Procedimenti esproprativi: quale giurisdizione sui comportamenti della pubblica amministrazione?
30 Agosto 2017
Massima
In tema di comportamenti delle pubbliche amministrazioni, riconducibili solo occasionalmente all'esercizio di un pubblico potere, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, eccedendo tali fattispecie dall'ambito applicativo dell'art. 133, lett. g), d.lgs. n. 104/2010, che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di espropriazione per pubblica utilità aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche ammnistrazioni. Il caso
A seguito della domanda giudiziale proposta da un ente locale al Tribunale ordinario per l'accertamento dell'usucapione della proprietà di un fondo, oggetto di procedura espropriativa avviata ma non conclusa, i convenuti propongono regolamento di giuridizione dinanzi alla Corte di Cassazione, assumendo che la fattispecie sia attratta alla giurisdizione esclusiva del giudice ammnistrativo. La Corte, investita del regolamento di giurisdizione, respinge il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario. La questione
Il problema concerne l'interpretazione dell'art. 133, lett. g), D.lgs. 104/2010, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice ammininistrativo le controversie aventi ad oggetto i comportamenti delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazioni per pubblica utilità, che siano riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere. Quali sono i criteri validi per stabilire quando i comportament delle pubbliche amministrazioni siano riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere? Le soluzioni giuridiche
La Corte di Cassazione enuncia che il criterio discretivo per affermare le sussistenza della giurisdizione amministrativa sui comportamenti in materia di espropriazioni per pubbliclica utilità consiste nella possibilità di riconduzione del comportamento al potere ablativo della P.A., anche solo in via mediata. In tal senso si sono recentemente espressa le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un. n. 1092/2017), affermando la giurisdizione del giudice amminitsrativo, ai sensi dell'art. 133, lett. g) D.Lgs. 104/2010, sulla domanda di retrocessione di un fondo per la sopravvenuta decadenza della dichiarazione di pubblica utilità che ne aveva consentito l'occupazione, in quanto direttamente riconducibile all'esercizio concreto di un potere autoritativo, consistito nell'adozione di un provvedimento ablatorio (decreto di espropriazione), e del successivo e connesso comportamento, consistito nell'omessa retrocessione del bene, malgrado il verificarsi della suddetta decadenza. Il criterio era già prospettato dalle Sezioni Unite con l'ord., 3 febbraio 2016, n. 2052, per cui, al fine di affermare la giurisdizione del g.a., è necessario verificare la riconducibilità del comportamento all'esercizio del potere. Deve trattarsi, sostiene la Suprema Corte, «di una relazione che non può essere intesa come se si trattasse di una mera occasionalità della tenuta del comportamento rispetto all'esercizio del potere, giacché ciò che è occasionale è certamente spiegabile sul piano deterministico come giustificato da qualcosa d'altro, ma per ciò solo, almeno secondo un lessico normativo, non può dirsi riconducibile ad esso. Se il legislatore avesse voluto alludere semplicemente all'essere stato il comportamento occasionato dall'esercizio del potere avrebbe fatto riferimento al comportamento tenuto nell'esercizio del potere». Pertanto le Sezioni Unite ritengono che per affermare la riconducibilità della condotta del soggetto pubblico al pregresso esercizio del potere espropriativo, al fine di affermare la giurisidizone esclusiva del g.a., non deve esserci «una derivazione meramente occasionale», di tipo causale; al contrario, il comportamento cui si ascrive la lesione «deve essere la conseguenza d'un assetto d'interessi conformato da un originario provvedimento ablativo», legittimo o meno, ma comunque «espressione d'un potere amministrativo (in concreto) esistente, che abbia reso possibile la condotta successiva». Esulano pertanto dalle predette ipotesi i casi in cui l'atto o il fatto, oltre a essere diversi e autonomi, non si ricolleghino in senso causale a detto potere e, dunque, eccedano l'ambito applicativo dell'art. 133, lett. g), D.Lgs. 104/2010, «non essendo più verificabile la ragione fondante (commistione tra diritti ed interessi) di detta giurisdizione». In definitiva, secondo la Corte, «la mancata retrocessione del fondo occupato è una condotta che (quale che ne sia la ragione) si ricollega mediatamente al pregresso esercizio del potere espropriativo; l'eventuale usucapione della proprietà del fondo stesso, invece, ne è una conseguenza puramente occasionale», con la conseguenza che «la cesura logico-giuridica tra due situazioni fattuali - quella iniziale presidiata dal provvedimento amministrativo e quella successiva innescata dalla possessio ad usucapionem - dà la misura della non derivazione in senso causale della seconda condotta dalla prima». Osservazioni
La sentenza della Corte di Cassazione riflette i principi affermati dalla Corte Costituzionale in tema di giuridizione esclusiva del giudice amministrativo. Anzitutto, rileva la sent. n. 6 luglio 2004, n. 204, in cui si è affermato che, ai sensi dell'art. 103 Cost., il giudice amministrativo possa conoscere di controversie riguardanti anche diritti soggettivi soltanto nelle ipotesi in cui l'amministrazione agisca autoritativamente nell'esercizio del potere, essendo le materie di giurisdizione esclusiva “particolari” rispetto a quelle ordinariamente devolute alla giurisdizione di legittimità. Le Sezioni Unite richiamano inoltre la sentenza della Corte Costituzionale n. 191/2006, che qualifica come comportamenti riconducibili all'esercizio del potere «quelli che costituiscono esecuzione di atti o provvedimenti amministrativi», ancorché illegittimi. In buona sostanza, non basterebbe, per il radicarsi della giurisdizione esclusiva del g.a., ai sensi dell'art. 133 c.p.a., la semplice partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio, ovvero il mero coinvolgimento di un interesse pubblico, dal momento che la condizione necessaria per il radicarsi della giurisdizione è la spendita di un potere autoritativo, si concretizzi esso in atti, provvedimenti, accordi o comportamenti. Le difficoltà nell'individuazione di un preciso criterio per stabilire quando vi sia un effettivo collegamento tra il comportamento dell'amministrazione e l'esercizio del potere autoritativo si ravvisano proprio nei casi in cui, come nella fattispecie in esame, vi siano provvedimenti presupposti (dichiarazione di pubblica utilità, decreto di esproprio) successivamente annullati ovvero divenuti inefficaci. In simili ipotesi il Consiglio di Stato (Ad. Plen., sent. n. 9/2005) ritiene sussistente la giurisdizione amministrativa, dal momento che, ancorché annullata, la dichiarazione di pubblica utilità evidenzierebbe in ogni caso la connessione tra il fatto materiale e l'esercizio del potere. Tale soluzione appare la più idonea a garantire l'effettività della tutela, dal momento che, argomentando in senso contrario, si verrebbe e a privare il giudice amministrativo anche dei suoi poteri risarcitori, proprio nelle ipotesi in cui, specie nei casi di intervenuto annullamento del provvedimento “a monte”, la tutela risarcitoria è l'unico strumento in grado di ripristinare la lesione arrecata al privato. Mentre con riferimento alle ipotesi di annullamento la Corte di Cassazione si è progressivamente allineata alle tesi affermate dalla giurisprudenza amministrativa, il contrasto permane proprio con riferimento alle ipotesi di successiva perdita di efficacia del provvedimento autoritativo “a monte”. La tradizionale giurisprudenza della Corte di Cassazione riconduce tali ipotesi a comportamenti illeciti, non più giustificati dall'esercizio del potere: sebbene preceduti da provvedimenti amministrativi (es. dichiarazione di pubblica utilità), la mancata tempestiva adozione dei provvedimenti consequenziali eliminerebbe infatti qualsiasi nesso causale tra il fatto materiale (comportamento) e il potere espropriativo (autoritativo). Al contrario, per la giurisprudenza amministrativa questo nesso sarebbe sempre ravvisabile nell'originaria adozione di atti o provvedimenti, non rilevando in senso contrario che il comportamento venga compiuto nel momento in cui quei provvedimenti siano ormai divenuti inefficaci. È dunque l'esistenza di una originaria manifestazione del potere, legittimamente o illegittimamente avvenuta, elemento sufficiente per radicare la giurisdizione amministrativa. Muovendo le mosse dalle precedenti osservazioni, autorevole dottrina (E. Zampetti, Contributo allo studio del comportamento amministrativo, Torino, 2012) rileva che due sono le accezioni di comportamento riconducibile all'esercizio del potere. Secondo la prima, più aderente alla tradizionale teoria della carenza di potere, l'esistenza del provvedimento a “monte” non è sufficiente a evidenziare il collegamento tra il comportamento e l'esercizio del potere, dovendo lo stesso collegamento, per radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, permanere durante tutto l'arco della funzione amministrativa. La seconda teoria, che, a parere di chi scrive, appare più condivisibile, attribuisce alla giurisdizione del giudice amministrativo tutti i comportamenti storicamente verificatisi in conseguenza dell'avenuto esercizio del potere, rilevando solo e unicamente che sia stata compiuta un'attività dopo l'adozione di provvedimenti autoritativi, prescidendosi dalla circostanza che gli stessi siano stati successivamente annullati ovvero siano divenuti inefficaci, in tal modo privando di giustificazione il successivo comportamento osservato dall'amministrazione. |