interpretazione ed all'unicità del diritto oggettivo nazionale, come alla prospettiva di una tutela dei diritti individuali (ius litigatoris) si affianchi una prospettiva di tutela oggettiva dell'ordinamento (ius constitutionis). In tal senso va considerato il valore del precedente, posto in risalto dall'art. 363 c.p.c., principio di diritto nell'interesse della legge (novellato dalla l. n. 40/2006) e dall'art. 360-bis c.p.c., introdotto dall'art. 47, l. n. 69/2009, in forza del quale la ricorribilità per cassazione è stata esclusa con riferimento alle decisioni che abbiano risolto questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte, attenendosi ad un diritto vivente dal quale non si prospettino motivi per discostarsi, nonché con riferimento alle decisioni che costituiscano il provvedimento conclusivo di un giudizio svoltosi, comunque, nel rispetto delle regole del giusto processo. Sul piano dello ius constitutionis, la previsione contribuisce a valorizzare la funzione nomofilattica della Cassazione, dando, altresì, attuazione al precetto di cui all'art. 3 Cost. Coessenziale al fine dell'applicazione della legge in modo uguale per tutti è, invero, la certezza e stabilità degli enunciati interpretativi della Corte, sia sul piano sincronico, per impedire che la norma sia interpretata contemporaneamente in modo differente dai vari giudici chiamati ad applicarla, sia sul piano diacronico, poiché se il significato della norma – entro il limite della compatibilità con il significato testuale – può mutare, per effetto dell'interazione con norme sopravvenute, o per mero revirement giurisprudenziale, il mutamento, che costituisce diritto vivente, va accertato nell'esercizio della funzione nomofilattica, poiché solo questo ne garantisce la contestuale uniforme applicazione nei confronti delle parti dei giudizi in corso. Ma anche in relazione alla tutela dello ius litigatoris, la correlazione con i parametri del giusto processo comporta che essa debba essere assicurata ai soli soggetti che, in relazione alle pregresse fasi di merito, possano lamentare l'ingiustizia di una decisione, in quanto adottata in violazione dei principi del giusto processo (giudice non terzo ed imparziale, mancato rispetto del contraddittorio, vulnus del diritto di difesa).

Si è comunque, affermato, al riguardo, che, in tema di ricorso per cassazione, lo scrutinio ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c. impone una declaratoria di rigetto per manifesta infondatezza e non d'inammissibilità, atteso che, anche in mancanza di argomenti idonei a superare la ragione di diritto cui si è attenuto il giudice del merito, vi è la possibilità di accoglimento ove, al momento della decisione della Corte, con riguardo alla quale deve essere verificata la corrispondenza tra la sentenza impugnata e la giurisprudenza di legittimità, la prima risultasse non più conforme alla seconda, nel frattempo mutata (Cass., Sez. Un., n. 19051/2010; Cass. n. 5442/2016).

Natura e portata del controllo di legittimità: da rimedio ai vizi procedurali della sentenza all'intervento nel diritto sostanziale

Nella sua fondamentale opera sulla Cassazione Civile, Calamandrei – in contrasto con l'assunto del Mortara, secondo il quale il ricorso per cassazione sarebbe un terzo grado di giudizio – configurava il ricorso per cassazione come una vera e propria azione di impugnativa, diversa dall'azione che ha dato luogo al processo sul merito , e tale, quindi, da originare un nuovo processo, differente ed autonomo sia dal giudizio di merito, svoltosi fino a quel momento, sia dal giudizio di rinvio, che di questo costituisce nulla più che una prosecuzione. Il contenuto di quell'azione di impugnativa consiste nel diritto potestativo, spettante alla parte interessata, di conseguire l'annullamento della decisione impugnata, un diritto estensibile, si badi, oltre che al ricorso per vizi di attività, anche a quello per vizi di giudizi, e ciò anche se l'ingiustizia della sentenza non si riverbera sulla validità del giudicato, e ferma restando l'impossibilità per la Cassazione di conoscere “du fond des affaires”, ossia del merito, secondo il modello francese. La scelta del legislatore – poi supportata da ragioni di ordine costituzionale – sarebbe stata, secondo Calamandrei, «per meglio sfruttare ai propri fini la iniziativa privata», quella di equiparare all'annullabilità della sentenza per errores in procedendo, in relazione alla quale la Corte svolge unicamente una funzione rescindente, la cassabilità della medesima per errori di giudizio, con allargamento della querela nullitatis dal campo degli errori procedurali (art. 161, comma 1, c.p.c.) a quello degli errores in iudicando, che devolve alla Corte anche una porzione del rescissorio (art. 384, comma 1, c.p.c., principio di diritto). E ciò, dice Calamandrei, anche se può apparire «illogico che una sentenza si consideri come non mai esistita (…) per il solo fatto che il giudice nell'applicare la legge l'ha interpretata in un senso erroneo». La causa petendi dell'azione di impugnativa sarebbe da individuare, dunque, nel motivo di ricorso prospettato dall'interessato, al quale il Supremo Collegio è astretto – secondo il Maestro fiorentino – giacchè se, ai fini della decisione, se ne discostasse, incorrerebbe nel vizio di eccesso di potere. Questa impostazione dogmatica è stata recepita in toto dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa (Cass. 25332/2014).

Il controllo di legittimità ed il sistema multilivello delle fonti del diritto. Il dialogo tra le Corti. Il ruolo della Cassazione nell'applicazione del diritto comunitario e della CEDU

La centralità della Cassazione, sul piano del diritto sostanziale, può essere compresa a fondo riflettendo sulla centralità del giudice nell'odierno assetto delle fonti. Prima dell'entrata in vigore della Costituzione, il sistema delle fonti trovava fondamento normativo solo nell'art. 1 disp. prel. c.c., del ‘42, che richiamava – in ordine gerarchico – le leggi, i regolamenti, le norme corporative e gli usi. La legge è, dunque, l'elemento chiave del sistema delle fonti pre-costituzionale, ma nelle sue declinazioni contingenti essa spesso non si coniuga con i principi superiori di giustizia.

Nel 1938 in Italia le leggi razziali eliminano con un tratto di penna i diritti civili e di libertà di oltre 40.00 persone di origine ebraica, anche se cittadini italiani. il quadro formale dell'ordinamento giuridico si adeguò ad una scelta precisa della politica e dello Stato. Non così parte della magistratura, appellandosi agli scarni principi dello Statuto Albertino.

La situazione muta radicalmente con la Costituzione del '48, giacchè il passaggio dallo Stato di diritto ottocentesco allo Stato costituzionale segna proprio l'incontro tra forma e sostanza del diritto: aumento delle fonti di produzione, con l'inclusione nelle stesse delle norme della Costituzione, sovraordinate a tutte le altre, e tuttavia – nello stesso tempo – non più indifferenza per i contenuti, in una prospettiva di stampo squisitamente normativistico (Kelsen), ma recepimento di principi (solidarietà, eguaglianza, diritto al lavoro, libertà di espressione del pensiero, e così via) che vengono ad introdurre nello stesso diritto positivo – come è stato significativamente evidenziato – «principi di diritto giusto» (Mengoni).

Accade allora che ciò che per secoli si è ricercato in un diritto non scritto – costituente il distillato di una ragione giuridica universale superiore allo ius in civitate positum – tale da imporsi anche agli ordinamenti statuali, diviene il contenuto dello stesso diritto positivo, ad un livello superiore a quello legislativo. Con l'avvento della Costituzione, in altri termini, si comincia a contestare che il diritto si esprima tutto nella legge. Si inizia – per vero – a parlare di un “diritto vivente”, diverso dal diritto vigente, di una pluralità di fonti anche a carattere extranazionale; e la complessità del sistema di produzione attribuisce all'interprete poteri e responsabilità nuove. Al carattere universale dei diritti, che in tal modo si fa strada, corrisponde, invero, una globalizzazione della loro tutela, che vede al centro del sistema il giudice terzo ed imparziale. Un modello sistematico, dunque, che dà spazio all'”interpretazione adeguatrice” della norma ordinaria, capace di cogliere la sua evoluzione nel confronto con la norma costituzionale, l'ordinamento comunitario ed i vincoli derivanti dai Trattati internazionali.

È, invero, proprio l'esistenza di un sistema normativo “multilivello”, caratterizzato dall'integrazione ordinamentale e da meccanismi di compenetrazione tra il diritto europeo ed il diritto nazionale, e la necessità di risolvere le antinomie normative, hanno portato al varo della l. cost. n. 3/2001, che ha modificato il titolo V della Cost., e segnatamente l'art. 117 Cost., che – nel testo novellato, al comma primo, recita: «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

Orbene, il riferimento agli «obblighi internazionali» ha posto anzitutto il problema del ruolo e dell'efficacia che, rispetto alle fonti nazionali, riveste la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, essendosi dottrina e giurisprudenza a lungo domandate se anche i trattati internazionali, come le fonti comunitarie, siano divenuti vincoli di validità rispetto alle leggi nazionali. La Consulta ha dato risposta al quesito con le decisioni Corte cost. n. 348/2007 e 349/2007 (conf. Corte cost n. 238/2009, Corte cost. n. 311/2009, Corte cost. n. 317/2009), nelle quali ha affermato che l'art. 117, comma 1, Cost., il quale, nel testo introdotto dalla l. cost. n. 3/2001 condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo, se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra attrae le stesse nella sfera di competenza della Corte costituzionale, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale. Sicché il giudice comune non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, presentandosi l'asserita incompatibilità tra le due come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, comma 1, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi. Tale norma della Carta fondamentale, invero, ed in particolare l'espressione «obblighi internazionali», colmando una lacuna prima esistente nel sistema, si riferisce alle norme internazionali convenzionali, come la CEDU, anche diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 Cost., che fa riferimento alle norme internazionali consuetudinarie, e 11 Cost., non essendo possibile l'inserimento della CEDU tra le limitazioni di sovranità consentite da tale norma. L'incidenza della normativa internazionale in parola, in determinati limiti anche in via diretta nell'ordinamento, è stata, peraltro, affermata dalla Cassazione, che ha ritenuto che la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, una volta divenuta definitiva ai sensi dell'art. 44 CEDU, ha effetti precettivi immediati assimilabili al giudicato e, in quanto tale, deve essere tenuta in considerazione dall'organo dello Stato che, in ragione della sua competenza, è al momento il destinatario naturale dell'obbligo giuridico, derivante dall'art. 1 CEDU, di conformare e di non contraddire la sua decisione al deliberato della Corte di Strasburgo per la parte in cui abbia acquistato autorità di cosa giudicata in riferimento alla stessa "quaestio disputanda" della quale continua ad occuparsi detto organo (Cass. 19985/2011).

La centralità del ruolo del giudice di legittimità si coglie, peraltro, in maniera vieppiù significativa, nel rapporto tra ordinamenti diversi, e segnatamente con l'ordinamento comunitario. È, infatti, ormai acquisizione comune quella secondo cui l'ordinamento comunitario sia in un rapporto di integrazione con quello nazionale, nel senso che, pur essendo distinti dal punto di vista genetico, confluiscono nell'ambito di un ordinamento unitario, nel quale al diritto comunitario cogente è assegnato un ruolo assolutamente preminente. Tale acquisizione risale ormai a cinquant'anni fa, essendo ravvisabile, per la prima volta, nella decisione Van Gend en Loos CGUE 5 marzo 1963 n. 26, nella quale la Corte di Lussemburgo ha affermato che la Comunità Economica Europea costituisce un «ordinamento giuridico di nuovo genere» nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati membri hanno rinunziato, se pure in settori limitati, alla loro sovranità, Il diritto comunitario – statuisce la Corte – indipendentemente dalle norme emanate dagli Stati membri, nello stesso modo in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi. Tali diritti – a giudizio del giudice europeo – sorgono non soltanto allorchè il Trattato espressamente li menziona, ma anche quale contropartita di precisi obblighi che il Trattato stesso impone ai singoli, agli Stati membri ed alle istituzioni comunitarie. Ebbene, osserva la Corte, il fatto che gli artt. 169 e 170 del Trattato CE consentano alla Commissione ed agli Stati membri di convenire dinanzi alla Corte lo Stato che venga meno ai suoi obblighi, non implica che ai singoli sia precluso di azionare la violazione di tali obblighi dinanzi ai giudizi nazionali, atteso il carattere precettivo dell'art. 12 del Trattato CE, che attribuisce ai singoli diritti soggettivi che il giudici nazionali sono tenuti a tutelare.

E va considerato l'obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza rimettere la causa alla Corte di giustizia dell'Unione europea, ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'UE (già art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità europea), che viene meno solo quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria, in quanto la questione sollevata sia materialmente identica ad altra, già sottoposta alla Corte in analoga fattispecie, ovvero quando sul problema giuridico esaminato si sia formata una consolidata giurisprudenza di detta Corte (Cass., Sez. Un., n. 12067/2007; Cass., Sez. Un., n. 8095/2007; Cass., Sez. Un., n. 20701/2013). In definitiva, dunque, il giudice nazionale, nel rapporto con le norme comunitarie cogenti (regolamenti, direttive, decisioni), ha due strumenti essenziali. Il primo è rappresentato dall'”interpretazione adeguatrice”, che riconduce i poteri del giudice all'interno dei confini dei propri poteri costituzionalmente definiti (come per l'interpretazione costituzionalmente orientata), e non pone, dunque, problemi di deroga all'art. 101, comma 2, Cost., secondo cui «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Tale strumento si traduce, infatti, in un'attività che rientra nell'ambito del percorso ermeneutico, istituzionalmente demandato a qualsiasi organo giudicante. Il secondo strumento è costituito dalla “disapplicazione”, che è un istituto che presuppone una forma di “patologia” dell'atto, e che costituisce una deviazione dal canone della soggezione del giudice alla legge. Siffatto strumento pone, pertanto, il problema di giustificare il superamento del filtro del giudizio di legittimità costituzionale. In tal senso, è l'avvenuta costituzionalizzazione degli obblighi internazionali e comunitari a comportare che la norma di legge confliggente sia, bensì, incostituzionale, ma che essa sia anche “anticomunitaria”, ossia affetta da un vizio ancora più radicale che non può che comportarne la disapplicazione, e non un ritorno al sistema della declaratoria di incostituzionalità (C. Cost. 9 giugno 2010 n. 241). Talchè spetta al giudice nazionale, prima di procedere ad un'eventuale disapplicazione delle disposizioni interne confliggenti (nella specie, misure di razionalizzazione della finanza pubblica), verificare, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo complesso, tanto sotto il profilo materiale quanto sotto quello procedurale, se non gli sia in nessun caso possibile giungere ad un'interpretazione del suo diritto nazionale che gli consenta di dirimere la controversia di cui al procedimento principale in modo conforme al dettato e alla finalità del diritto della UE; allorché siffatta interpretazione non sia possibile, spetterà, di contro, al giudice nazionale disapplicare, nel procedimento principale, le disposizioni interne ad esso contrarie (cfr. C. Giust. UE, 97/2012).

La recente riforma del giudizio di cassazione: una nuova ideologia del giudizio di legittimità?

L'art. 1-bis, l.25 ottobre 2016, n. 197, lett. a) modifica l'art. 375 c.p.c. prevede che la Corte, quando la controversia è assegnata ad una sezione semplice, e non alle Sezioni Unite, pronuncia con ordinanza in camera di consiglio. Si ricorre all'udienza pubblica solo se la sezione filtro non riesce a definire il giudizio in camera di consiglio o se la questione di diritto sulla quale la Corte si deve pronunciare riveste una «particolare rilevanza».

L'art. 377 c.p.c. novellato rimette ad un decreto del presidente l'ordine di integrazione del contraddittorio o di esecuzione della notificazione dell'impugnazione (attualmente la Corte provvede con ordinanza in camera di consiglio). L'ordine di intervento delle parti nella discussione è invertito: prima la relazione del consigliere relatore, poi il P.G., infine i difensori delle parti (art. 1-bis, lett. c e d).

La lettera f) dell'art. 1 bis introduce nel codice di rito il nuovo art. 380-bis 1, volto a disciplinare il procedimento camerale dinanzi alle sezioni semplici: il P.M. e le parti dovranno ricevere comunicazione della fissazione della camera di consiglio almeno 40 giorni prima; il P.M. potrà depositare le sue conclusioni scritte non oltre 20 giorni prima dell'adunanza in camera di consiglio, mentre le parti non oltre 10 gg. prima dell'adunanza.

La Corte deciderà sulla base delle carte depositate «senza l'intervento del pubblico ministero e delle parti». Altre disposizioni della l. n. 197/2016 riformano l'art. 380-bis c.p.c. (procedimento dinanzi alla sezione filtro, eliminazione della relazione), art. 390 c.p.c. e art. 391 c.p.c. (ampliamento dei termini per rinunciare al ricorso) e art. 391-bisc.p.c. (distinzione tra il procedimento di correzione degli errori materiali e quello di revocazione delle sentenze della Cassazione).

Limitandosi a qualche riflessione che abbia maggiore incidenza sul tema delle tecniche ed ideologie delle impugnazioni, è evidente che la filosofia della riforma è quella di snellire il processo di cassazione, prevedendo come rito ordinario quello camerale, che si conclude con ordinanza che, a norma dell'art. 134 comma 1, c.p.c. è «succintamente motivata», laddove la sentenza deve contenere «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione». Orbene, “conciso” è un discorso piuttosto breve, ma completo ed esaustivo, che esaurisce la materia del contendere; “succinto” è, invece, un discorso del tutto sintetico, per lo più compatibile con un provvedimento che non esaurisce il tema del dibattito, salvo eccezioni previste dalla legge, come nel caso dell'ordinanza ex art. 186-quater c.p.c., tuttavia – non a caso – limitata a materie molto limitate (pagamento di somme e consegna o rilascio di beni) e comunque – almeno potenzialmente – revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. Ora, è evidente la perplessità che un provvedimento di tal fatta – inserito con riferimento al giudizio che si svolge dinanzi all'organo di vertice della giurisdizione –possa essere idoneo ad assicurare l'esercizio della funzione nomofilattica che l'art. 65 ord. giud. continua ad affidare alla Cassazione, e che non si espleta soltanto sulle questioni di particolare rilevanza.

D'altro canto va rilevato che a tale innovazione in ordine al provvedimento conclusivo del giudizio non si accompagna una contestuale prescrizione – come per il processo amministrativo, con l'introduzione dell'art. 13-ter c.p.a. – in ordine alla necessaria sinteticità e chiarezza degli atti di parte. Ed è intuitivo che, se il relatore è costretto a leggere atti (come spessissimo accade) della lunghezza di 100, 150, 200 pagine, delle due l'una:

  • l'ordinanza, a dispetto del nome, diviene una sentenza, se non altro per la necessità di dare (in ultimo grado) una risposta di giustizia, sufficientemente chiara ed esaustiva, sia pure sintetica, alla parte sui diversi motivi di ricorso formulati (a volte anche 30, 40 o più);
  • o la risposta dovrà essere fornita in termini stringati apodittici ed evasivi, con una pericolosa e non auspicabile sommarizzazione del giudizio di cassazione.

Ma poi, a ben vedere, non è certo la stesura del provvedimento – sentenza o ordinanza che sia – ad impegnare particolarmente il relatore, bensì lo sono studio degli atti, le ricerche di dottrina e di giurisprudenza e l'elaborazione di proposte di decisione che mettano il più possibile la Corte al riparo da errori, attesa la responsabilità sul piano ordinamentale e risarcitorio (tutt'altro che teorico) che grava su di una Corte Suprema. Con questo non si vuole di certo dire che la redazione di un provvedimento semplificato non sia utile per accelerare la decisione della cause, ma non lo è abbastanza, se non accompagnata da altre, necessarie, misure. D'altro canto, se è senz'altro da deprecare, sul piano motivazionale, la prassi delle cd. “sentenze trattato”, non ci si può esimere dall'osservare, in sintonia con quanto sostenuto da autorevole dottrina – che l'autorevolezza della Cassazione non risiede nella sua collocazione al vertice della giurisdizione, bensì nella necessità di «assicurare la giustizia in termini generali nell'interpretazione e nell'applicazione della legge: non nelle ragioni dell'autorità, ma nell'autorità delle buone ragioni poste alla base delle decisioni» (Taruffo).

L'autorità delle buone ragioni, delle salde argomentazioni, appare, in effetti, l'unico tipo di autorità atto a rendere un interprete più qualificato di altri. Non sembra, infine, del tutto persuasiva la scelta – come rito tendenzialmente ordinario – del procedimento camerale, per assicurare la tutela diretta, ed al massimo livello, delle situazioni soggettive che rivestono il rango di diritto soggettivi o di status, per le quali la dottrina tradizionale soleva parlare di “usi ed abusi” del rito camerale (Proto Pisani), poiché concepito con riferimento a situazioni soggettive minori, considerate al di fuori di una vera e propria controversia (giurisdizione volontaria). E l'esperienza insegna che molte volte un'osservazione buttata lì dal difensore o dal P.M. o una sentenza non reperita offerta dalla parte o dal PG, possono capovolgere un convincimento e contribuire all'adozione di una decisione più corretta e più giusta. Per cui anche il rilievo che spesso si fa circa la riduzione dell'udienza ad un mero rituale, svuotato di significato, non sempre coglie nel segno. E poi, soprattutto al livello giurisdizionale massimo (una Corte Suprema senza processo pubblico è difficile immaginarla) il rito finisce per divenire sostanza, e tale è percepita dal cittadino che si affaccia in udienza, poiché tra la responsabilità giuridica al massimo livello e l'imperativo rituale la distanza è esigua. Il rito realizza a livello scenografico ciò che il principio della responsabilità giuridica legittima sul piano del diritto (Garapon).

Ad ogni buon conto, è chiaro che, al di là della diversità delle opinioni che si possono avere in merito alla novella, solo l'applicazione nel tempo potrà evidenziarne l'efficacia effettiva in termini di accelerazione dei giudizi e di smaltimento dell'arretrato, talchè una valutazione definitiva non potrà che essere operata nel prossimo futuro.

Funzione nomofilattica e nomopoietica. La Cassazione ed i rapporti con la dottrina

Nel disegnare la fisionomia che il controllo di legittimità assume nell'attuale dimensione dei rapporti giuridici non si può evitare, però, di porre l'accento sul ruolo essenziale che riveste la dottrina nel processo evolutivo della giurisprudenza in direzione di nuovi orizzonti di tutela dei diritti. Non è raro che mutamenti, anche significativi, nella lettura giurisprudenziale degli istituti, e perfino nell'agevolare il riempimento di spazi vuoti a livello legislativo nazionale, mediante il ricorso a fonti sovranazionali o attraverso le riflessioni suggerite da elaborazioni di tipo comparatistico, siano determinati proprio da suggestioni ed elaborazioni dottrinali. Basti pensare, tra le tante, alle fattispecie concernenti la risarcibilità di posizioni soggettive non aventi il rango di diritti soggettivi, o la responsabilità di tipo contrattuale da contatto sociale, introdotta da Cass. 14188/2016 con riferimento alla responsabilità precontrattuale, sulla scia di autorevole dottrina italiana, a sua volta influenzata da modelli teorici europei, in special modo tedeschi ed anglosassoni, o – da ultimo – alla recentissima pronuncia in materia di stepchid adoption, di cui a Cass. 12962/2016. Ed, in tal senso, sembrano – se non totalmente infondate – quanto meno esagerate le preoccupazioni di alcuni autori, anche recenti, secondo i quali si assisterebbe, nel tempo presente, ad una sorta di ipertrofia della giurisprudenza, sempre più creativa, e di anemia della dottrina, sempre più remissiva. Certo il giudice, a differenza del legislatore e dello scienziato del diritto subisce la “pressione del contesto” (Abbamonte), non può volgere lo sguardo altrove ed occuparsi di temi più gratificanti. Il giudice non sceglie l'oggetto delle pronunce e di regola non può negarsi (il “non liquet” non appartiene al nostro ordinamento), e la sua decisione produce diritto concreto che entra nelle carni delle persone e può far bene o male (Abbamonte). Ed è qui innegabile che la funzione del giudice, e segnatamente di quello di legittimità, vada considerata anche in un'ottica nomopoietica, oltre che nomofilattica, non fosse altro che per la necessità che il giudice ha di selezionare i fatti e di adeguare la norma al fatto concreto, ed il fatto è per sua natura plurale. Come dianzi detto, è l'”officina delle cose” a realizzare l'astratta previsione della norma, ed il compito di operare la seconda alla prima compete esclusivamente al giudice. Il potere giudiziario «così terribile tra gli uomini» (Montesquieu) è quello che dà voce alla legge, altrimenti incapace di nei rapporti.

Sotto questo solo profilo, dunque, il ruolo della Cassazione è anche nopoietico, ossia creativo, in quanto produce il diritto concreto, con aderenza allo specifico contesto fattuale, diritto che troverà applicazione in una molteplicità indeterminata di casi. ma sempre nei limiti della norma, sia pure nella sua massima potenzialità espressiva ed applicativa. In questo senso la decisione di legittimità si distingue, pertanto, dalle astratte elaborazioni della dottrina. E tuttavia, l'evoluzione degli ordinamenti, nel senso dei bisogni e delle esigenze dei cittadini, affidata in larga misura – per il menzionato fenomeno di moltiplicazione delle fonti di produzione, che ha fatto parlare di un «ritorno al diritto» (Grossi), al di là della legge – alla giurisprudenza, non può prescindere dall'apporto sinergico della dottrina e di quello fondamentale dell'avvocatura, cui compete il compito rilevantissimo – non di mera mediatrice di temi, come talvolta riduttivamente viene definita – bensì di promotrice delle tutele. E ciò soprattutto – e nella misura in cui – l'una e l'altra siano consapevoli della dimensione pluralistica che il sistema delle fonti ha ormai acquisito. il giurista del terzo millennio dovrà, giocoforza, in presenza della descritta complessità delle fonti, rifuggire da quelli che autorevole dottrina ha definito atteggiamenti da “pensiero unico”, poiché avvezzo a catalogare come “deviazione” – da respingere nel paradigma regola eccezione, o nel dualismo genere-specie – ogni diversità non riconducibile entro le linee di un collaudato schema teorico-concettuale, o ad un unico orizzonte globale di senso (Pugliatti, Scalisi). All'archetipo dell'unità, va sostituito, invero, il modello critico- interpretativo della molteplicità, nella consapevolezza che il diritto altro non è che «la sintesi del molteplice nell'uno» (Pugliatti): tanto vero che il sapere del giurista – come è ormai dato acquisito della dogmatica giuridica – è esegetico, ma soprattutto “sistematico”. Il modo giusto di leggere il presente è, invero, anche nel campo del diritto, nella proiezione verso l'avvenire, come insegnano due grandi del ‘900. Einstein ci ha ricordato, infatti, che nessun problema può essere adeguatamente risolto dalla stessa cultura che l'ha prodotto; Heidegger ha insegnato che una scienza si misura non dall'ossequio ad un metodo ricevuto, ma dalla capacità di accogliere e mettere a frutto la crisi dei propri elementi fondanti. Il millenario cammino del giurista lungo nuovi itinerari normativi è, dunque, solo all'inizio.

Guida all'approfondimento
  • CALAMANDREI, La Cassazione Civile, Torino, 1920.
  • FAZZALARI, Il giudizio civile di cassazione, Milano, 1960.
  • SATTA, Corte di Cassazione (dir. proc. civ.), in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 797 e ss.
  • CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, Padova, 1973.
  • TARUFFO, Il vertice ambiguo. Saggi sulla cassazione civile, Bologna, 1991.
  • MAZZARELLA, Analisi del giudizio civile di cassazione, Padova, 1994.
  • VALITUTTI, DE STEFANO, Le impugnazioni nel processo civile, II, Padova, 1996.
  • PANZAROLA, La cassazione civile giudice del merito, I e II, Torino, 2005.
  • IANNIRUBERTO, MORCAVALLO, Il nuovo giudizio di cassazione, 2° ed., Milano, 2010.
  • AA.VV. La cassazione civile, a cura di Acierno, Curzio e Giusti, Bari, 2011.
  • LISERRE, Riflessioni sulla genesi storica del divieto di accesso al fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 1269 e ss.
  • COCCO, Verso una cassazione Supreme Court: un parere contrario, la conferma della soggezione del giudice alla legge e una riforma possibile, in Responsabilità civile e previdenza, 2, 2016, 381 e ss.
  • TRIFONE, Il giudice in bilico. Tra tutela del diritto e considerazione del fatto, in Il potere dei conflitti. Testimonianze sulla storia della Magistratura italiana, Torino, 2015.

Sul procedimento camerale, introdotto per il giudizio di cassazione dalla novella di cui alla l. n. 197/2016, si rinvia a titolo indicativo, tra le tantissime opere, a:

  • MICHELI, Camera di consiglio, in Enc. Dir., V, Milano, 1959, 981 e ss.
  • CARNACINI, Le norme su procedimenti di giurisdizione volontaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, I, 596.
  • PROTO PISANI, Usi e abusi della procedura camerale, in Riv. dir. civ.1990, I, 396 e ss.
  • VERDE, La volontaria giurisdizione, Padova, 1989.
  • CARRATTA, La procedura camerale come contenitore “neutro” e l'accertamento dello status di figlio naturale dei minori, in Giur. it., 1996, I, 1, 1301 e ss.
  • DE STEFANO, Manuale di volontaria giurisdizione, Padova, 2002,
  • VALITUTTI, I procedimenti in camera di consiglio, in I procedimenti sommari e speciali. III. Procedimenti possessori e camerali, a cura di Sergio Chiarloni e Claudio Consolo, Torino, 2005, 211 e ss.

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